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Avv. Davide Steccanella, Lei è autore del libro Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata edito da Bietti: quando e come si sviluppa la lotta armata in Italia?
È
stato un fenomeno insurrezionale che si è sviluppato nel finale del
Novecento in molti stati del mondo occidentale, e che in Italia si è
distinto per intensità e durata, al punto che qualcuno lo ha definito
“una guerra civile a bassa intensità”.
Del
resto, se si scorrono i numeri di quegli anni, leggiamo di 269 gruppi
armati operanti nel dicembre del 1979 secondo una nota ministeriale, di
36.000 cittadini inquisiti per banda armata di cui 6000 condannati a
molti anni di carcere, di 7866 attentati compiuti e di 4290 azioni di
violenza ai danni di persone.
Eppure
con quel significativo capitolo di storia nostrana non si è mai voluto,
o forse potuto, fare davvero i conti, e quello che in realtà fu un
grande conflitto sociale, culturale, politico e anche generazionale,
viene sbrigativamente bollato come “anni di piombo”, parafrasando il
titolo di un film della tedesca Von Trotta, che in realtà significava
tutt’altro: E condensando 15 anni di guerriglia armata nel nostro paese
al solo fatto Moro e alle Brigate rosse, come se quel fatto, che fu
certamente il momento più alto dell’attacco armato allo Stato, fosse
sorto improvvisamente una mattina di un giovedì 16 marzo del 1978, senza
un prima e senza un dopo.
Con
il risultato di rendere impossibile capire, per chi allora non c’era,
cosa è davvero successo in Italia 40 anni fa, al di là di quell’episodio
specifico.
Quali sono le radici della lotta armata nel nostro Paese?
Sono
state molteplici, e questa è la ragione per cui, a differenza che
altrove, da noi è durata di più. Le Brigate Rosse sono nate nelle
fabbriche di Milano dopo che l’autunno caldo delle lotte operaie
dell’anno prima aveva messo in crisi il vecchio modello fordista e il
sindacato tradizionale. Ma le Brigate rosse, come racconto nel mio
libro, non furono l’unica organizzazione armata di quegli anni e neppure
la prima.
Nella
seconda parte degli anni settanta, quando entrarono in crisi anche
tutti quei gruppi extraparlamentari che alla fine della precedente
decade avevano rotto con la nuova politica del PCI di Berlinguer, e
penso soprattutto allo scioglimento di Lotta Continua alla fine del
1976, tantissimi giovani entrarono nei vari gruppi armati di matrice
autonoma e del tutto diversi dalle Brigate rosse, e che si formarono
soprattutto dopo la repressione del movimento del 77, determinando
quella che verrà definito il “terrorismo diffuso”.
Inoltre
va ricordato che proprio a cavallo del passaggio delle due decadi il
nostro paese fu flagellato dallo stragismo che venne vissuto da molti
come una risposta repressiva dello Stato “deviato” per stroncare le
lotte studentesche e operaie che per la prima volta sembravano
minacciarlo seriamente. Slogan come “strategia della tensione” e
“opposti estremismi” diventeranno di uso comune e prenderà corpo
l’antifascismo militante con tutto il carico di violenza politica che
questo comportò.
E
questo non solo perché a quei tempi molti giovani comunisti erano
cresciuti con il mito della “resistenza tradita” trasmesso loro dai
padri e dai nonni partigiani,
ma anche perché in quegli anni l’Italia si trovava accerchiata dai
regimi fascisti di Portogallo, Spagna, Grecia e il rischio concreto di
un golpe militare sembrava imminente.
Quali erano i principali gruppi armati in Italia?
Il
primo a rilanciare una sorta di nuova resistenza organizzata in forme
di guerriglia urbana fu l’editore Gian Giacomo Feltrinelli che fondò i
GAP ispirandosi al noto libro del partigiano Giovanni Pesce. Poi ci fu
un gruppo di portuali di Genova che unitamente ad altri proletari in
dissenso dal locale PCI diede vita a quella che verrà chiamata la banda
22 ottobre, i cui militanti, non a caso, verranno indicati dalle Brigate
rosse quali prigionieri da scambiare quando sequestrando il giudice
Sossi passeranno dalle azioni contro i capi fabbrica dei primi tre anni
al primo vero attacco al potere dello Stato.
Dopo
le BR, da una costola del fronte carceri di Lotta Continua, si
formarono a Firenze, Roma e Napoli, i Nuclei Armati Proletari (NAP) che,
ispirandosi ai Dannati della terra di Frantz Fanon e alle
grandi rivolte carcerarie degli afroamericani appoggiati dalle Pantere
Nere, traevano linfa dal cosiddetto proletariato extralegale e tra i
detenuti che stavano dando vita in quegli anni alle lotte contro la
situazione ancora medievale delle nostre prigioni.
Dopo
la repressione delle rivolte di piazza del 1977, non dimentichiamo che
il Ministro Cossiga all’indomani dell’uccisione dello studente Lo Russo
inviò a Bologna addirittura i carri armati, tantissimi militanti
scelsero la lotta armata e si formarono tantissime nuove sigle di
matrice “autonoma”, la più importante delle quali fu certamente Prima
Linea, anch’essa nata a Milano nella cintura delle fabbriche di Sesto
San Giovanni detta allora “la Stalingrado d’Italia”, e che non aveva
nulla in comune, per fine e modello organizzativo con le Brigate Rosse.
Ma
nella seconda metà degli anni settanta anche in seno alle Brigate Rosse
mutò l’originaria ispirazione di fabbrica, perché l’organizzazione si
estese anche nel resto d’Italia laddove non vi erano addensamenti
industriali, tanto che per l’operazione Moro fu appositamente creata una
colonna romana reclutando molti ex militanti del disciolto Potere
Operaio di Piperno, Scalzone e Negri.
Infine
va ricordato che con la celebre retata padovana del 1979, anche la
complessa e variegata galassia dell’Autonomia finirà con l’abbracciare
le armi seppure in forma a sua volta differente dalle altre
organizzazioni.
Ecco
perché si arriverà, come si diceva, a contare ben 269 organizzazioni
armate alla fine del 1979, anche se in pochi anni verranno quasi tutte
smantellate e alla fine rimarranno solo le Brigate Rosse, il cui ultimo
omicidio, quello del senatore democristiano Roberto Ruffilli, data 16
aprile 1988.
Quali sono le principali vicende del periodo della tensione?
Furono
anni molto difficili e particolari, non a caso qualcuno ha definito gli
anni settanta “il decennio lungo del secolo breve”, parafrasando la
celebre frase di Eric Hobsbawm.
Sta
di fatto che dalla bomba di Piazza Fontana in poi il nostro paese ha
vissuto almeno un decennio di stragi impunite, l’ultima delle quali
ancora nel 1984 in Val di Sambro e detta la strage di natale, perché
avvenuta proprio la notte del 23 dicembre.
È
indubbio, e in questo è unanime il ricordo dei diretti protagonisti,
che anche la lotta armata sia stata figlia di quel periodo
contrassegnato da inaudita violenza politica anche da parte dello Stato.
Ma non sarebbe giusto ridurre tutti gli anni settanta a questo.
Ma non sarebbe giusto ridurre tutti gli anni settanta a questo.
Gli
anni settanta furono anche gli anni in cui si fecero le più importanti
riforme sociali del secolo, e penso allo statuto dei lavoratori o alla
chiusura dei manicomi, o al nuovo diritto di famiglia e all’ordinamento
penitenziario.
Direi
che è sotto gli occhi di tutti il fatto che, tornata la pace, nei 30
anni successivi sia stato fatto molto di meno in questo senso, e che
anzi si rischi, vedi il referendum imposto anni fa da Marchionne ai
lavoratori FIAT, di tornare indietro nel campo dei diritti acquisiti per
le categorie meno tutelate.
La lotta armata era eterodiretta?
Solo facendo un grosso torto alla Storia per ignoranza o malafede si può davvero ancora sostenere 40 anni dopo questo falso.
Basterebbe
leggere quello che stava accadendo contemporaneamente nel mondo per
rendersi conto che l’Italia non fu altro che uno dei tanti luoghi ove si
produsse quel tentativo, fallito, di sovvertire in modo radicale quanto
fino ad allora pareva immutabile.
Qualcuno ha recentemente scritto: “cos’altro
può essere più deresponsabilizzante per delle classi dirigenti la
rappresentazione di una stagione di aspro e prolungato conflitto come
un’operazione di servizi segreti e non come esplosione di
contrapposizioni sociali?”.
I
tanti cultori della “dietrologia” si attaccano da sempre ai presunti
misteri del “caso Moro”, che non fu affatto un “caso”, ma una delle
tante azioni di guerriglia armata compiute dalle brigate rosse che erano
operative da almeno otto anni.
Peraltro
anche la stessa modalità del sequestro fu pedissequamente copiata da
quello effettuato pochi mesi prima a Colonia dalla RAF con il capo degli
industriali tedeschi Schleyer, ma in Germania, dove sono evidentemente
più seri di noi, a nessuno è mai venuto in mente di ipotizzare che le
RAF fossero eterodirette.
Eppure
in Italia, dove nessuno è mai stato condannato per molte delle stragi
impunite, si continua a sostenere che migliaia di giovani finiti in
carcere avrebbero mentito per “coprire” poter occulti.
Bel risultato per il principale organizzatore proprio di quel sequestro “eterodiretto”, Moretti, il quale in cambio si trova costretto tutte le sere a rientrare in carcere dopo quasi 40 anni per scontare l’ergastolo.
Bel risultato per il principale organizzatore proprio di quel sequestro “eterodiretto”, Moretti, il quale in cambio si trova costretto tutte le sere a rientrare in carcere dopo quasi 40 anni per scontare l’ergastolo.
Chissà
quanti sanno questa cosa? Oppure che quel giovedì mattina in via Fani
c’erano tre operai, quattro borgatari romani, un contadino, una maestra e
un ex studente proletario? E che potevano essercene altri dieci perché
allora in Italia accadeva quello che stava accadendo da anni e che
sarebbe durato per altri anni ancora, pur essendo uno stato a
capitalismo avanzato e non le montagne della Sierra Nevada?
Ma
questo pare che non si possa dire, e quindi si continua a raccontare, e
lo si è fatto anche in occasione del quarantennale, che “dietro” alle
BR ci sarebbe stato chissà chi. Dico chissà chi perché anche l’ennesima
Commissione non è approdata ovviamente a nessuna “nuova verità”.
Su quali appoggi poterono contare i vari gruppi di lotta armata?
Su quegli anni, mi si perdoni il gioco di parole. Gallinari diceva sempre che i brigatisti “erano clandestini solo per il potere”,
raccontando che quando fu ferito quasi mortalmente in occasione del suo
secondo arresto, trovò subito in ospedale un’infermiera che lo aiutò e
che durante il sequestro Moro il brigatista Seghetti interveniva
pubblicamente all’assemblea degli studenti della Sapienza che ben
sapevano chi rappresentava anche senza bisogno di dirlo.
Intorno
ai militanti armati che pure furono moltissimi, vi era infatti una
larga fascia di popolazione che se non “fiancheggiava” comunque non
avrebbe mai denunciato uno di loro, perché il “clima” politici di quegli
anni era quello.
Se
si guardano le foto dei funerali bolognesi del 1979 di Barbara Azzaroni
è impressionante vedere l’intero centro della città piantonato da
migliaia di persone che salutano con il pugno chiuso la bara di una
“terrorista” morta il giorno prima a Torino in un conflitto a fuoco coi
carabinieri, mentre stava preparando un attentato.
Quella
della lotta armata è stata una tipica storia del Novecento e se non si
capisce il Novecento o lo si vuole leggere con gli occhi dell’oggi, non
si capirà mai nulla e neppure il sequestro Moro.
Come venne sconfitta la lotta armata?
Fu
sconfitto soprattutto un modello sociale che stava per finire e che
sarebbe stato spazzato via, insieme a molte altre utopie del novecento,
già dalla seconda metà degli anni Ottanta, non a caso definiti gli anni
del riflusso.
Quindi
fu principalmente una sconfitta storica perché era un secolo che stava
finendo e non iniziando, qualcuno di loro ha detto “confondemmo l’alba
con il tramonto”.
Certamente
vi fu anche una sconfitta militare perché lo Stato alla fine, anche se
ci mise parecchio, riuscì ad arrestarli tutti o quasi, anche se dovette
ricorrere a leggi speciali, come quella sui pentiti, e talvolta anche
alla tortura per farli parlare, come in occasione della liberazione del
generale NATO Dozier,e non si trattò di episodio isolato.
Di
questo aspetto tuttavia si parla molto poco, tanto che sono sicuro che
in ben pochi lo conoscono, anche se è stato recentemente accertato da
una Sentenza del Tribunale di Perugia e che cito nel mio libro.
Quali conseguenze ha prodotto il periodo della lotta armata in Italia?
Questo
non lo so e lo lascio dire agli storici di professione, io di mestiere
faccio l‘avvocato e la passione per la storia l’ho ereditata dal mio
papà.
Nel
libro mi sono limitato a raccontare tutto quello che è successo non
troppi anni fa nel mio paese, facendo una ricerca lunga e accurata e
ascoltando soprattutto chi quella lotta armata l’aveva fatta, perché in
pochi fino ad oggi lo avevano fatto. Sarà il lettore a trarre, se lo
vorrà, le conseguenze che riterrà.
Quel
che è certo è che si è trattato di un fenomeno storico importante che
come tutti i fenomeni storici è soprattutto accaduto e che per questo
sarebbe giusto ricostruirlo in modo corretto e senza pregiudizi o altri
fini.
È possibile trarre un bilancio storiografico di quel periodo?
Che
da sempre la storia la scrive chi vince, che la ribellione è
connaturata all’uomo che prima o poi si stanca di subire e che per poter
davvero incidere in qualche modo contro il potere costituito, ammesso
ovviamente che lo si voglia fare, è necessario organizzarsi in gruppo,
perché da soli non si va da nessuna parte. Ma queste sono tre cose
talmente banali che sinceramente non credo occorra leggere le 540 pagine
del mio libro per scoprirlo.
Se
invece qualcuno è interessato a capire come sia stato possibile che non
troppi anni fa migliaia di italiani abbiano deciso di armarsi e di
dichiarare guerra allo Stato, e magari sapere qualcosa in più su di
loro, allora credo che valga la pena di leggere questo saggio.
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