lunedì 24 giugno 2019

Libro. “Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”.

 

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Avv. Davide Steccanella, Lei è autore del libro Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata edito da Bietti: quando e come si sviluppa la lotta armata in Italia?

È stato un fenomeno insurrezionale che si è sviluppato nel finale del Novecento in molti stati del mondo occidentale, e che in Italia si è distinto per intensità e durata, al punto che qualcuno lo ha definito “una guerra civile a bassa intensità”.
Del resto, se si scorrono i numeri di quegli anni, leggiamo di 269 gruppi armati operanti nel dicembre del 1979 secondo una nota ministeriale, di 36.000 cittadini inquisiti per banda armata di cui 6000 condannati a molti anni di carcere, di 7866 attentati compiuti e di 4290 azioni di violenza ai danni di persone.
Eppure con quel significativo capitolo di storia nostrana non si è mai voluto, o forse potuto, fare davvero i conti, e quello che in realtà fu un grande conflitto sociale, culturale, politico e anche generazionale, viene sbrigativamente bollato come “anni di piombo”, parafrasando il titolo di un film della tedesca Von Trotta, che in realtà significava tutt’altro: E condensando 15 anni di guerriglia armata nel nostro paese al solo fatto Moro e alle Brigate rosse, come se quel fatto, che fu certamente il momento più alto dell’attacco armato allo Stato, fosse sorto improvvisamente una mattina di un giovedì 16 marzo del 1978, senza un prima e senza un dopo.
Con il risultato di rendere impossibile capire, per chi allora non c’era, cosa è davvero successo in Italia 40 anni fa, al di là di quell’episodio specifico.

Quali sono le radici della lotta armata nel nostro Paese?

Sono state molteplici, e questa è la ragione per cui, a differenza che altrove, da noi è durata di più. Le Brigate Rosse sono nate nelle fabbriche di Milano dopo che l’autunno caldo delle lotte operaie dell’anno prima aveva messo in crisi il vecchio modello fordista e il sindacato tradizionale. Ma le Brigate rosse, come racconto nel mio libro, non furono l’unica organizzazione armata di quegli anni e neppure la prima.
Nella seconda parte degli anni settanta, quando entrarono in crisi anche tutti quei gruppi extraparlamentari che alla fine della precedente decade avevano rotto con la nuova politica del PCI di Berlinguer, e penso soprattutto allo scioglimento di Lotta Continua alla fine del 1976, tantissimi giovani entrarono nei vari gruppi armati di matrice autonoma e del tutto diversi dalle Brigate rosse, e che si formarono soprattutto dopo la repressione del movimento del 77, determinando quella che verrà definito il “terrorismo diffuso”.
Inoltre va ricordato che proprio a cavallo del passaggio delle due decadi il nostro paese fu flagellato dallo stragismo che venne vissuto da molti come una risposta repressiva dello Stato “deviato” per stroncare le lotte studentesche e operaie che per la prima volta sembravano minacciarlo seriamente. Slogan come “strategia della tensione” e “opposti estremismi” diventeranno di uso comune e prenderà corpo l’antifascismo militante con tutto il carico di violenza politica che questo comportò.
E questo non solo perché a quei tempi molti giovani comunisti erano cresciuti con il mito della “resistenza tradita” trasmesso loro dai padri e dai nonni partigiani, ma anche perché in quegli anni l’Italia si trovava accerchiata dai regimi fascisti di Portogallo, Spagna, Grecia e il rischio concreto di un golpe militare sembrava imminente.

Quali erano i principali gruppi armati in Italia?

Il primo a rilanciare una sorta di nuova resistenza organizzata in forme di guerriglia urbana fu l’editore Gian Giacomo Feltrinelli che fondò i GAP ispirandosi al noto libro del partigiano Giovanni Pesce. Poi ci fu un gruppo di portuali di Genova che unitamente ad altri proletari in dissenso dal locale PCI diede vita a quella che verrà chiamata la banda 22 ottobre, i cui militanti, non a caso, verranno indicati dalle Brigate rosse quali prigionieri da scambiare quando sequestrando il giudice Sossi passeranno dalle azioni contro i capi fabbrica dei primi tre anni al primo vero attacco al potere dello Stato.
Dopo le BR, da una costola del fronte carceri di Lotta Continua, si formarono a Firenze, Roma e Napoli, i Nuclei Armati Proletari (NAP) che, ispirandosi ai Dannati della terra di Frantz Fanon e alle grandi rivolte carcerarie degli afroamericani appoggiati dalle Pantere Nere, traevano linfa dal cosiddetto proletariato extralegale e tra i detenuti che stavano dando vita in quegli anni alle lotte contro la situazione ancora medievale delle nostre prigioni.
Dopo la repressione delle rivolte di piazza del 1977, non dimentichiamo che il Ministro Cossiga all’indomani dell’uccisione dello studente Lo Russo inviò a Bologna addirittura i carri armati, tantissimi militanti scelsero la lotta armata e si formarono tantissime nuove sigle di matrice “autonoma”, la più importante delle quali fu certamente Prima Linea, anch’essa nata a Milano nella cintura delle fabbriche di Sesto San Giovanni detta allora “la Stalingrado d’Italia”, e che non aveva nulla in comune, per fine e modello organizzativo con le Brigate Rosse.
Ma nella seconda metà degli anni settanta anche in seno alle Brigate Rosse mutò l’originaria ispirazione di fabbrica, perché l’organizzazione si estese anche nel resto d’Italia laddove non vi erano addensamenti industriali, tanto che per l’operazione Moro fu appositamente creata una colonna romana reclutando molti ex militanti del disciolto Potere Operaio di Piperno, Scalzone e Negri.
Infine va ricordato che con la celebre retata padovana del 1979, anche la complessa e variegata galassia dell’Autonomia finirà con l’abbracciare le armi seppure in forma a sua volta differente dalle altre organizzazioni.
Ecco perché si arriverà, come si diceva, a contare ben 269 organizzazioni armate alla fine del 1979, anche se in pochi anni verranno quasi tutte smantellate e alla fine rimarranno solo le Brigate Rosse, il cui ultimo omicidio, quello del senatore democristiano Roberto Ruffilli, data 16 aprile 1988.

Quali sono le principali vicende del periodo della tensione?

Furono anni molto difficili e particolari, non a caso qualcuno ha definito gli anni settanta “il decennio lungo del secolo breve”, parafrasando la celebre frase di Eric Hobsbawm.
Sta di fatto che dalla bomba di Piazza Fontana in poi il nostro paese ha vissuto almeno un decennio di stragi impunite, l’ultima delle quali ancora nel 1984 in Val di Sambro e detta la strage di natale, perché avvenuta proprio la notte del 23 dicembre.
È indubbio, e in questo è unanime il ricordo dei diretti protagonisti, che anche la lotta armata sia stata figlia di quel periodo contrassegnato da inaudita violenza politica anche da parte dello Stato.
Ma non sarebbe giusto ridurre tutti gli anni settanta a questo.
Gli anni settanta furono anche gli anni in cui si fecero le più importanti riforme sociali del secolo, e penso allo statuto dei lavoratori o alla chiusura dei manicomi, o al nuovo diritto di famiglia e all’ordinamento penitenziario.
Direi che è sotto gli occhi di tutti il fatto che, tornata la pace, nei 30 anni successivi sia stato fatto molto di meno in questo senso, e che anzi si rischi, vedi il referendum imposto anni fa da Marchionne ai lavoratori FIAT, di tornare indietro nel campo dei diritti acquisiti per le categorie meno tutelate.

La lotta armata era eterodiretta?

Solo facendo un grosso torto alla Storia per ignoranza o malafede si può davvero ancora sostenere 40 anni dopo questo falso.
Basterebbe leggere quello che stava accadendo contemporaneamente nel mondo per rendersi conto che l’Italia non fu altro che uno dei tanti luoghi ove si produsse quel tentativo, fallito, di sovvertire in modo radicale quanto fino ad allora pareva immutabile.
Qualcuno ha recentemente scritto: cos’altro può essere più deresponsabilizzante per delle classi dirigenti la rappresentazione di una stagione di aspro e prolungato conflitto come un’operazione di servizi segreti e non come esplosione di contrapposizioni sociali?”.
I tanti cultori della “dietrologia” si attaccano da sempre ai presunti misteri del “caso Moro”, che non fu affatto un “caso”, ma una delle tante azioni di guerriglia armata compiute dalle brigate rosse che erano operative da almeno otto anni.
Peraltro anche la stessa modalità del sequestro fu pedissequamente copiata da quello effettuato pochi mesi prima a Colonia dalla RAF con il capo degli industriali tedeschi Schleyer, ma in Germania, dove sono evidentemente più seri di noi, a nessuno è mai venuto in mente di ipotizzare che le RAF fossero eterodirette.
Eppure in Italia, dove nessuno è mai stato condannato per molte delle stragi impunite, si continua a sostenere che migliaia di giovani finiti in carcere avrebbero mentito per “coprire” poter occulti.
Bel risultato per il principale organizzatore proprio di quel sequestro “eterodiretto”, Moretti, il quale in cambio si trova costretto tutte le sere a rientrare in carcere dopo quasi 40 anni per scontare l’ergastolo.
Chissà quanti sanno questa cosa? Oppure che quel giovedì mattina in via Fani c’erano tre operai, quattro borgatari romani, un contadino, una maestra e un ex studente proletario? E che potevano essercene altri dieci perché allora in Italia accadeva quello che stava accadendo da anni e che sarebbe durato per altri anni ancora, pur essendo uno stato a capitalismo avanzato e non le montagne della Sierra Nevada?
Ma questo pare che non si possa dire, e quindi si continua a raccontare, e lo si è fatto anche in occasione del quarantennale, che “dietro” alle BR ci sarebbe stato chissà chi. Dico chissà chi perché anche l’ennesima Commissione non è approdata ovviamente a nessuna “nuova verità”.

Su quali appoggi poterono contare i vari gruppi di lotta armata?

Su quegli anni, mi si perdoni il gioco di parole. Gallinari diceva sempre che i brigatisti “erano clandestini solo per il potere”, raccontando che quando fu ferito quasi mortalmente in occasione del suo secondo arresto, trovò subito in ospedale un’infermiera che lo aiutò e che durante il sequestro Moro il brigatista Seghetti interveniva pubblicamente all’assemblea degli studenti della Sapienza che ben sapevano chi rappresentava anche senza bisogno di dirlo.
Intorno ai militanti armati che pure furono moltissimi, vi era infatti una larga fascia di popolazione che se non “fiancheggiava” comunque non avrebbe mai denunciato uno di loro, perché il “clima” politici di quegli anni era quello.
Se si guardano le foto dei funerali bolognesi del 1979 di Barbara Azzaroni è impressionante vedere l’intero centro della città piantonato da migliaia di persone che salutano con il pugno chiuso la bara di una “terrorista” morta il giorno prima a Torino in un conflitto a fuoco coi carabinieri, mentre stava preparando un attentato.
Quella della lotta armata è stata una tipica storia del Novecento e se non si capisce il Novecento o lo si vuole leggere con gli occhi dell’oggi, non si capirà mai nulla e neppure il sequestro Moro.

Come venne sconfitta la lotta armata?

Fu sconfitto soprattutto un modello sociale che stava per finire e che sarebbe stato spazzato via, insieme a molte altre utopie del novecento, già dalla seconda metà degli anni Ottanta, non a caso definiti gli anni del riflusso.
Quindi fu principalmente una sconfitta storica perché era un secolo che stava finendo e non iniziando, qualcuno di loro ha detto “confondemmo l’alba con il tramonto”.
Certamente vi fu anche una sconfitta militare perché lo Stato alla fine, anche se ci mise parecchio, riuscì ad arrestarli tutti o quasi, anche se dovette ricorrere a leggi speciali, come quella sui pentiti, e talvolta anche alla tortura per farli parlare, come in occasione della liberazione del generale NATO Dozier,e non si trattò di episodio isolato.
Di questo aspetto tuttavia si parla molto poco, tanto che sono sicuro che in ben pochi lo conoscono, anche se è stato recentemente accertato da una Sentenza del Tribunale di Perugia e che cito nel mio libro.

Quali conseguenze ha prodotto il periodo della lotta armata in Italia?

Questo non lo so e lo lascio dire agli storici di professione, io di mestiere faccio l‘avvocato e la passione per la storia l’ho ereditata dal mio papà.
Nel libro mi sono limitato a raccontare tutto quello che è successo non troppi anni fa nel mio paese, facendo una ricerca lunga e accurata e ascoltando soprattutto chi quella lotta armata l’aveva fatta, perché in pochi fino ad oggi lo avevano fatto. Sarà il lettore a trarre, se lo vorrà, le conseguenze che riterrà.
Quel che è certo è che si è trattato di un fenomeno storico importante che come tutti i fenomeni storici è soprattutto accaduto e che per questo sarebbe giusto ricostruirlo in modo corretto e senza pregiudizi o altri fini.

È possibile trarre un bilancio storiografico di quel periodo?

Che da sempre la storia la scrive chi vince, che la ribellione è connaturata all’uomo che prima o poi si stanca di subire e che per poter davvero incidere in qualche modo contro il potere costituito, ammesso ovviamente che lo si voglia fare, è necessario organizzarsi in gruppo, perché da soli non si va da nessuna parte. Ma queste sono tre cose talmente banali che sinceramente non credo occorra leggere le 540 pagine del mio libro per scoprirlo.
Se invece qualcuno è interessato a capire come sia stato possibile che non troppi anni fa migliaia di italiani abbiano deciso di armarsi e di dichiarare guerra allo Stato, e magari sapere qualcosa in più su di loro, allora credo che valga la pena di leggere questo saggio.

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