Libro Bianco sulle droghe, l’Italia continua a usare il carcere per gestire le tossicodipendenze Siamo alla decima edizione, ma potremmo continuare a leggere ogni anno anche solo la prima: cambia qualche numero, qualche tema di approfondimento, ma non cambia la sostanza del fatto che le politiche ideologiche e repressive sulla droga sono fallimentari e dannose in termini di costi sociali ed economici.
La war on drugs, lanciata dal presidente statunitense Richard Nixon all’inizio degli anni 70 e declinata all’italiana da Bettino Craxi alla fine degli 80, ha avuto effetti rovinosi in tutto il mondo, come ammesso anche dalle Nazioni Unite che sono state per quasi settant’anni le vere responsabili dell’approccio proibizionista globale.
Scienziati e studiosi da ogni continente hanno negli ultimi anni dimostrato come sia necessario perseguire politiche di prevenzione, cura della persona e riduzione del danno se davvero si vuole promuovere la salute pubblica.
I Paesi dove più si persegue la criminalizzazione delle tossicodipendenze sono anche quelli dove inevitabilmente si hanno i costi più alti in termini di salute (in quanti rinunciano a chiedere farmaci antiretrovirali per l’Hiv per paura di venire incriminali, per dirne una?).
La repressione attorno alla droga costa circa 100 miliardi l’anno e ad avvantaggiarsene sono solo i grandi cartelli criminali.

Nonostante tutto ciò sia oramai di pubblico dominio, in Italia si continua a utilizzare prepotentemente lo strumento carcerario nella gestione delle tossicodipendenze. Come si legge nel Libro Bianco presentato stamattina, nel 2018 il 30% degli ingressi in carcere è stato legato a un unico articolo di legge, il 73 del Testo Unico sulle droghe, che sostanzialmente riguarda la detenzione di sostanze illecite a fini di spaccio. Su 59.655 persone presenti nelle carceri italiane al 31 dicembre 2018, 14.579 erano detenute con la sola imputazione di questo articolo.
Il sovraffollamento carcerario non scende dal cielo, ma è frutto di scelte politiche precise. In questo caso, la scelta è quella di criminalizzare i consumatori di sostanze per i quali il piccolo spaccio è conseguente alla condizione di tossicodipendenza. Ancora al 31 dicembre scorso erano infatti 16.669 i detenuti dichiarati tossicodipendenti, vale a dire il 27,94% del totale. “Una percentuale”, come si legge nel Libro Bianco, “che supera il picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), poi riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi correttivi”. Tra coloro che hanno fatto ingresso in carcere nel corso dell’anno, quasi il 40% era costituito da persone tossicodipendenti. Una percentuale drammatica, che pone l’Italia in controtendenza rispetto alle acquisizioni più consolidate sul tema del contrasto alla droga.
Se diamo infine uno sguardo al numero di persone segnalate al prefetto per il solo consumo di sostanze illecite, nel corso del 2018 sono state 39.278 (le sanzioni amministrative comminate sono state 15.126). Solo 82 di loro sono state invitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario. Risulta dunque evidente come tale segnalazione dei consumatori abbia natura essenzialmente sanzionatoria. Per quasi l’80% la sanzione riguarda i consumatori di derivati della cannabis, con un grande stacco rispetto ai consumatori di cocaina (14,34%) ed eroina (4,39%).
Nel marzo scorso la Lega ha presentato un disegno di legge volto a colpire con maggiore forza repressiva il piccolo e piccolissimo spaccio. Il solito meccanismo: la voce grossa per una manciata di spicciolo consenso a spese delle nostre tasche e dei nostri ragazzi. Nessuna vera informazione. Inviterei chi ha scritto quel testo a leggere, uno tra tanti, un numero del British Medical Journal, tra le più autorevoli riviste mediche al mondo, uscito un paio di anni fa e dedicato al fallimento delle politiche proibizioniste sulla droga. Ci fidiamo di Salvini o di chi, dati alla mano, ha alle spalle una vita di studio?