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Io ero giornalista quando potevo fare quello che vedete in foto. Era
un altro universo, secolo, epoca, oggi scomparsi per me. C’è un mio
video che è circolato molto e in cui lascio una specie di “testamento”,
indicato nel mio recente articolo sui metodi ‘fai-da-te’ di procurarsi
eutanasia quando il morire ci riduce il fine-vita a un insulto alla
dignità e ad un’agonia per nulla, mentre né medici né familiari sanno o
possono aiutarci a spegnerci degnamente. Il video si conclude con un
addio ai lettori, nel mio rammarico di non aver potuto fare di più come
giornalista (si legga però l’ultimo paragrafo). Per coloro che non si
danno pace su come sia possibile che un Paolo Barnard getti la spugna
del giornalismo, a prescindere da ciò che mi accade nella vita privata, è
mio dovere ripetere, molto più in sintesi, ciò che già scrissi mesi fa.
Eccovelo, e un abbraccio a tutti. Non mi è più possibile essere
giornalista. In primo luogo il mio lavoro è stato devastato dal Facebook-journalism
e dal Twitter-journalism, due tumori del mestiere che ricadono sotto
l’ombrello del Google-journalism, o peggio persino, col
Netflix-journalism.
Oggi chiunque dal pc può infarcirsi di Google search, poi sparare
‘giornalismo’ nel web, Social o persino sui quotidiani online e
reclamare, buffonescamente, competenza e celebrità. Il risultato è
un’iperinflazione da Weimar di grotteschi personaggi auto proclamatisi
giornalisti o commentatori, cioè tizi che eruttano masse di ‘factoids’
sparati ogni ora e 24/7, in un impazzimento fuori controllo.
Tragicamente, hanno masse crescenti di pubblico stolto al seguito, che a
ogni ‘factoid’ proclama “ecco la verità!”. Fra l’altro è proprio questo
pubblico che ha preteso che il giornalismo diventasse intrattenimento
istantaneo a portata di click o smart phone 24/7 come Netflix. Notatelo:
ho appena scritto che i nuovi giornalistoidi dilaganti del
Google-Netflix-journalism eruttano fattoidi sparati ogni ora 24/7, ma lo
fanno perché è la gente che oggi chiede maniacalmente la news o il
commento dopo pochi minuti da qualsiasi fatto accaduto, esattamente come
oggi pretende eruzioni continue di serial e film su Netflix (+ altri) e
guai se ogni giorno non ci sono, o esattamente come stanno incollati ai
messaggi o ai like sui loro social 24/7.
Ma che cazzo di frenesia è questa? Questo non sarà mai giornalismo.
E’ una pietosa deformazione cerebrale molto ben conosciuta, ha un nome:
“Short term, dopamine driven, feedback loops”. Si tratta di una forma di
tossicodipendenza dal web studiata a tavolino nei laboratori di Facebook
(et al.) dal 2004 in poi. Gli “Short term, dopamine driven, feedback
loops” viaggiano sulla gratificazione immediata (dopamine driven) delle
risposte (feedback da like, commenti, o appunto articoli) che diventa
una tossicodipendenza (loops). Applicata al mio mestiere, ha significato
letteralmente la fine del mio mestiere. Io nacqui come giornalista e
reporter negli anni ’80, mi consolidai negli anni ’90 a “Report”, e
nella mia vita ho prodotto vero giornalismo. Cos’è il giornalismo?
Necessita di un editore in primo luogo, radio Tv o stampa; il
giornalista deve essere pagato; il
giornalista deve avere i mezzi finanziari per viaggiare, indagare, e
attendere se necessario. Queste sono le tre basi elementari e
indispensabili per qualsiasi tipo di giornalismo. Il resto è una truffa.
Il mio maggior libro, che fu il Longest-Seller e il Best-Seller della
collana Rizzoli che lo pubblicò (in foto), richiese 4 mesi di viaggi,
quasi 25.000 euro di spese vive, e quasi un anno per la pubblicazione.
Le mie inchieste Rai erano lavori maniacalmente rifiniti nel controllo dei fatti, delle fonti, e anche lì occorse tempo e denaro. Idem per il mio impegno in economia.
Quello era il giornalismo di Paolo Barnard, per un vero pubblico. Da
anni ormai quelle tre condizioni indispensabili mi sono pervicacemente
negate, e l’ostracismo degli editori contro di me ha raggiunto una tale
pervicacia che non ho più speranza di lavorare. Esprimermi su un Social
(demenziale come tutti i Social), o su un sito che è divenuto un Cult
per una setta nazionale di miei fans, non è fare giornalismo. Sottolineo
che una setta di fans non muove nulla, e infatti, da quando si sono
raccolti attorno a me, da essi non è partito assolutamente nulla di
concreto e utile nel paese.
Inutile che continuino a scrivermi “non mollare!”, cosa che fanno
perché, da drogati di “Short term, dopamine driven, feedback loops”,
pretendono il loro Barnard quotidiano, mica perché poi si danno da fare
per cambiare un cazzo nel paese, come appena scritto sopra. Ripeto:
senza i sopraccitati fondamentali mezzi, anch’io finirei col truffare i
lettori con fattoidi da Google-journalism, e sono sincero: negli ultimi
tempi ci stavo cascando. Stop. Poi c’è sempre lui, l’immortale lui: il
fatto che gli italiani sono una razza aliena nel pianeta, qui è inutile
tentare qualsiasi cosa, tutto viene deformato in parrocchiette e mafie, e
va in vacca. Tutto, io ci ho lasciato una vita, e per niente. Partimmo
da “viva il Duce” e ci siamo tornati un secolo dopo, unici al mondo
nella partenza e nell’arrivo. Che pena. Ridursi al crowdfunding è
inaccettabile. Il giornalista non può essere una ‘one man band’ dove con
una mano suoni la chitarra, con l’altra la batteria, col piede sinistro
stai in piedi e col destro tieni in bilico il cappello per l’elemosina.
In quelle stupide condizioni è impossibile produrre nulla di valido, e
infatti un’analisi profonda persino dei maggiori esempi internazionali
(“Democracy Now!”, “The Intercept”…) mostra lavori instabili e fallati,
ma peggio: costretti alla partigianeria per compiacere i donatori, che
se no se ne vanno. Di nuovo: questo non sarà mai giornalismo, il
giornalismo vero deve poter pubblicare senza preoccuparsi di compiacere
chi lo legge. Quindi basta. Così come sono fautore dell’eutanasia, anche
fatta in casa, quando la vita diventa indegna di essere vissuta, allo
stesso modo sono fautore dell’eutanasia della professione quando diventa
indegna di essere praticata. Quindi mi ritiro. Nel mio giornalismo ho
vinto alcune medaglie d’oro, la biografia che trovate in questo sito le
elenca, ho corso da ‘campione’. Se ci pensate con oculatezza, i
‘campioni’ a cui nella vita fu concesso di vincere medaglie di continuo
fino a un minuto prima di spirare sono rari come mosche bianche, quindi
rimango più che contento di aver svettato almeno qualche volta, non
poche, e non è poco. Poi vi rivelo una cosa: tutto finisce.
(Paolo Barnard, “Non posso più essere giornalista”, dal blog di Barnard del 25 maggio 2019).
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giovedì 27 giugno 2019
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