Per di più, proprio su quelle sfere della
decisione politica che restano, almeno in parte, fuori dal perimetro
della direzione sovranazionale di matrice europea:
le politiche
tributarie (flat tax),
le politiche di regolamentazione dei lavori
pubblici (Decreto ‘sblocca cantieri’) e
le politiche di sicurezza
(Decreto ‘sicurezza bis’).
Ecco il triplice pacchetto pronto per
favorire ricchi e padroni del cemento e per affinare la macchina
repressiva a presidio dell’ordine socio-economico costituito.
Di questa triade micidiale, approfondiamo
il ricorrente tema della tassa piatta, ormai utilizzato a corrente
alterna come strumento di consenso da parte della Lega, nella sua non
nuova posa antistatalista di partito della protesta fiscale. Eravamo
rimasti pochi mesi fa alla flat tax per le partite Iva. Salvini ora rilancia una riforma generale dell’Irpef, che assumerebbe le sembianze di una flat tax per le famiglie.
Quella in discussione costituisce tuttavia una versione ibrida della flat tax: la proposta più recente
si configura come una ristrutturazione del sistema impositivo sulla
base di tre aliquote che non consentono di parlare di vera e propria
flat tax, la quale implica necessariamente un’aliquota unica/piatta.
Con
poco spazio fiscale a disposizione, il governo gialloverde ha deciso di
muoversi nel perimetro dell’austerità europea e al riparo da accuse di
incostituzionalità. L’unico ostacolo all’implementazione della versione
originale, quella socialmente più odiosa, pare dunque la genuflessione dei partiti di governo al rigore fiscale.
Niente aliquota unica, quindi, ma
un’ipotesi, sempre più probabile a giudicare dalle notizie recenti, di
un sistema di tre aliquote così calibrato: 15% fino a 50.000€, 20% fino a 100.000€ e 40% oltre i 100.000€. Un sistema che sostituirebbe l’attuale Irpef a cinque aliquote,
calibrate dal 23% al 43%, rimpiazzando l’insieme di detrazioni
esistenti con una deduzione forfettaria di 3.000€ per ogni componente,
applicabile fino alla soglia dei 35.000€ di reddito familiare, che
limiterebbe solo lievemente la perdita complessiva di progressività,
inevitabile con l’introduzione di una aliquota unica sotto i 50.000€.
Nell’ideologia
che sostiene questa proposta di riforma fiscale, uno dei cavalli di
battaglia insiste sul fatto che questa andrebbe a favore del ceto medio,
come se fosse una misura pensata per dare respiro ad una vasta
categoria di soggetti, intesi come grande maggioranza della popolazione,
asfissiata da un eccessivo carico fiscale. In questa proposizione vi è
un elemento di verità e una grande menzogna.
La verità è che senza ombra
di dubbio esiste in Italia un ceto medio oberato iniquamente di
imposte.
La menzogna è che la flat tax abbia come bersaglio questo
eccessivo fardello fiscale.
Prima di tutto, occorre chiarire che cosa
sia il ceto medio.
Si può approssimativamente definire come
quell’insieme di individui o famiglie il cui reddito e patrimonio si
colloca intorno al livello mediano nella scala sociale. Secondo la
definizione dell’economista Lester Thurow, questo è composto da coloro
con un reddito tra il 75% e il 125% del livello mediano; per altri, che
considerano anche individui più ricchi, l’incerta categoria includerebbe
coloro il cui livello di reddito si colloca tra il 75% e il 200%.
Evidentemente un criterio unico non esiste e il termine è soggetto a
interpretazioni molto diversificate.
Non è dunque casuale il ricorso continuo del governo
giallo-verde al termine ‘ceto medio’, volendovi includere in modo
generico quella maggioranza che non si percepisce né ricca né povera.
Un
termine che, proprio per la sua elasticità, si adatta facilmente ad
essere piegato per mascherare regali fiscali ai veri ricchi, spacciati
furbescamente come riduzioni generalizzate delle imposte.
È proprio il caso della flat tax proposta dal governo, coadiuvato in questo aspetto da una ‘opposizione’ liberista compiacente e più realista del re.
La proposta rappresenta un arretramento in termini di progressività
rispetto al sistema vigente e pare dunque improbabile che si tratti di
una riforma vantaggiosa per la tanto corteggiata maggioranza della
popolazione, come i suoi sostenitori sbandierano ai quattro venti.
In
ogni caso, vale la pena fugare ogni dubbio, numeri alla mano.
Stando al sistema attuale, un reddito di
15.000€ lordi annui corrisponde a circa 1.100€ netti al mese, mentre
50.000€ corrispondono a circa 2.900€ netti: non proprio lo stesso
reddito!
Secondo il regime di imposte vigente,
il primo soggetto paga circa il 14% come aliquota media, mentre il
secondo circa il 30%; con la flat tax, il primo soggetto pagherebbe il
12% (una riduzione di 2 punti percentuali), il secondo il 14%
(un’aliquota media più che dimezzata).
Per capire fino a che livello della scala
di reddito la possibile riforma garantirebbe vantaggi fiscali, proviamo
a osservare il reddito mediano individuale, che in Italia è stimato
intorno a 16.500€ lordi nel 2018.
Anche volendo dare un’interpretazione
di ceto medio assai allargata verso l’alto (dal 75% al 200%), potremmo
immaginare che la cosiddetta classe media italiana sia costituita da
quella vasta platea i cui redditi lordi si collocano tra i 12.500€ e i
33.000€ annui.
I dati delle dichiarazioni Irpef peraltro ci informano
che l’80% degli italiani (dunque la stragrande maggioranza) al 2018
dichiara un reddito inferiore ai 30.000€ lordi annui.
Prendiamo allora un soggetto che
percepisce proprio 30.000€ lordi annui (circa 1.930€ netti al mese) e
che si colloca quindi nel bel mezzo della parte relativamente più
benestante del ceto medio tanto corteggiato dai politici.
Allo stato
attuale tale soggetto, senza figli o coniugi a carico, paga circa il 23%
di Irpef come aliquota media.
Con la riforma proposta la sua aliquota
scenderebbe a circa il 14%: una riduzione di quasi 10 punti
dell’aliquota media.
Per fare un altro esempio, un soggetto
che attualmente percepisce 25.000€ lordi (circa 1.650€ netti al mese),
passerebbe da un attuale aliquota intorno al 20% ad una del 13%. Anche
qui circa 7 punti di sconto al lordo delle detrazioni specifiche, qui
non considerate.
Vantaggi molto meno importanti rispetto a quelli
conseguiti da chi guadagna il triplo o il quintuplo degli importi qui
considerati.
Tornando ai redditi più elevati, un
soggetto che percepisce 100.000€ annui, che equivalgono a circa 5.500
netti al mese, ad oggi paga un’aliquota media del 36%. Con la riforma
annunciata pagherebbe il 17,5%: un’aliquota media dimezzata!
Risulta evidente allora come il risparmio
fiscale aumenti esponenzialmente al crescere del reddito.
Una simile
riforma non va quindi a vantaggio del ceto medio, ma piuttosto dei
percettori di redditi alti o molto alti. Se la riforma da un lato
abbassa, almeno in parte, il carico fiscale su una vasta platea di
contribuenti, questa avvantaggia in modo ben più marcato i ricchi, senza
peraltro sostenere significativamente i redditi più bassi. Esattamente l’opposto di una misura popolare.
Come se non bastasse, i vincoli di
bilancio – ritenuti inviolabili dal governo attuale, al netto delle
chiacchiere – impongono che una simile manovra sia necessariamente
finanziata tramite tagli di spesa e l’ennesimo e già annunciato condono.
Le voci che si susseguono ad oggi fanno ipotizzare che per il
finanziamento si farà ricorso alle risorse stanziate e non spese per
quota 100 e reddito di cittadinanza, la cancellazione degli 80 euro di
Renzi e tagli alla sanità e alle spese sociali.
Insomma, per ridurre le tasse ai ricchi
il governo giallo-verde attacca ancora lo Stato sociale e la spesa
pubblica diretta a favore delle classi svantaggiate. Un Robin Hood al
rovescio, un fenomeno che tutti i governi degli ultimi decenni hanno
tristemente riproposto: meno servizi per i lavoratori per ridurre le
imposte dei più ricchi.
Questa disamina impietosa della flat tax
naturalmente non implica che la pressione fiscale in Italia sia equa ed
accettabile. Dopo anni di stravolgimenti, l’Irpef è ormai un’imposta scarsamente progressiva,
che colpisce in modo esagerato il ceto medio, mentre favorisce
fortemente i redditi alti e altissimi, non individuando ulteriori
scaglioni oltre la soglia dei 75.000€.
Un’imposta che equipara, nella
sostanza, un reddito medio-alto ad un reddito milionario e che grava
come un fardello su chi percepisce un reddito ordinario di 1.500/1.800€
netti al mese, prevedendo salti di aliquota marginale clamorosi, come
quello dal 27% al 38% oltre la soglia del reddito non certo elevato di
28.000€ lordi annui.
Ma non è tutto: l’Irpef, come ribadito qui più volte,
ricomprende solo una parte dei redditi distribuiti, escludendo la gran
parte dei redditi da capitale e la totalità dei redditi finanziari e da
rendita immobiliare.
Senza considerare l’evasione fiscale o i
giganteschi fenomeni di elusione conseguita tramite la delocalizzazione
delle sedi fiscali in altri paesi.
Questi fenomeni sono oggi aspetti
cruciali della battaglia distributiva, fenomeni che si perpetuano nel
silenzio colpevole di tutti i partiti di maggioranza e opposizione.
- un innalzamento della no tax area;
- un drastico abbassamento delle aliquote su redditi bassi e medi;
- una maggiore gradualità e progressività, con un maggior numero di aliquote;
- una più ampia forbice di reddito interessata, ben oltre l’inadeguata soglia dei 75.000€ prevista oggi, per permettere di tassare in modo pesante i redditi milionari;
- la ricomprensione nel disegno della progressività di tutti i redditi, ad oggi volutamente sottratti all’Irpef tramite una giungla di regimi paralleli che favorisce i veri milionari e i redditi da capitale.
Un percorso diametralmente opposto
rispetto a quello sancito da anni di controriforme condivise da tutte le
forze politiche, e coronate dall’odierno progetto di legge leghista
appoggiato dai 5stelle.
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