Il mantra ripetuto nelle redazioni è “fare tanti click” per ottenere pubblicità: non importa la qualità degli articoli, l'importante è fare visite. Un libro di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, “Slow Journalism”, – oltre a condurci nel complesso mondo dell'informazione spiegandoci cosa ha portato all’attuale sfacelo – ci indica modelli virtuosi e strategie per un giornalismo di qualità. Uno strumento prezioso anche per gli addetti ai lavori.
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micromega Giacomo Russo Spena
Dopo i politici e i sindacalisti, i giornalisti sono la categoria più ingiuriata. A torto o a ragione, questo è: nell'era della crisi della rappresentanza e della sfiducia nei confronti delle istituzioni, i media tradizionali sono visti come i difensori del Sistema. La vendita dei cartacei va a picco – i dati sono impietosi – e i brand giornalistici ritenuti più affidabili sono quelli percepiti con il minor livello di politicizzazione. Quando si è rotto il rapporto tra informazione e lettori? E, soprattutto, chi ha ucciso il giornalismo italiano?
Sono le domande che si sono poste Daniele Nalbone e Alberto Puliafito nel loro libro inchiesta, a sapor di noir, dal titolo “Slow Journalism” (Fandango, 2019).
Professionalmente cresciuti e formati nel mondo della carta stampata, entrambi under 40, gli autori sono diventati nel tempo esperti di Rete e della cosiddetta transizione digitale del giornalismo. Fin dalle prime pagine del libro ci conducono nella giungla degli anglicismi che dominano l'informazione: thread, breaking news, lead, clickbaiting, Search Engine Optimization solo per citarne alcuni. Cosa significano e perché hanno a che fare con l'informazione? Slow Journalism svela subito qualche dato su cui è giusto riflettere: si sarebbe affermato un modello di informazione basato sul consumo. Il trionfo del mercato.
In un minuto su Facebook - si legge in un capitolo del testo - appaiono 41mila post e vengono generate 1,8 interazioni,
su Twitter compaiono 278mila tweet,
su Google vengono effettuate 2milioni di ricerche,
su Amazon vengono realizzate 83mila vendite,
su Instagram vengono caricate 3600 fotografie.
Tutto questo, ripeto, in un solo minuto. Un utente è fagocitato da informazioni, di qualsiasi tipo. Una sovrapproduzione che rende, ovviamente, impossibile il controllo sulla veridicità dei fatti.
Intanto i siti, per rimanere gratuiti, hanno bisogno di introiti pubblicitari. Il mantra che viene ripetuto nelle redazioni è “fare tanti click” per ottenere maggiori sponsor. Chi se ne frega della qualità degli articoli, l’importante è fare visite: ogni click – che diventa l'unico misuratore del valore – equivale a soldi in entrata per l'editore. Spiegato, allora, il fenomeno del clickbaiting, ovvero quel contenuto che nasce con l'intento di catturare il click del lettore con titoli strillati ed inventati. Tra l'altro, dato drammatico, il 59% dei link condivisi su internet non viene aperto: l'utente condivide in base al titolo, senza nemmeno leggere l'articolo.
Oltre al fenomeno diffusissimo del clickbaiting – che ha portato a siti produttori di bufale e fake news – si cerca costantemente la notizia sensazionalistica: il gossip, il sesso e le curiosità sono le notizie che vanno per la maggiore (nei manuali di comunicazione si studia proprio la regola delle 3S: sesso, sangue e soldi). “Si scambia l'informazione per intrattenimento” spiegano Nalbone e Puliafito che sottolineano come i direttori spesso chiedano “pezzi col taglio pop, come se fosse un tipo di giornalismo”. Un'informazione gentista, facile, immediata, non approfondita, che ha travolto il mestiere del giornalista.
Sì, perché a dominare l'informazione sono i social network e le piattaforme digitali. Quando si parla di social e, più in generale, di internet la premessa è obbligatoria: la Rete rappresenta uno strumento per condividere saperi e partecipazione dei cittadini. Pensiamo nel 2011 alle Primavere Arabe o al movimento degli Indignados: internet diveniva mezzo prioritario per mettere in connessione le varie piazze indignate contro il Sistema. Però, oltre alle grandi potenzialità, la Rete nasconde profondi limiti. Un lato oscuro. Se lo scopo dichiarato di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è quello di favorire una maggiore pluralità di opinioni sulla sua piattaforma, non sempre gli intenti vengono rispettati. Anzi, al contrario.
Nel libro – nel quale ci sono varie intervista ad esperti del settore – si leggono le emblematiche parole di Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano: “Il mercato mondiale dell'informazione – afferma – è dominato in modo distorto da un duopolio (Google e Facebook) che detiene più del 75 per cento degli investimenti pubblicitari. Ciò rappresenta una minaccia per la sostenibilità del sistema – non solo quello editoriale – ed è un precedente pericoloso per la libertà dell'informazione e, in definitiva, anche per la stabilità delle stesse democrazie”.
In effetti, Google, Facebook e Amazon sono le tre piattaforme su cui si concentrano gli investimenti pubblicitari del digitale, per questo per gli editori è cruciale una forte presenza sui social: standoci ricevono traffico sui siti e dunque ricavi pubblicitari. A quale costo? Di diventare schiavi di un algoritmo e delle regole dettate da Zuckerberg. Il lettore crede di servirsi del web, quando è l'esatto contrario: il padrone dell'informazione è un algoritmo. “La conseguenza del dominio dell’algoritmo è paradossale – spiega Nalbone – Di fatto i media hanno smesso di incentrare la propria attività su piani editoriali pensati per il proprio pubblico di riferimento”. A guidare le redazioni non sarebbero più i giornalisti ma gli “esperti”: esperti Seo per indicizzare gli articoli su Google o esperti social per rendere i propri contenuti virali. Per tale motivo gli investitori iniziano a rivolgersi a figure – i cosiddetti influencer – che sono emerse prepotentemente approfittando dell'abbattimento dei costi di produzione e distribuzione.
Tornando alla domanda di partenza: chi ha ucciso il giornalismo? Sicuramente gli editori, ma anche i giornalisti e un po' pure i lettori. Forse è l'intero sistema che è sbagliato e che andrebbe sabotato.
Il libro in questione ha il merito di tracciare una strada alternativa iniziando a guardare a ciò che avviene all'estero. Si menzionano, infatti, la lezione del professor Peter Laufer, autore di Slow News – Manifesto per un consumo critico dell'informazione e varie esperienze virtuose locali e nazionali. Due esempi “mainstream”: Internazionale e De Correspondent. Il primo, nato nel 1993, perché ha sfruttato il marchio – era il 2007 – creando un evento dal vivo, il Festival di Ferrara, per incontrare il proprio pubblico. E non è un caso che dopo ogni edizione si registrano sempre incrementi di vendite e abbonati. Il secondo, invece, è un vero e proprio caso: nato nel 2013 in Olanda, sfruttando la notorietà dei propri fondatori e un’ottima conoscenza del crowdfunding, De Correspondent ha convinto 15mila persone – lettori – a donare 1,3 milioni di euro. Il motivo? Fiducia. Dei lettori – e non degli utenti – nei giornalisti – e non nei creatori di contenuti.
Oggi, più che mai, è compito di un giornalista opporsi alle logiche di business che muovono social media manager o editori; la chiave del cambiamento passa per la riscrittura di nuove regole per il sistema editoriale.
Il libro elenca un decalogo – apparentemente ovvio ma purtroppo dimenticato ai più – del buon giornalista: dalla verifica delle fonti al racconto obiettivo dei fatti, dalla scelta del materiale da pubblicare all'importanza dell'approfondimento, dall'indipendenza dalle breaking news all'assenza di idee preconfenzionate. Principi basilari per svolgere un'informazione di qualità.
Rompere un sistema editoriale, per costruirne con coraggio un altro. Non ci sono scorciatoie. Un libro, Slow Journalism,
prezioso per far capire ai lettori il funzionamento del tanto
disprezzato mondo dell'informazione in Rete ma, soprattutto, utile per
gli addetti ai lavori. Sta a noi giornalisti decidere da che parte stare
e che tipo di informazione fornire ai cittadini.
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