Ilva, Fiat, Whirpool (ex Indesit), aziende grandi, medie e piccole. Ogni giorno un fallimento, una chiusura, una fuga all’estero, un tentativo di fusione che va a rotoli.
L’industria
italiana sta scomparendo a velocità supersonica – il confronto va fatto
con i tempi lunghi necessari a costruirla come sistema – e nessuno si
sta ponendo il problema nei suoi termini effettivi.
Al ministero del Lavoro si accavallano le vertenze e i tavoli, ma la risposta, nel migliore dei casi, è balbettante. Comunque concentrata per vertenze singole, come chi non riesce a staccare gli occhi dall’albero per vedere invece la foresta.
Non
c’è una sola causa, questo è evidente. La cornice è data dalla crisi
sistemica del capitalismo, soprattutto di quello “occidentale”, maturo,
inflaccidito e senza più grandi idee (la rivoluzione informatica è ormai
di quasi 40 anni fa, e ha contribuito ad azzerare molte domande sullo
sviluppo possibile una vota che l’automazione avrebbe preso il posto di
comando).
Ma
in questa crisi generale il sistema Italia ha pagato molto più della
media. E qui sono pesantissime le responsabilità dell’Unione Europea,
dell’imprenditoria e della politica nazionale, co-autori e complici di
scelte suicide o funzionali al ridisegno delle filiere produttive
continentali.
Con la caduta
del Muro e l’avvio della fase della cosiddetta “globalizzazione”, la
parola d’ordine delle classi dirigenti occidentali è stata: azzerare il costo del lavoro (con gli inevitabili corollari in termini di salario, welfare, diritti, libertà) per favorire la competitività.
In termini marxiani si può tradurre: cercare il profitto nel plusvalore assoluto,
ovvero nell’aumento dello sfruttamento dei dipendenti. Orario di lavoro
più lungo, totalmente flessibile (turni anche notturni, abolizione
pratica dei festivi, ecc), contratti precari, decontribuzione (e quindi
azzeramento dei livelli pensionistici futuri), salario evanescente o
addirittura eventuale (all’Expo 2015 di Milano è stato sperimentato
addirittura il lavoro gratuito!), divieto di organizzazione sindacale,
abolizione delle garanzie contro i licenziamenti, ecc.
Le
imprese ne hanno approfittato molto liberamente. Ma tutte o quasi hanno
di fatto rinunciato alla ricerca e allo sviluppo tecnologico,
preferendo di gran lunga la corsa alla rendita finanziaria. Ed anche lo
Stato ha seguito l’identica discesa agli inferi, contraendo la spesa
anche in questo settore ultra-strategico.
Il
congelamento della capacità tecnologica porta necessariamente fuori
mercato, prima o poi. Le contromisure possibili, per evitare i
fallimenti, sono state sempre
le stesse: delocalizzazione in paesi dove il costo del lavoro è così
basso da compensare abbondantemente anche i costi di trasporto,
ulteriore compressione salariale, svendita a multinazionali in grado di
“ottimizzare” i costi giocando sulle differenti imposizioni fiscali
nazionali, incentivi governativi, ragioni di cambio delle monete.
Una prova viene dal bollettino entrate del Ministero delle finanze (ringraziando Pasquale Cicalese per la segnalazione).
Delle entrate fiscali tra gennaio e aprile, relative alle imposte dirette, risultano positive soltanto le trattenute Irpef su lavoro privato (+3.9) e pubblico (+4.4%).
Ma il gettito del lavoro privato è quasi pari a quello pubblico: 29,8 miliardi contro 28.2. In pratica poco più di tre milioni di lavoratori pubblici versano Irpef quanto quasi 15 milioni di lavoratori privati. Ciò significa che nel privato i salari sono talmente da fame che molti rientrano ormai nella no tax area; e ovviamente anche che molti datori di lavoro non versano l’irpef dei loro dipendenti.
Il gettito fiscale dei lavoro autonomo è diminuito del 7.7%. L’Ires, imposta sui profitti, è diminuita del 24% (ma essendo aumentati i profitti, vuol dire che galoppa l’evasione). L’Iva –imposta indiretta che colpisce al di là dei redditi – è aumentata del invece 5.4%.
Ogni
tattica ha il suo limite. E l’industria italiana li sta toccando tutti
contemporaneamente. Qui si produce ormai soprattutto moda,
agroalimentare, mobili, servizi di ristorazione e turismo. Come un paese
del Terzo Mondo (che però stanno seguendo la strada all’incontrario,
verso lo sviluppo).
Mentre
l’ex Fiat non riesce neppure a trovare qualcuno che se l’accolli, a
causa della vecchiaia tecnologica che la corrode (la “cura Marchionne”,
d’altro canto, è stata la massima concentrazione di caccia al profitto
“da plusvalore assoluto”, tra modello Pomigliano e neanche un progetto
di ibrida od elettrica).
Non può essere un caso che le uniche industrie in buona salute siano quelle a partecipazione pubblica: Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Saipem, le loro controllate. Si tratta di ciò
che è sopravvissuto – per ragioni di controllo strategico – allo
smantellamento dell’Iri e dell’intervento pubblico nella produzione
industriale.
Ossia
proprio quello che i trattati europei tenderebbero a vietare (chiudendo
un occhio o tutti e due quando si tratta di complessi industriali o di utilities francesi o tedeschi).
Questo
è il punto di arrivo di un processo trentennale da cui risollevarsi,
senza un rovesciamento radicale di prospettiva, scelta strategiche,
indirizzo politico, priorità sociali ed economiche, è impossibile.
La nazionalizzazione di ogni asset
industriale a rischio chiusura o delocalizzazione non è di per sé la
“soluzione” alla crisi. E’ semplicemente la condizione indispensabile
per poter riprendere a progettare lo sviluppo di questo paese invece che subirne passivamente la demolizione.
Il resto è tempo perso, lacrime di coccodrillo, manfrina da corrotti.
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