venerdì 7 giugno 2019

Declino industriale: una scelta suicida, non un destino.

Ilva, Fiat, Whirpool (ex Indesit), aziende grandi, medie e piccole. Ogni giorno un fallimento, una chiusura, una fuga all’estero, un tentativo di fusione che va a rotoli.
L’industria italiana sta scomparendo a velocità supersonica – il confronto va fatto con i tempi lunghi necessari a costruirla come sistema – e nessuno si sta ponendo il problema nei suoi termini effettivi.


Al ministero del Lavoro si accavallano le vertenze e i tavoli, ma la risposta, nel migliore dei casi, è balbettante. Comunque concentrata per vertenze singole, come chi non riesce a staccare gli occhi dall’albero per vedere invece la foresta.

Non c’è una sola causa, questo è evidente. La cornice è data dalla crisi sistemica del capitalismo, soprattutto di quello “occidentale”, maturo, inflaccidito e senza più grandi idee (la rivoluzione informatica è ormai di quasi 40 anni fa, e ha contribuito ad azzerare molte domande sullo sviluppo possibile una vota che l’automazione avrebbe preso il posto di comando).
Ma in questa crisi generale il sistema Italia ha pagato molto più della media. E qui sono pesantissime le responsabilità dell’Unione Europea, dell’imprenditoria e della politica nazionale, co-autori e complici di scelte suicide o funzionali al ridisegno delle filiere produttive continentali.
Con la caduta del Muro e l’avvio della fase della cosiddetta “globalizzazione”, la parola d’ordine delle classi dirigenti occidentali è stata: azzerare il costo del lavoro (con gli inevitabili corollari in termini di salario, welfare, diritti, libertà) per favorire la competitività.

In termini marxiani si può tradurre: cercare il profitto nel plusvalore assoluto, ovvero nell’aumento dello sfruttamento dei dipendenti. Orario di lavoro più lungo, totalmente flessibile (turni anche notturni, abolizione pratica dei festivi, ecc), contratti precari, decontribuzione (e quindi azzeramento dei livelli pensionistici futuri), salario evanescente o addirittura eventuale (all’Expo 2015 di Milano è stato sperimentato addirittura il lavoro gratuito!), divieto di organizzazione sindacale, abolizione delle garanzie contro i licenziamenti, ecc.
Le imprese ne hanno approfittato molto liberamente. Ma tutte o quasi hanno di fatto rinunciato alla ricerca e allo sviluppo tecnologico, preferendo di gran lunga la corsa alla rendita finanziaria. Ed anche lo Stato ha seguito l’identica discesa agli inferi, contraendo la spesa anche in questo settore ultra-strategico.
Il congelamento della capacità tecnologica porta necessariamente fuori mercato, prima o poi. Le contromisure possibili, per evitare i fallimenti, sono state sempre le stesse: delocalizzazione in paesi dove il costo del lavoro è così basso da compensare abbondantemente anche i costi di trasporto, ulteriore compressione salariale, svendita a multinazionali in grado di “ottimizzare” i costi giocando sulle differenti imposizioni fiscali nazionali, incentivi governativi, ragioni di cambio delle monete.
Una prova viene dal bollettino entrate del Ministero delle finanze (ringraziando Pasquale Cicalese per la segnalazione).
Delle entrate fiscali tra gennaio e aprile, relative alle imposte dirette, risultano positive soltanto le trattenute Irpef su lavoro privato (+3.9) e pubblico (+4.4%).
Ma il gettito del lavoro privato è quasi pari a quello pubblico: 29,8 miliardi contro 28.2. In pratica poco più di tre milioni di lavoratori pubblici versano Irpef quanto quasi 15 milioni di lavoratori privati. Ciò significa che nel privato i salari sono talmente da fame che molti rientrano ormai nella no tax area; e ovviamente anche che molti datori di lavoro non versano l’irpef dei loro dipendenti.
Il gettito fiscale dei lavoro autonomo è diminuito del 7.7%. L’Ires, imposta sui profitti, è diminuita del 24% (ma essendo aumentati i profitti, vuol dire che galoppa l’evasione). L’Iva –imposta indiretta che colpisce al di là dei redditi – è aumentata del invece 5.4%.
Ogni tattica ha il suo limite. E l’industria italiana li sta toccando tutti contemporaneamente. Qui si produce ormai soprattutto moda, agroalimentare, mobili, servizi di ristorazione e turismo. Come un paese del Terzo Mondo (che però stanno seguendo la strada all’incontrario, verso lo sviluppo).
Mentre l’ex Fiat non riesce neppure a trovare qualcuno che se l’accolli, a causa della vecchiaia tecnologica che la corrode (la “cura Marchionne”, d’altro canto, è stata la massima concentrazione di caccia al profitto “da plusvalore assoluto”, tra modello Pomigliano e neanche un progetto di ibrida od elettrica).
Non può essere un caso che le uniche industrie in buona salute siano quelle a partecipazione pubblica: Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Saipem, le loro controllate. Si tratta di ciò che è sopravvissuto – per ragioni di controllo strategico – allo smantellamento dell’Iri e dell’intervento pubblico nella produzione industriale.
Ossia proprio quello che i trattati europei tenderebbero a vietare (chiudendo un occhio o tutti e due quando si tratta di complessi industriali o di utilities francesi o tedeschi).
Questo è il punto di arrivo di un processo trentennale da cui risollevarsi, senza un rovesciamento radicale di prospettiva, scelta strategiche, indirizzo politico, priorità sociali ed economiche, è impossibile.
La nazionalizzazione di ogni asset industriale a rischio chiusura o delocalizzazione non è di per sé la “soluzione” alla crisi. E’ semplicemente la condizione indispensabile per poter riprendere a progettare lo sviluppo di questo paese invece che subirne passivamente la demolizione.
Il resto è tempo perso, lacrime di coccodrillo, manfrina da corrotti.

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