Il ministro del Tesoro indicato ci consegna un'efficace argomentazione sui mali dell'Europa. E la possibilità di uscire dall'Euro. Salvini e Di Maio seguiranno questa strada?
C'è un dolente sottofondo nel libro "Come un incubo come un sogno"
scritto dal professor Paolo Savona. È il senso di non esser riuscito a
cambiare con le proprie idee il corso delle cose, su cui oggi, a
distanza di tempo, pensa di aver avuto ragione. Critico, fin
dall'inizio, della fondazione dell'Euro, nel suo lavoro traccia un
ritratto realistico, pessimista, e feroce del fallimento che aveva
previsto: "Parte importante dei problemi che ha incontrato e incontra
l'Italia riguarda i modi in cui l'Unione europea è stata costruita e
opera, ossia le strutture istituzionali e la politica economica decise
nel 1992 con il Trattato di Maastricht e le successive scelte".
Ma
la bizzarria del destino colpisce tutti, incluso i professori che hanno
scelto di ritirarsi in una creativa solitudine, e l'occasione di
cambiare le cose è arrivata, anzi è precipitata su Paolo Savona,
economista di fama e prestigio, ma anche attivo partecipe, negli anni,
di esperienze di gestione di grandi aziende e banche nella economia
reale: il nuovo governo del cambiamento, quello che Lega e M5s stanno
formando, lo ha selezionato come ministro dell'Economia, il più
formidabile, centrale, operativo incarico di un governo.
Il
libro, edito da Rubbettino in edicola e in libreria nei prossimi
giorni, una riflessione sui grandi temi dell'economia, sulle tracce
della propria autobiografia, si presenta oggi, in queste ore concitate
di formazione del prossimo esecutivo, come la perfetta guida per
conoscere meglio le idee sulla cui base prenderà le sue decisioni l'uomo
che dovrebbe avere nella sue mani il destino del nostro paese.
L'errore
di entrare nell'Euro è basata anche sul ricordo personale di Savona,
che ricostruisce gli errori di Ciampi e dell'elite nazionali: "Il
mancato perseguimento degli obiettivi conduce a uno stato permanente di
tensione all'interno dell'Europa per le ingiustizie che implica: i
cittadini non sono tutti uguali nei diritti, ma solo nei doveri.
L'esprit d'Europe si attenua e vengono meno le componenti sociali della
pace, la vera forza che ha trainato all'inizio l'idea di Europa. I
motivi di questa situazione sono due: l'unione non era ancora maturata
nella coscienza dei popoli europei finendo con il peggiorarla per le
cattive performance registrate nei momenti di crisi e perché le
istituzioni create confliggevano con gli obiettivi. La scelta fu decisa
da un'élite che procedette illudendo il popolo con le promesse contenute
nell'articolo 3 riportato. Per l'euro, invece, la volontà delle élite
divergeva e fu necessario un compromesso che assegnò compiti limitati
all'eurosistema e condusse a una sua nascita prematura rispetto
all'indispensabile unione politica. Le preoccupazioni erano dovute al
fatto che l'assegnazione di poteri più ampi alla Banca centrale europea
non avrebbe garantito un'inflazione contenuta e poteva condurre a una
mutualizzazione dei debiti pubblici, entrambi aspetti che la Germania
non intendeva accettare. Fu un atto di debolezza dovuto alla fretta".
Le
conseguenze politiche di queste scelte hanno risonanza, secondo Savona,
su tutto il sistema, trasformandolo da macchina che opera per il
benessere dei cittadini a strumento di oppressione: "Al di là dei
difetti in materia "economica", i modi in cui l'Ue è nata, con poca
preparazione dei cittadini europei e in assenza di un referendum in
molti dei paesi firmatari, sono la manifestazione più chiara della
filosofia politica più ingiusta e pericolosa per l'affermarsi della
democrazia: quella che gli elettori non sanno scegliere, mentre
sarebbero capaci di farlo per loro conto solo gruppi dirigenti
"illuminati" che, guarda caso, coincidono con quelli al potere. Tra
questi Paesi vi è l'Italia, dove la Costituzione decisa dai padri della
Repubblica contiene la più chiara violazione del principio democratico,
quello che i trattati internazionali non possono essere oggetto di referendum.
Conosciamo le origini di questa grave limitazione, ma esse non valgono
più dalla caduta del comunismo sovietico; torna comodo tenersi la
proibizione per imporre la volontà dei gruppi dirigenti economici e
politici. Posso testimoniare personalmente che i sostenitori del
Trattato di Maastricht, in particolare per quanto riguarda la cessione
della sovranità monetaria, erano coscienti dei difetti insiti negli
accordi firmati, ma la sfiducia che essi avevano maturato sulla
possibilità di collocare l'Italia nel nuovo contesto geopolitico hanno
indotto il Parlamento a seguire i loro consigli, compiendo un atto che
sarebbe potuto essere favorevole al Paese se l'assetto istituzionale
dell'Ue avesse condotto a un'unione politica vera e propria e non avesse
i gravi difetti di architettura istituzione e di politeia
indicati...Poiché l'unione commerciale e monetaria non ha condotto
all'unione politica come sperato, questi gruppi dirigenti ci hanno
lasciato un'eredità negativa che, sommandosi ai difetti culturali e
politici del Paese, fa scivolare l'Italia in una nuova condizione
coloniale, quella stessa sperimentata dalla Grecia". La Grecia, dunque.
Il fantasma è oggi lì, secondo Savona.
Ma come avvenne esattamente l'errore dell'Euro? L'economista ha una ricostruzione da offrire che apre a un serio dubbio – ancora una volta sulle elite. "L'Italia era impreparata nel 1992 ed è ancor più impreparata oggi, per le difficoltà che si sono accumulate e perché ha capito con quali compagni di strada si è messa. Non accuso la sola dirigenza italiana della scelta errata, ma anche quella europea, che era ben conscia, anche spingendosi oltre la realtà fattuale, che l'Italia non fosse preparata per stare nella moneta unica così come era stata concepita. Nella riunione del 24 marzo 1997, tenutasi a Francoforte, l'Italia era fuori dall'euro, nonostante Ciampi, ministro del Tesoro del governo Prodi, avesse varato il 30 dicembre precedente una manovra fiscale di 4.300 miliardi di lire, imponendo quella che è ricordata come "eurotassa" per rientrare nei parametri fiscali concordati. L'Italia aveva chiesto inutilmente di prorogare l'avvio dell'euro, ma la Germania si oppose. Un anno dopo, il 28 marzo, l'Italia venne accettata nel gruppo di testa dei Paesi aderenti all'euro. Non si conosce che cosa sia esattamente successo nel corso di quell'anno; forse ha contato l'impegno della diplomazia monetaria, dove la Banca d'Italia svolgeva un ruolo importante, o forse il fatto che, fatti bene i calcoli, i Paesi-membri hanno compreso che, tenendoci fuori, avrebbero patito la nostra concorrenza sul cambio e, accettandoci, avrebbero bardato il nostro sviluppo. Ora la nuova sovranità da espugnare è quella fiscale con le stesse modalità che hanno ispirato la cessione della sovranità monetaria, ossia secondo una visione di parte, pregiudiziale, del suo funzionamento, accompagnata dalla solita dichiarazione che servirebbe a migliorare il benessere generale. Essa non sarebbe un passo verso un'unione dove i cittadini godono degli stessi diritti ma per consentire una buona performance dell'euro e del mercato unico che causa una divisione tra essi. L'uomo al servizio delle istituzioni e non viceversa, una concezione sovietica dietro il paravento della liberaldemocrazia. Semmai si decidesse di farlo – e i gruppi dirigenti italiani, la stessa cultura accademica prevalente sono pronti ad accettarlo – si rafforzerebbero ancor più le forme di coordinamento obbligatorio, di tipo burocratico, diminuendo quello spontaneo garantito dal mercato unico creato con gli Accordi di Roma del 1957. Il problema dell'Ue non è l'autonomia delle sovranità fiscali nazionali, peraltro già vincolate dai parametri di Maastricht e rafforzate con il fiscal compact, ma l'assenza di un'unione politica in una delle forme conosciute di Stato. Spiace doverlo evidenziare, ma, cavalcando l'ideale elevato di porre fine alle guerre tra Paesi europei, non potendo procedere per via politica, i gruppi dirigenti hanno deciso di seguire una soluzione dove i principi democratici non hanno accoglienza. La conseguenza di questa scelta ha i contenuti di un fascismo senza dittatura e, in economia, di un nazismo senza militarismo".
Come si vede, si tratta di forti concetti, e forti responsabilità. Forti come le risposte che vengono proposte.
"I gruppi dirigenti apprezzano l'inversione dei rapporti di forza favorevole che l'Ue stabilisce tra loro e il popolo, in particolare i lavoratori, con i media che esaltano quasi quotidianamente "le magnifiche e progressive sorti" dell'Unione europea per il Paese, anche se esse non emergono dalla realtà. L'enigma (peraltro di facile soluzione) è a quale parte del Paese si riferiscono? Purtroppo la risposta è quella parte che già sta bene e sa difendersi, essendo in larga maggioranza. Siamo tornati indietro di secoli nelle conquiste raggiunte nella convivenza civile democratica. Poiché una politica monetaria comune non si adatta a tutte le esigenze o condizioni di fatto dei Paesi che aderiscono alla moneta unica, l'aggiustamento dovrebbe essere attuato con adeguate politiche fiscali, le quali, come si è ricordato, sono restate nelle mani dei singoli Paesi, ma sono vincolate da limiti ben precisi posti ai deficit del bilancio pubblico e al livello del debito sovrano sul Pil. Soprattutto per i Paesi, come l'Italia, che fin dall'inizio avevano una posizione squilibrata rispetto a questi due parametri fiscali (oltre il 7% nel deficit di bilancio e oltre il 100% nel rapporto debito pubblico/Pil), gli spazi per queste politiche sono di fatto attribuiti in modo asimmetrico, positivi per chi rientra nei parametri concordati, negativi per gli altri. L'ingiustizia è innata negli accordi". "Non c'è verso di convincere i leader dell'Unione europea di seguire il principio di Franklin Delano Roosevelt che se qualcosa non funziona, si cambia. Ma il cambiamento richiede preparazione scientifica, fantasia creatrice e coraggio per intraprenderlo. Nell'Ue le forze della conservazione prevalgono. La storia economica brevemente percorsa suggerisce che è necessario mutare le politiche riguardanti gli investimenti, soprattutto pubblici, e la tutela del risparmio operando sui tassi dell'interesse e sul rischio, nonché il funzionamento del sistema monetario internazionale ed europeo, affrontando con adeguate politiche i divari di produttività tra aree geografiche, settori produttivi e dimensioni di impresa. Se non lo fa, la società prima o dopo si vendicherà, seguendo i movimenti di protesta non perché siano preparati ad affrontare il problema, ma solo perché insoddisfatti delle politiche seguite dai partiti tradizionali".
Ed è qui che Savona affronta la discussione più delicata nei confronti del futuro governo: "Non ho mai chiesto di uscire dall'euro, ma di essere preparati a farlo se, per una qualsiasi ragione, fossimo costretti volenti o nolenti (il piano B da me invocato). Ritengo che uscire dall'euro comporti difficoltà altrettanto gravi di quelle che abbiamo sperimentato e sperimenteremo per restare. Il problema consiste nel fatto che non abbiamo né piano A, né B. Il piano A dell'Italia è quello della Ue con le conseguenze indicate. Ho il timore che il piano B sia quello di consegnare la sovranità fiscale alla "triade" (Fmi-Bce-Commissione) se le cose peggiorano, infilandoci nella soluzione greca. Il Paese è in un vicolo cieco. Le autorità hanno il dovere di approntare e attuare due diversi piani, quello necessario per restare nell'Ue e nell'euro, e quello per uscire se gli accordi non cambiano e i danni crescono. Invece si insiste nella loro inutilità essendo l'euro irreversibile e si è disposti a pagare qualsiasi costo pur di stare nell'eurosistema. La prima dichiarazione viene fatta a voce alta, la seconda raramente, ma viene comunque pensata dagli ideologi dell'Ue e dell'euro, ben sapendo che questo costo non verrebbe pagato da loro, ma da una minoranza, sia pure di dimensione significativa".
Insomma, la conclusione di tutto questo ragionamento è che il prossimo ministro del Tesoro non esclude la necessità di uscire dall'Euro. Magari ha anche ragione. Ma il ragionamento di un intellettuale è una cosa, il governare è altro. Una domanda si impone, dunque: se e in che modo questa analisi diverrà una proposta concreta del governo? Ameremmo risposta di Salvini e Di Maio, in queste ore prima che tutto si decida.
Ma come avvenne esattamente l'errore dell'Euro? L'economista ha una ricostruzione da offrire che apre a un serio dubbio – ancora una volta sulle elite. "L'Italia era impreparata nel 1992 ed è ancor più impreparata oggi, per le difficoltà che si sono accumulate e perché ha capito con quali compagni di strada si è messa. Non accuso la sola dirigenza italiana della scelta errata, ma anche quella europea, che era ben conscia, anche spingendosi oltre la realtà fattuale, che l'Italia non fosse preparata per stare nella moneta unica così come era stata concepita. Nella riunione del 24 marzo 1997, tenutasi a Francoforte, l'Italia era fuori dall'euro, nonostante Ciampi, ministro del Tesoro del governo Prodi, avesse varato il 30 dicembre precedente una manovra fiscale di 4.300 miliardi di lire, imponendo quella che è ricordata come "eurotassa" per rientrare nei parametri fiscali concordati. L'Italia aveva chiesto inutilmente di prorogare l'avvio dell'euro, ma la Germania si oppose. Un anno dopo, il 28 marzo, l'Italia venne accettata nel gruppo di testa dei Paesi aderenti all'euro. Non si conosce che cosa sia esattamente successo nel corso di quell'anno; forse ha contato l'impegno della diplomazia monetaria, dove la Banca d'Italia svolgeva un ruolo importante, o forse il fatto che, fatti bene i calcoli, i Paesi-membri hanno compreso che, tenendoci fuori, avrebbero patito la nostra concorrenza sul cambio e, accettandoci, avrebbero bardato il nostro sviluppo. Ora la nuova sovranità da espugnare è quella fiscale con le stesse modalità che hanno ispirato la cessione della sovranità monetaria, ossia secondo una visione di parte, pregiudiziale, del suo funzionamento, accompagnata dalla solita dichiarazione che servirebbe a migliorare il benessere generale. Essa non sarebbe un passo verso un'unione dove i cittadini godono degli stessi diritti ma per consentire una buona performance dell'euro e del mercato unico che causa una divisione tra essi. L'uomo al servizio delle istituzioni e non viceversa, una concezione sovietica dietro il paravento della liberaldemocrazia. Semmai si decidesse di farlo – e i gruppi dirigenti italiani, la stessa cultura accademica prevalente sono pronti ad accettarlo – si rafforzerebbero ancor più le forme di coordinamento obbligatorio, di tipo burocratico, diminuendo quello spontaneo garantito dal mercato unico creato con gli Accordi di Roma del 1957. Il problema dell'Ue non è l'autonomia delle sovranità fiscali nazionali, peraltro già vincolate dai parametri di Maastricht e rafforzate con il fiscal compact, ma l'assenza di un'unione politica in una delle forme conosciute di Stato. Spiace doverlo evidenziare, ma, cavalcando l'ideale elevato di porre fine alle guerre tra Paesi europei, non potendo procedere per via politica, i gruppi dirigenti hanno deciso di seguire una soluzione dove i principi democratici non hanno accoglienza. La conseguenza di questa scelta ha i contenuti di un fascismo senza dittatura e, in economia, di un nazismo senza militarismo".
Come si vede, si tratta di forti concetti, e forti responsabilità. Forti come le risposte che vengono proposte.
"I gruppi dirigenti apprezzano l'inversione dei rapporti di forza favorevole che l'Ue stabilisce tra loro e il popolo, in particolare i lavoratori, con i media che esaltano quasi quotidianamente "le magnifiche e progressive sorti" dell'Unione europea per il Paese, anche se esse non emergono dalla realtà. L'enigma (peraltro di facile soluzione) è a quale parte del Paese si riferiscono? Purtroppo la risposta è quella parte che già sta bene e sa difendersi, essendo in larga maggioranza. Siamo tornati indietro di secoli nelle conquiste raggiunte nella convivenza civile democratica. Poiché una politica monetaria comune non si adatta a tutte le esigenze o condizioni di fatto dei Paesi che aderiscono alla moneta unica, l'aggiustamento dovrebbe essere attuato con adeguate politiche fiscali, le quali, come si è ricordato, sono restate nelle mani dei singoli Paesi, ma sono vincolate da limiti ben precisi posti ai deficit del bilancio pubblico e al livello del debito sovrano sul Pil. Soprattutto per i Paesi, come l'Italia, che fin dall'inizio avevano una posizione squilibrata rispetto a questi due parametri fiscali (oltre il 7% nel deficit di bilancio e oltre il 100% nel rapporto debito pubblico/Pil), gli spazi per queste politiche sono di fatto attribuiti in modo asimmetrico, positivi per chi rientra nei parametri concordati, negativi per gli altri. L'ingiustizia è innata negli accordi". "Non c'è verso di convincere i leader dell'Unione europea di seguire il principio di Franklin Delano Roosevelt che se qualcosa non funziona, si cambia. Ma il cambiamento richiede preparazione scientifica, fantasia creatrice e coraggio per intraprenderlo. Nell'Ue le forze della conservazione prevalgono. La storia economica brevemente percorsa suggerisce che è necessario mutare le politiche riguardanti gli investimenti, soprattutto pubblici, e la tutela del risparmio operando sui tassi dell'interesse e sul rischio, nonché il funzionamento del sistema monetario internazionale ed europeo, affrontando con adeguate politiche i divari di produttività tra aree geografiche, settori produttivi e dimensioni di impresa. Se non lo fa, la società prima o dopo si vendicherà, seguendo i movimenti di protesta non perché siano preparati ad affrontare il problema, ma solo perché insoddisfatti delle politiche seguite dai partiti tradizionali".
Ed è qui che Savona affronta la discussione più delicata nei confronti del futuro governo: "Non ho mai chiesto di uscire dall'euro, ma di essere preparati a farlo se, per una qualsiasi ragione, fossimo costretti volenti o nolenti (il piano B da me invocato). Ritengo che uscire dall'euro comporti difficoltà altrettanto gravi di quelle che abbiamo sperimentato e sperimenteremo per restare. Il problema consiste nel fatto che non abbiamo né piano A, né B. Il piano A dell'Italia è quello della Ue con le conseguenze indicate. Ho il timore che il piano B sia quello di consegnare la sovranità fiscale alla "triade" (Fmi-Bce-Commissione) se le cose peggiorano, infilandoci nella soluzione greca. Il Paese è in un vicolo cieco. Le autorità hanno il dovere di approntare e attuare due diversi piani, quello necessario per restare nell'Ue e nell'euro, e quello per uscire se gli accordi non cambiano e i danni crescono. Invece si insiste nella loro inutilità essendo l'euro irreversibile e si è disposti a pagare qualsiasi costo pur di stare nell'eurosistema. La prima dichiarazione viene fatta a voce alta, la seconda raramente, ma viene comunque pensata dagli ideologi dell'Ue e dell'euro, ben sapendo che questo costo non verrebbe pagato da loro, ma da una minoranza, sia pure di dimensione significativa".
Insomma, la conclusione di tutto questo ragionamento è che il prossimo ministro del Tesoro non esclude la necessità di uscire dall'Euro. Magari ha anche ragione. Ma il ragionamento di un intellettuale è una cosa, il governare è altro. Una domanda si impone, dunque: se e in che modo questa analisi diverrà una proposta concreta del governo? Ameremmo risposta di Salvini e Di Maio, in queste ore prima che tutto si decida.
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