it.businessinsider.com/ Franco Velcich
Tuttalpiù si affaccia la parola “utile”, soprattutto se stiamo
parlando con qualcuno che ha dovuto cercare una badante per gestire una
persona cara, oppure è un imprenditore dell’edilizia o
dell’agricoltura. In Italia nel 2016 il 56% delle badanti e il 74% dei lavoratori domestici erano stranieri, così come il 30% dei braccianti agricoli e il 30% degli operai edili.
Sono dati che più o meno combaciano con
la nostra sensazione vissuta di dove sono e cosa fanno gli immigrati.
Ma quando ti spiegano che se nei prossimi decenni bloccassimo l’immigrazione il nostro sistema del welfare andrebbe totalmente a pallino,
tanto che nel 2050 dovremo andare tutti in pensione a 90 anni, allora
la parola “indispensabile” assume quel carattere netto e quel sapore
amaro che obbliga alla riflessione.
Il problema non sono gli stranieri che rubano il posto di lavoro agli italiani, che vengono da noi illegalmente e fanno aumentare la delinquenza, mettono a repentaglio la nostra sicurezza e le nostre abitudini. Il problema siamo noi italiani che da decenni non facciamo più figli, con il risultato che il nostro Paese è avviato verso il disastro demografico.
La descrizione precisa di questo disastro e del perché soltanto un continuo flusso di immigrati potrà tenere a galla l’Italia nella bacinella dei Paesi sviluppati è l’oggetto di un piccolo ma impressionante libro, 128 pagine di una chiarezza cristallina in cui le parole scritte si alternano a grafici e tabelle di immediata comprensione. Potrebbe valere la pena sfogliarlo anche solo per guardare i numeri.
Non l’hanno scritto politici, professori universitari, economisti o sociologi, ma due uomini d’azienda per eccellenza. Gli autori di “Dialogo sull’immigrazione” (Mondadori) sono Stefano Proverbio e Roberto Lancellotti, due direttori di McKinsey, forse la più celebrata società di consulenza strategica. Entrambi fanno parte dei consigli di amministrazione di grandi società italiane e internazionali.
Il loro punto di vista è quello di chi è abituato a pensare alle strategie delle aziende, a come farle crescere negli scenari internazionali o a come farle uscire dalle eventuali crisi. In questo caso l’azienda è l’Italia e il suo problema principale è l’inarrestabile calo della popolazione in età di lavoro, quella fra i 15 e i 64 anni: l’Istat stima una riduzione di 2,5 milioni da qui al 2030, che potrebbe diventare di 9 milioni al 2050 quando andranno in pensione le persone della cosiddetta Generazione X (i nati fra il 1965 e il 1983). Quindi, da qui al 2030 abbiamo bisogno di 3 milioni di immigrati in più se vogliamo tenere in piedi il nostro sistema pensionistico.
Il punto di partenza è la demografia: in Italia ci sono meno donne e fanno meno figli. Dalla metà degli Anni ’80 il numero dei figli per donna oscilla fra 1,2 e 1,4, ben al di sotto del livello di sostituzione di 2,1. Scrivono Proverbio e Lancellotti: “Oggi nascono un po’ meno di 500mila bambini ogni anno, ma circa il 15% sono figli di stranieri”. I nuovi nati “italiani al 100%” sono poco più di 400mila con un saldo negativo tra nati e deceduti nel 2016 di oltre 140mila unità. “E’ come se ogni anno sparisse una città come Verona”.
Le ripercussioni sull’economia del calo della popolazione sono drammatiche, perché alla riduzione del numero degli italiani corrisponde anche un innalzamento dell’età media e il nostro welfare non può resistere a un invecchiamento così marcato della popolazione. Pensiamo alla spesa sanitaria: le spese ospedaliere pro capite degli oltre 75enni sono 8 volte più elevate di quelle dei giovani compresi fra 15 e 24 anni. Inoltre gli anziani consumano meno: senza nuovi immigrati i consumi in Italia sarebbero destinati a calare di circa 100 miliardi di euro da qui al 2050, pari a un calo del Pil dello 0,5% l’anno. In sintesi, l’invecchiamento della popolazione è un fardello che pesa sulla crescita economica.
E se invece di accogliere immigrati, promuovessimo politiche a favore delle nascite? Giusto, vanno fatte senz’altro, rispondono gli autori, ma non basterebbero mai a colmare il gap di popolazione, neanche se tornassimo ai tassi di natalità dell’Ottocento con 7 o 8 figli per donna.
Altra domanda: perché dobbiamo accogliere immigrati se continuiamo ad avere un gran numero di italiani disoccupati, con un tasso di senza lavoro fra i più alti d’Europa? E’ evidente che quelli che arrivano da fuori “rubano” il poco lavoro che c’è. Non è vero, rispondono Proverbio e Lancellotti: la competizione tra immigrati e italiani riguarda solo una quota modesta di lavoro poco qualificato. La verità è che gli immigrati “facilitano la sopravvivenza di molte aziende” che possono accedere a manodopera che accetta retribuzioni inferiori agli italiani. Per molte di queste aziende l’alternativa sarebbe la delocalizzazione della produzione, quindi gli stranieri aiutano a tenere in Italia posti di lavoro.
L’intero volume è percorso dal desiderio di dimostrare, cifre alla mano, che la maggior parte delle convinzioni sull’immigrazione sono errate, a partire dalla lamentela più diffusa, quella secondo cui già oggi abbiamo troppi immigrati. Con 5 milioni di stranieri sul territorio, cifra stabile da alcuni anni, l’Italia ospita una percentuale di immigrati inferiore a tutti gli altri grandi Paesi europei. Infatti l’Italia è in gran parte un Paese di transito per persone che vogliono andare in Nord Europa. Solo Milano ha tassi di presenza in linea con le principali città europee.
E’ vero invece che noi riceviamo immigrati con scarsa istruzione: solo il 10% degli stranieri che risiedono in Italia è laureato, contro il 30% della media in Europa. E’ anche alla luce di questo dato che si delinea la vera urgenza italiana, che è quella di uscire dalla fase dell’emergenza per fissare, invece, dei criteri con cui gestire un’immigrazione utile di circa 200mila persone all’anno, persone che andrebbero classificate all’arrivo in funzione delle loro competenze e delle possibilità di entrare nel mondo del lavoro. Per i due uomini McKinsey l’Italia ha talmente bisogno di nuova immigrazione, che il governo dovrebbe mettere in campo la rete delle ambasciate per “vendere” il nostro Paese e attirare potenziali migranti di alto livello, laureati e imprenditori.
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Il problema non sono gli stranieri che rubano il posto di lavoro agli italiani, che vengono da noi illegalmente e fanno aumentare la delinquenza, mettono a repentaglio la nostra sicurezza e le nostre abitudini. Il problema siamo noi italiani che da decenni non facciamo più figli, con il risultato che il nostro Paese è avviato verso il disastro demografico.
La descrizione precisa di questo disastro e del perché soltanto un continuo flusso di immigrati potrà tenere a galla l’Italia nella bacinella dei Paesi sviluppati è l’oggetto di un piccolo ma impressionante libro, 128 pagine di una chiarezza cristallina in cui le parole scritte si alternano a grafici e tabelle di immediata comprensione. Potrebbe valere la pena sfogliarlo anche solo per guardare i numeri.
Non l’hanno scritto politici, professori universitari, economisti o sociologi, ma due uomini d’azienda per eccellenza. Gli autori di “Dialogo sull’immigrazione” (Mondadori) sono Stefano Proverbio e Roberto Lancellotti, due direttori di McKinsey, forse la più celebrata società di consulenza strategica. Entrambi fanno parte dei consigli di amministrazione di grandi società italiane e internazionali.
Il loro punto di vista è quello di chi è abituato a pensare alle strategie delle aziende, a come farle crescere negli scenari internazionali o a come farle uscire dalle eventuali crisi. In questo caso l’azienda è l’Italia e il suo problema principale è l’inarrestabile calo della popolazione in età di lavoro, quella fra i 15 e i 64 anni: l’Istat stima una riduzione di 2,5 milioni da qui al 2030, che potrebbe diventare di 9 milioni al 2050 quando andranno in pensione le persone della cosiddetta Generazione X (i nati fra il 1965 e il 1983). Quindi, da qui al 2030 abbiamo bisogno di 3 milioni di immigrati in più se vogliamo tenere in piedi il nostro sistema pensionistico.
Il punto di partenza è la demografia: in Italia ci sono meno donne e fanno meno figli. Dalla metà degli Anni ’80 il numero dei figli per donna oscilla fra 1,2 e 1,4, ben al di sotto del livello di sostituzione di 2,1. Scrivono Proverbio e Lancellotti: “Oggi nascono un po’ meno di 500mila bambini ogni anno, ma circa il 15% sono figli di stranieri”. I nuovi nati “italiani al 100%” sono poco più di 400mila con un saldo negativo tra nati e deceduti nel 2016 di oltre 140mila unità. “E’ come se ogni anno sparisse una città come Verona”.
Le ripercussioni sull’economia del calo della popolazione sono drammatiche, perché alla riduzione del numero degli italiani corrisponde anche un innalzamento dell’età media e il nostro welfare non può resistere a un invecchiamento così marcato della popolazione. Pensiamo alla spesa sanitaria: le spese ospedaliere pro capite degli oltre 75enni sono 8 volte più elevate di quelle dei giovani compresi fra 15 e 24 anni. Inoltre gli anziani consumano meno: senza nuovi immigrati i consumi in Italia sarebbero destinati a calare di circa 100 miliardi di euro da qui al 2050, pari a un calo del Pil dello 0,5% l’anno. In sintesi, l’invecchiamento della popolazione è un fardello che pesa sulla crescita economica.
E se invece di accogliere immigrati, promuovessimo politiche a favore delle nascite? Giusto, vanno fatte senz’altro, rispondono gli autori, ma non basterebbero mai a colmare il gap di popolazione, neanche se tornassimo ai tassi di natalità dell’Ottocento con 7 o 8 figli per donna.
Altra domanda: perché dobbiamo accogliere immigrati se continuiamo ad avere un gran numero di italiani disoccupati, con un tasso di senza lavoro fra i più alti d’Europa? E’ evidente che quelli che arrivano da fuori “rubano” il poco lavoro che c’è. Non è vero, rispondono Proverbio e Lancellotti: la competizione tra immigrati e italiani riguarda solo una quota modesta di lavoro poco qualificato. La verità è che gli immigrati “facilitano la sopravvivenza di molte aziende” che possono accedere a manodopera che accetta retribuzioni inferiori agli italiani. Per molte di queste aziende l’alternativa sarebbe la delocalizzazione della produzione, quindi gli stranieri aiutano a tenere in Italia posti di lavoro.
L’intero volume è percorso dal desiderio di dimostrare, cifre alla mano, che la maggior parte delle convinzioni sull’immigrazione sono errate, a partire dalla lamentela più diffusa, quella secondo cui già oggi abbiamo troppi immigrati. Con 5 milioni di stranieri sul territorio, cifra stabile da alcuni anni, l’Italia ospita una percentuale di immigrati inferiore a tutti gli altri grandi Paesi europei. Infatti l’Italia è in gran parte un Paese di transito per persone che vogliono andare in Nord Europa. Solo Milano ha tassi di presenza in linea con le principali città europee.
E’ vero invece che noi riceviamo immigrati con scarsa istruzione: solo il 10% degli stranieri che risiedono in Italia è laureato, contro il 30% della media in Europa. E’ anche alla luce di questo dato che si delinea la vera urgenza italiana, che è quella di uscire dalla fase dell’emergenza per fissare, invece, dei criteri con cui gestire un’immigrazione utile di circa 200mila persone all’anno, persone che andrebbero classificate all’arrivo in funzione delle loro competenze e delle possibilità di entrare nel mondo del lavoro. Per i due uomini McKinsey l’Italia ha talmente bisogno di nuova immigrazione, che il governo dovrebbe mettere in campo la rete delle ambasciate per “vendere” il nostro Paese e attirare potenziali migranti di alto livello, laureati e imprenditori.
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