Sono stati davvero i Paesi dell’area mediterranea della Ue a violare le regole della moneta unica, oppure i primi a farlo sono stati i nostri fustigatori tedeschi, i quali tentano di camuffare interessi nazionali e ambizioni egemoniche dietro un arrogante moralismo? Un saggio dell’economista Sergio Cesaratto (“Chi non rispetta le regole?”, Imprimatur editore), versa benzina sul fuoco della polemica fra europeisti e antieuropeisti.
micromega Carlo Formenti
In un breve quanto denso e provocatorio saggio (“Chi non rispetta
le regole? Italia e Germania le doppie morali dell’euro”, Imprimatur
editore), Sergio Cesaratto versa benzina sul fuoco della polemica fra
europeisti e antieuropeisti.
Provo qui di seguito a sintetizzarne le tesi e a discutere quelle
che sono, a mio avviso, le sue più evidenti implicazioni politiche.
Parto dal titolo: perché vi si allude a una doppia morale? L’autore
parte dalla constatazione che le accuse che la Germania (e altri Paesi
del Nord Europa) rivolgono ai membri dell’area mediterranea della Ue
evocano sovente toni etico-religiosi, contrapponendo il rigore
protestante dei popoli nordici all’accomodante lassismo cattolico dei
popoli meridionali. Ma è realmente questa la radice del conflitto? Siamo
stati davvero noi “terroni” a violare le regole della moneta unica,
oppure i primi a farlo sono stati i nostri fustigatori, i quali tentano
di camuffare interessi nazionali e ambizioni egemoniche dietro un
arrogante moralismo?
È
noto che i peggiori moralisti sono coloro che sanno di avere degli
scheletri nell’armadio e, per spiegare di quali scheletri si tratti nel
caso in questione, Cesaratto sposta il discorso dal piano etico al piano
dell’analisi economica, sottolineando come esistano evidenti analogie
fra la storia dell’unione monetaria europea e quella del gold standard,
ovvero del sistema monetario basato sulla parità aurea che governò
l’economia mondiale dal 1870 al 1914 (cioè durante quella, aggiungerei,
che potremmo definire l’era della prima globalizzazione). In entrambi i
casi, argomenta Cesaratto, ci si trova di fronte a indirizzi di economia
politica studiati per favorire i Paesi che godono di condizioni di
surplus a spese di quelli in deficit.
Per farla breve: le potenze
dominanti (che pure professano principi liberisti) non accettano che il
mercato riequilibri i rapporti di forza facendo aumentare l’inflazione
al loro interno. Così oggi la Germania lascia che siano altri a
praticare il keynesismo (accettando un certo livello di inflazione)
mentre da parte sua pratica un rigore che ne favorisce il modello
mercantilista.
In questo modo costringe i Paesi deboli ad aprirsi alle
sue esportazioni e a rinunciare a sviluppare la loro industrie
nazionali.
Prima di approfondire il discorso sulla doppia morale
liberista/mercantilista, occorre tuttavia spiegare come e perché il
nostro Paese si è cacciato in questa trappola “made in Germany”.
Negli
anni Settanta del secolo scorso, ricorda Cesaratto, la nostra economia
ha dovuto fronteggiare gli effetti combinati della spinta salariale
verso l’alto, alimentata da un lungo ciclo di lotte operaie, e dello
shock petrolifero, ed è riuscita a resistere difendendo la propria
competitività attraverso la svalutazione e aumentando la spesa sociale,
per tamponare i conflitti sindacali e sostenere le imprese.
Naturalmente
ciò implicava inevitabilmente l’aumento del debito pubblico, il che,
aggiunge Cesaratto in sintonia con il pensiero di Keynes (oggi
all’indice!), non aveva conseguenze particolarmente negative, visto che
la Banca centrale era in grado di affrontare il problema stampando
moneta.
Le cose si sono complicate allorquando le “sinistre” di governo –
seguendo il dettato dei vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi –
hanno pensato che l’Italia, allo scopo di moderare il conflitto sociale
e porre fine a un uso troppo “spregiudicato” del bilancio pubblico,
dovesse “importare” dall’estero regole più “sane” e stringenti.
Il che è
avvenuto in due tempi: prima con l’adesione allo Sme, poi con
l’ingresso nell’area dell’Euro (nel frattempo si era provveduto a
“spoliticizzare” la Banca centrale, sottraendola al controllo
governativo).
Una volta costruita la grande menzogna (tuttora in auge) secondo
cui il nostro Paese tenderebbe a “vivere al di sopra dei propri mezzi”,
si è messo in atto l’infernale processo che ci è costato la rinuncia
alla nostra indipendenza nazionale (e ai principi democratici sanciti
dalla nostra Costituzione!).
La verità, argomenta Cesaratto, è che sono
stati gli elevati tassi di interesse causati dalle scelte sopra
descritte e non una spesa pubblica fuori controllo a far esplodere il
debito sovrano, come è inequivocabilmente dimostrato dal fatto che,
all’inizio degli anni Novanta, lo stato italiano godeva di un
significativo surplus primario (cioè le entrate fiscali superavano le
uscite).
Per quanto riguarda poi la rinuncia a ogni forma di democrazia
sociale, basta fare l’elenco dei “vantaggi” che abbiamo “importato”
dalla Ue:
- la concezione liberista dello stato minimo,
- l’abbandono dell’economia mista,
- la fine della programmazione economica e di ogni politica industriale,
- il ridimensionamento del potere del Parlamento a vantaggio dell’Esecutivo,
- la riduzione dell’autonomia impositiva degli enti locali,
- la fine della scala mobile e del principio di gratuità diffuso, ecc.
Torniamo ora alla doppia morale. L’ordoliberismo tedesco –
l’ideologia che annovera fra i suoi fondatori von Hayek e fra i suoi
odierni sacerdoti il famigerato ministro Schäuble – non è, com’è noto (e
come hanno ampiamente dimostrato autori come Dardot e Laval)
assimilabile al laissez faire classico. Si è già detto che la Germania
lascia che a praticare il keynesismo siano gli altri (o meglio: quei
Paesi che non sono suoi satelliti, perché questi ultimi vengono invece
costretti a ingoiare l’amara medicina dell’austerità, che non regala
loro i vantaggi mercantilisti che assicura alla potenza dominante ma li
rende ancora più deboli).
In conclusione: l’europeismo ordoliberista non è altro che una forma estrema di nazionalismo della potenza dominante, come emerge dalle dichiarazioni di alcuni suoi economisti, come quel Michael Burda il quale ha candidamente confessato che una politica tedesca di sostegno alla domanda aggregata sarebbe indubbiamente un bene per l’economia globale, ma non per il modello economico tedesco.
L’analisi di Cesaratto è più ampia e articolata di quanto appaia
dalla sintesi che ne ho appena proposto, lascio tuttavia a chi vorrà
leggere il libro (ciò che invito caldamente a fare) il compito di
approfondirne gli argomenti, mentre preferisco concludere ragionando
sulle implicazioni politiche che mi pare se ne possano trarre.
In primo luogo, dal libro emergono le gravissime responsabilità che
le nostre sinistre “europeiste” si sono assunte, mettendo il Paese
nella condizione di rinunciare alla propria sovranità popolare,
nazionale e democratica.
L’ultimo atto di questa riduzione dell’Italia a
periferia semicoloniale dell’Europa a trazione tedesca è stato il
tentativo, fortunatamente fallito, di mandare in soffitta – con il
referendum del dicembre 2016 – quella Costituzione che disturba il
capitalismo globale perché contiene “elementi di socialismo” (vedere
dichiarazioni della J.P. Morgan).
Che vi sia ancora chi nutre illusioni in merito alla riformabilità di questa Europa, che fin dalle origini ha inscritto nel proprio DNA il compito di schiacciare le classi subalterne del Vecchio Continente, asservendole al modello di accumulazione della potenza dominante, e alle sue velleità di competere con Stati Uniti e Cina per il dominio del mercato globale, è francamente incredibile. Le violentissime pressioni politiche e mediatiche che vediamo mettere in atto in questi giorni di fronte alla possibile nascita di un governo “populista” (che peraltro ha già offerto ampie rassicurazioni di non nutrire tentazioni antieuropeiste) sono l’ennesima conferma del fatto che dalla trappola descritta da Cesaratto non è consentito uscire “con le buone”, ma solo attraverso scelte radicali che implicano una rottura sistemica.
Scelte evidentemente troppo radicali per quelle sinistre che preferiscono invocare alleanze frontiste contro un immaginario pericolo fascista, piuttosto che riconoscere il nemico principale nel Moloch ordoliberista.
(22 maggio 2018)
Nessun commento:
Posta un commento