Non crediamo più a Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo alla rete, ai motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla sharing economy.
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Abbiamo creduto – e in molti lo credono ancora - che la rete fosse libera e democratica e magari anche un poco anarchica. Che si potessero fare le rivoluzioni via Facebook e via Twitter. Credendoci, abbiamo adottato senza accorgercene ma pieni di tecno-entusiasmo il nuovo dizionario che veniva proposto e imposto, necessario per la costruzione di una nuova lingua universale, omologante, pedagogica, a una sola dimensione (tecnica & economica), fatta per integrare tutti in rete, per diventare tutti capitalisti, competere contro tutti, crederci individui liberi e libertari, essere in una nuova era, in una nuova economia, in una vita tutta nuova.
Recentemente l’abbiamo definita come LII, Lingua Internet Imperii - attualizzando le riflessioni e il titolo del libro Lingua Tertii Imperii del filologo tedesco Victor Klemperer. Analisi di come il nazismo sia arrivato a conquistare il potere anche usando la parola e non solo la violenza, attivando un processo minuzioso, incessante e pervasivo di sostituzione del senso delle parole con quello dettato/richiesto dall’ideologia nazista, dando cioè alle parole un significato progressivamente diverso (e a farlo condividere) da quello che avevano per tradizione e per dizionario. Una trasformazione della lingua e del linguaggio utile/necessaria alla costruzione e poi alla accettazione di massa (il conformismo, oggi si chiama effetto rete) della nuova lingua del potere e alla introiezione da parte di ciascuno di ciò che il potere voleva (e che vuole oggi: la connessione di tutti con tutti e con la rete e con il mercato, ma tutti rigorosamente separati dagli altri, incapaci di fare società e di auto-nomia, ma attirati da tutto ciò che fa comunità).
La Lingua Internet Imperii
E oggi, appunto: Lingua Internet Imperii, perché da quando è nata la rete (e la globalizzazione) essa ha progressivamente sostituito il senso delle parole del ‘900 con un altro senso, ha costruito una propria lingua totalizzante e ormai totalitaria dove alla predicazione della morte del nazismo (necessaria alla costruzione dell’organizzazione totalitaria) si è sostituita la predicazione della connessione e del dover essere connessi. Scriveva Hannah Arendt, prima della rete ma il cui pensiero è adattabilissimo anche alla rete e al capitalismo e al loro funzionamento: il vero fine della propaganda totalitaria non è tanto la persuasione quanto la costruzione dell’organizzazione; e ancora: è un errore pensare di propagandare un’ideologia mediante l’insegnamento, l’ideologia si può solo esercitare e praticare – che è esattamente il modo di procedere anche di rete & capitalismo, mettendoci al lavoro e facendoci esercitare e praticare incessantemente la relativa propaganda (ordoliberismo e neoliberismo insieme). Oggi siamo infatti tutti perfettamente e volontariamente integrati in rete (vogliamo essere sempre connessi), tutti organizzati dal mercato e tutti abbiamo un nostro doveroso capitale umano. Mentre occorre ricordare che si ha organizzazione quando ogni parte prima suddivisa è integrata nell’apparato, condivide gli obiettivi dell’apparato, persegue non i propri interessi individuali ma quelli dell’organizzazione.
Un processo linguistico che in verità è antico e tipico di ogni potere totalitario o religioso o populista che voglia produrre (sì, produrre) un uomo nuovo, diverso dal passato. E questo si può fare attraverso la parola e con una parola (il mezzo che permette di raggiungere il fine) capace di costruire lo storytelling necessario (il raccontare storie e il sentirsi raccontare storie che tanto piace agli uomini: oggi si chiama storytelling, ma anche un’ideologia è una storia, una Grande Narrazione, una gigantesca Pedagogia sociale basata appunto non tanto sull’educazione ma sul far fare come deve essere fatto). Ecco allora qualche esempio di questa LII e di questo incessante, infinito, inarrestabile e sempre nuovo storytelling tecno-capitalista (e storytelling è qualcosa di leggero e coinvolgente che ha sostituito - formalmente ma non sostanzialmente, posto che gli effetti che deve produrre sono i medesimi - la vecchia e novecentesca propaganda; o manipolazione di massa; o ideologia): new economy, negli anni ’90; condivisione in rete; social network; amicizia; rivoluzioni via Twitter; rete libera e democratica; web 2.0; fabbrica 4.0; tecno-entusiasmo contro pensiero critico; nuovo/moderno contro vecchio; rottamazione contro gufi; gli Apple store; la rete come ecosistema e come ambiente naturale; le nuvole-cloud; i mercati che procedono in automatico. Abbiamo dimenticato il senso delle parole che avevamo faticosamente costruito nel ‘900, ormai le nuove parole e la nuova LII dominano la scena, a rappresentazione unica anche se sempre diversa ma in infinite repliche.
Forme tecniche, forme capitalistiche, forme sociali
Lo scopo è questo: con-fondere - come scriveva Günther Anders - le forme tecniche di funzionamento degli apparati tecnici in forme sociali (la società che diventa società fordista, oggi che diventa società in rete e a rete); ma, e insieme sovrapporre le forme capitalistiche (tutto è mercato, tutto è competizione, tutto è scambio e merce) alle forme sociali. Una doppia sovrapposizione, una doppia sostituzione. Qualcosa che è nella logica degli apparati tecnici ed era negli obiettivi, per l’economia di mercato, dell’ordoliberalismo tedesco e del neoliberismo austro-statunitense. La società si deve cioè sciogliere, deve annullare se stessa come società aperta e come essere in-comune con gli altri/diversi (e capace di una progettualità propria) per assumere la forma standard e le norme – uniche e universali - del capitalismo e oggi della rete. Mentre ciascuno di noi (le parti dell’apparato tecno-capitalista) deve diventare sempre più mero (s)oggetto economico, quindi a capitale umano da valorizzare sempre più e incessantemente messo in vetrina per farsi comprare (oggi per lo più a prezzi di saldo), ciascuno dovendo essere sempre più non se stesso, ma imprenditore di se stesso, sempre più competitivo con gli altri ma anche a mobilitazione totale permanente e crescente nell’apparato tecno-capitalista. Questo sono oggi il lavoro in rete e la globalizzazione: una mobilitazione di tutti al lavoro o alla ricerca di un lavoro o a sviluppare nuove tecnologie e nuove applicazioni, senza più distinzione tra tempo di vita e di lavoro, tra mercato e società, tra rete e società, tutti a produttività crescente ma ad alienazione anch’essa crescente - anche se abilmente nascosta dall’apparato sotto la parole della neolingua e del proprio storytelling, ciascuno sempre più innovativo ma innovativo solo in termini di nuove tecnologie, non di innovazione sociale, culturale, politica.
E da qualche tempo, nel grande storytelling del tecno-capitalismo (che si rinnova continuamente – il trasformismo è nella sua natura), si è aggiunta la sharing economy, ovvero l’economia della condivisione, un’economia dove il sociale orienterebbe un nuovo modo di essere economia. O un modo nuovo di essere dell’economia. Che farebbe della relazionalità e della libera condivisione (sharing, appunto) – unitamente alla tecnologia della rete, dove la condivisione è la rete in sé e la rete è condivisione o meglio connessione – la propria forma ed essenza. A nulla serve obiettare che vent’anni fa (o dieci o cinque) le retoriche e lo storytelling erano uguali, anche allora si favoleggiava di condivisione, di wikinomics e di libertà in rete: lo storytelling della rete è più forte di ogni obiezione, di ogni confronto con la realtà, di ogni smentita della storia e davvero è ormai una Grande Narrazione globalizzata (ma tecno-economica, invece che politica) che ha preso il posto delle vecchie Grandi Narrazioni del ‘900.
Sharing economy?
Ovviamente virtuosa, questa nuova economia sociale (social economy), perché non più basata sul bieco capitalismo e sullo sfruttamento di un tempo; e ovviamente sociale, perché appunto relazionale, condivisa, quasi umanistica e basata sulla gratuità e il dono (quindi, presentata addirittura per post-capitalista). Un’economia che rappresenterebbe un nuovo modello di mercato ovviamente alternativo o superiore o almeno successivo al capitalismo novecentesco; una nuova-nuovissima-economia migliore anche rispetto alla vecchia new economy degli anni ’90, oggi già vecchia e comunque sulla quale – viste le promesse tradite e anzi l’eterogenesi dei fini che ha indotto (più sfruttamento, cancellazione della distinzione tra vita e lavoro, falsa individualizzazione e realissima integrazione di tutti in una rete) – è meglio sorvolare. Se andiamo ad analizzare con spirito critico – come sempre si dovrebbe fare – questa mitizzata sharing economy ci accorgiamo che la realtà è – ancora una volta - diversa dalla promessa; che spesso è semplicemente una maschera al vecchio sfruttamento del lavoro del capitalismo 0.0; che è un’economia del tutto capitalistica; che produce oligopolio; e che, soprattutto la condivisione è permessa solo se passa attraverso la rete e l’infinita connessione/integrazione/organizzazione di tutti e di ciascuno permessa dalla rete stessa, dove qualcuno trae profitto per sé dalla condivisione degli altri. Sharing economy che è passata - come ha scritto Tom Slee - dalla generosità e dall’altruismo di quel che è mio è anche tuo all’egoismo interessato di quel che è tuo è mio, mentre i valori non commerciali evocati dalla parola condivisione sono stati ridotti ad un esercizio di pubbliche relazioni o forse meglio di purissimo (e vecchio) marketing; con una rete che sempre meno è un mezzo di comunicazione, condivisione vera e di conoscenza (lo era agli inizi) e sempre più è un mezzo tecnico e capitalistico di connessione, di incessante messa al lavoro, di sfruttamento della ricchezza anche sociale e delle conoscenze altrui. Ancora Slee: la sharing economy ha tradito le sue promesse e un modello basato sulla comunità, sui legami interpersonali, sulla sostenibilità è diventato terreno di caccia di miliardari, finanzieri e capitalisti che cercano di far penetrare i valori del mercato sempre più all’interno della vita personale di ciascuno, generando il contrario della condivisione: deregolamentazione, nuovo consumismo e nuova precarizzazione del lavoro. Potremmo aggiungere: lo storytelling della sharing economy – coma la Lingua Internet Imperii - è una forma di foucaultiana biopolitica, un modo per governamentalizzare (organizzare) la vita intera – in senso capitalistico e tecnico - degli uomini, per produrre un’economia (e una rete che sempre più è capitalista e riproduce capitalismo) che sia sempre meno un mezzo al servizio della società (e della democrazia) e sempre più la forma/norma di vita (il fine) - omologata e sempre ri-omologante - degli individui e dell’intera società.
Qualche esempio di sharing economy, sociale, condivisa, relazionale? Il sempre citato Airbnb, colosso (sic! – come può esistere un colosso economico in una economia della condivisione?) della sharing (?) economy, che con i suoi 24 miliardi di dollari e 1,5 milioni di alloggi registrati in 190 paesi vale ben più di una tradizionale catena alberghiera, ma che con le sue retoriche della condivisione ha stravolto il mercato degli affitti di San Francisco, arricchendo una parte della classe media ma impoverendo quella medio bassa e spingendo molti a doversi spostare in periferia per l’insostenibilità dei prezzi. E poi Uber, il servizio di noleggio di auto con autista che sembra la rottura della casta dei taxisti in nome della libera concorrenza, mentre in realtà è purissima concorrenza sleale, anche se abilmente presentata dal marketing come sharing economy - con Uber che dovrebbe chiudere l’anno con un valore delle prenotazioni globali vicino ai 10 miliardi di dollari, che ha attirato 3,7 miliardi di finanziamenti e annunciato la quotazione in borsa, ma che fa profitti sfruttando il lavoro degli autisti.
Certo, Airbnb e Uber e tutte le imprese della sharing economy che fanno profitti lo fanno sfruttando al meglio la logica della disintermediazione (e questo dovrebbe essere positivo), ma anche della esternalizzazione e della precarizzazione del lavoro – pur essendo esse stesse delle agenzie di intermediazione, che non producono nulla ma che fanno profitti sfruttando e mettendo in rete il lavoro o le prestazioni degli altri. Una forma diversa rispetto alla finanziarizzazione dell’economia (la produzione di denaro a mezzo di denaro, D-D’), ma ad essa molto simile (produzione di denaro a mezzo di gestione diretta dell’incontro tra domanda e offerta). E quindi: Modu-Parking, Booking.com, HomeAway, WeWork, ShareDesk, BlaBlaCar, Ola, Materest (per incontrare possibili coinquilini), Etsy (per lo scambio p2p di prodotti artigianali o vintage, dichiarando 60 milioni di utenti registrati), Quirky (per mettere in contatto inventori e aziende), e un’infinità di altre proposte. E poi il crowdfunding. E ancora lo smart work (lavorare da remoto condividendo spazi disegnati apposta per i millennials però utilizzati non solo da lavoratori autonomi ma anche da piccolissime imprese), e il temporary shop e poi il social eating e il social cooking e la peer education. La neolingua produce incessantemente parole-nuove, che sono anche parole-chiave necessarie, come nel vecchio marketing per attrarre, sedurre e convincere.
Sharing o economy?
Sharing economy, dunque. Che tuttavia si dividerebbe sempre più tra chi privilegia la dimensione sharing e chi quella economy (ovviamente: capitalistica) e on demand, per cui, per questa seconda modalità di gestione il modello è sempre quello a controllo centralizzato, non permettendo forme di mutualismo (Fondazione Unipolis, 2015), con lo sfruttamento intensivo del lavoro precario (ma promosso come auto-imprenditorialità o come poter essere finalmente il boss di se stessi – come titolava un articolo di Affari&Finanza dello scorso 19 ottobre dedicato alle virtù della uberizzazione del lavoro) e poco tutelate (appunto, il vecchio capitalismo 0.0 riverniciato di 2.0). Mentre coloro che mettono invece l’accento su sharing sarebbero, loro sì davvero nuovi cercando di sviluppare e sostenere le relazioni tra pari, avvicinandosi al non-proft se non alle tematiche dei beni comuni (in realtà, radicalmente diverse). Ecco allora il co-working e la rete degli hub, condividendo lavoro e vita con altri, esperienze e competenze; oppure i fab-lab e la condivisione di nuove tecnologie come le stampanti 3D. O le B-Corporation, imprese non-profit che ottengono una certificazione rilasciata da B-Lab (?) dietro compilazione (volontaria) di un modulo di autovalutazione che misura il rispetto dei valori sociali e ambientali. O ancora le cooperative di comunità, per arrivare alle social street che hanno l’obiettivo di socializzare (meglio: comunitarizzare) i vicini di casa e di strada, rovesciando il titolo di un recente e critico libro di Sherry Turkle, Insieme ma soli, in Vicini e connessi (Ricerca del Dipartimento di Sociologia dell’UniCattolica di Milano), pur dividendosi tra social street più dedicate agli aspetti ludico-ricreativi e quelle più orientate al civico-partecipativo. E ancora: il sharing werlfare. Tutto bene, bello e giusto – in questa sharing economy? In parte anche sì, in mancanza di meglio; ma è proprio il meglio – un modo radicalmente diverso di fare economia rispetto a questo capitalismo – che manca, se è appunto vero, come dovrebbe essere evidente, che anche la sharing economy è questo capitalismo.
In realtà la condivisione e l’aiuto erano pratiche antiche. La rivoluzione francese – in altro modo - era nata anche per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. E anche il ’68 è stato rivoluzionario verso la società di classe e verso i suoi falsi bisogni, in nome di una diversa solidarietà e di una nuova condivisione. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. L’idea di una società aperta, molteplice, non omologata né omologante è stata sciolta in un’infinità di pratiche di comunità chiuse (etniche, identitarie, in rete), la modernità liquida si è sostituita (dice Bauman) a quella pesante (anche se, in verità questa modernità liquida è molto più pesante della precedente), il lavoro è passato dall’essere un diritto a essere una merce, lo stato sociale è stato ridotto e privatizzato, ciascuno è lasciato solo (ma sempre più connesso/integrato in qualche forma di comunità – di rete, di lavoro, di strada, di blog - spacciata per social). La globalizzazione & la rete scompongono, suddividono, isolano (essendo tecnica & capitalismo) per poi ricomporre in strutture unitarie e totalitarie le parti prima suddivise (il mercato globale e le sue leggi, la rete) – questa è la logica intrinseca e necessaria di ogni organizzazione, dalla prima rivoluzione industriale e dalla fabbrica di spilli di Adam Smith alla rete e alla sharing economy. Rete e globalizzazione hanno liquefatto la società aperta, ma per compensare emotivamente e relazionalmente gli individui isolati dai processi tecnici e di mercato ecco la rete che lega e apparentemente non lascia soli, ecco l’ideologia della condivisione-che-non-è-vera-condivisione, la fabbrica come comunità di lavoro e da cui deve essere ovviamente eliminato il conflitto e quindi l’immaginazione di cose diverse, il nuovo paternalismo imprenditoriale e il welfare aziendale (o sharing), il populismo tecnocratico, la favola della rete libera e democratica. Se la rete de-socializza, la rete poi comunitarizza e dà l’illusione della condivisione e quindi docilizza l’insieme (tutti noi).
La rete come mezzo di connessione. La connessione come fine
Mezzo di connessione, la rete – abbiamo detto; sempre più. E sempre meno, un mezzo di comunicazione e di conoscenza (l’altra favola degli anni scorsi, traditasi nel suo contrario: la conoscenza e la comunicazione sono sempre più merce dei motori di ricerca, quello che doveva essere il marxiano general intellect è una società portata alla semplificazione – l’opposto della conoscenza – le imprese esternalizzano a makers individuali e super-sfruttati quello che un tempo facevano in casa con grandi investimenti, ovvero la R&S). Mezzo di connessione necessario quanto più il tecno-capitalismo si fa globale e veloce. A questo serviva la catena di montaggio, nel fordismo concentrato delle grandi fabbriche, a questo serviva il just in time del toyotismo e oltre. Oggi la catena di montaggio esiste ancora ma il lavoro non ha più bisogno di essere concentrato in un luogo fisico, può essere facilmente esternalizzato e indivualizzato (lavoro precario, finto-autonomo, free-lance, makers dell’innovazione, ma anche co-working e dintorni) ancora di più, di più rispetto alla frammentazione del lavoro della vecchia catena di montaggio, in quello che definiamo come fordismo individualizzato, dove la rete è il mezzo di connessione/organizzazione che permette appunto di connettere/legare tutti coloro che sono stati individualizzati ed esternalizzati (facendo però credere loro di essere diventati lavoratori autonomi e imprenditori di se stessi), dentro l’apparato di produzione, sia esso di produzione materiale, immateriale, finanziaria, di consumo, di divertimento, di comunità) del tecno-capitalismo.
Niente di nuovo, in verità, ma fatto apparire come nuovo (ancora, lo storytelling della biopolitica tecno-capitalista). Lo aveva intuito Henry Ford, già cento anni fa: “Nelle nostre prime prove noi ritenevamo necessario raggruppare nello stesso impianto le linee di produzione e di montaggio, ma poi, con l’esperienza, abbiamo imparato che la fabbricazione di ciascuna delle parti che compongono il prodotto finito costituisce un settore distinto e può effettuarsi dovunque si presenti la convenienza, visto che il montaggio finale può avvenire in qualsiasi posto. Tutto ciò ci ha dato la misura della flessibilità della produzione moderna”. E ancora: “una amministrazione efficiente si basa sulle registrazioni, sulla progettazione, sullo studio delle operazioni e su buoni sistemi di comunicazione e non necessariamente sulla possibilità di supervisione diretta e locale”. E oggi questo buon sistema di comunicazione/connessione si chiama rete. Con una serie di vantaggi per il tecno-capitalismo: fine del conflitto sociale e del conflitto tra capitale e lavoro (oggi tutti siamo ormai persuasi di dover essere imprenditori di noi stessi), fine di Grandi Narrazioni alternative (al più, una Piccola Narrazione da social street, giusto per sopravvivere e sentirsi non-più-soli o meno-soli), fine della progettazione sociale (al più, e ancora: da social street), fine della società aperta e moltiplicazione delle comunità (che sono pratica diversa e opposta alla società). E con una serie di svantaggi per ciascuno di noi: perdita della capacità di essere se stessi, di progettare insieme (essendo isolati e/o chiusi in comunità), di guardare lontano (oltre la street, del falso social), di guardare la realtà e di conservare un poco di capacità di non-connessione/integrazione con gli altri. Liberi servi, felici di esserlo.
E dunque, la sharing economy. Una delle tante forme che ha assunto e che può assumere il capitalismo. Capace di produrre anche qualcosa di diverso da sé per dimostrare di non essere totalitario; di produrre apparente diversità e moltiplicazione delle opportunità e delle merci (i consumi personalizzati, le pubblicità personalizzate, la produzione in serie di merci individualizzate), per dimostrare di essere molteplice; di offrire forme di mercato (basate sulla condivisione) diverse da quelle strettamente capitaliste. Ma poi, essendo il tecno-capitalismo una religione secolare e trascendentale insieme (religione nel senso di legare a sé ciascuno, ovunque egli sia, portandolo ad essere fedele e integrato nel gregge di rete & mercato) ed avendo anch’esso una propria teologia (ridurre a uno ogni diversità, riportare dentro di sé ogni due, ogni tre, ogni diversità che pure crea), le diversità e le molteplicità sono tali solo se funzionali al tecno-capitalismo, la cui essenza e razionalità è una sola: prima suddividere e poi totalizzare/integrare in sé ogni parte prima suddivisa e diversa da sé. Anche la sharing economy è dentro questa logica. Produce capitalismo socializzandolo, non produce altro dal capitalismo. Neppure lo democratizza; o lo fa social (qualcosa di assolutamente impossibile).
Beni comuni, solidarietà, società, umanità, responsabilità, progettualità, sostenibilità e democrazia sono tutt’altra cosa.
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(22 dicembre 2015)
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