Che il reale stesse perdendo il suo
ancoramento alla terra, ai corpi, alla tattilità, a tutto vantaggio dei
fantasmi dell’immaginario, era già nelle analisi brillantemente
argomentate di Guy Debord
e Jean Baudrillard. Ma non è un caso che sia stata l’irruzione del
medium digitale a spingere il discorso critico a profondità finora non
toccate della vita psichica.
“Lo smartphone” -si legge nel libro di Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo 2015
– si può considerare “la riedizione post-infantile dello stadio dello
specchio: dischiude uno spazio narcisistico, una sfera dell’immaginario
nella quale rinchiudermi.”
Di conseguenza:
“Non la moltitudine, ma la solitudine, contraddistingue la forma
sociale odierna. La solidarietà scompare: la privatizzazione si estende
fino all’anima. L’erosione del collettivo rende sempre più improbabile
un agire comune”.
Al posto di una “folla” di anonimi, ma
in grado di marciare insieme per un obiettivo, sembrano essere
subentrati “sciami” di “singoli chiassosi”, incapaci di ricostruire uno
spazio pubblico.
Soli davanti al display, consumatori e
insieme produttori di informazione, pronti ad esporsi -abbandonato ogni
pudore e contegno- in ciò che hanno di più intimo, agli individui non
resterebbe che la perpetuazione dell’ “Uguale”, una socialità in cui non
c’è più una controparte che ti venga incontro, ma solo condivisioni che
si misurano sulla quantità dei “mi piace”.
Sarebbe dunque la fine della politica,
che si è retta finora sulla separazione tra privato e pubblico, sulla
distanza, come condizione essenziale per il “rispetto” dell’altro, la
fine del tempo, ridotto a un eterno presente e svincolato dalla sua
radice biologica: la nascita, l’invecchiamento, la morte?
A una prima lettura, per chi pratica i social network con qualche riserva, dubbi ricorrenti, è difficile non dare ragione a Byung-Chul Han
e non lasciarsi sedurre dalla felice immagine dello “sciame digitale”,
uno “sciame di spettri” che potrebbero portare il mondo alla rovina. Ma
con qualche attenzione in più si può scoprire che dietro ogni
argomentazione c’è un risvolto che sembra dire il contrario.
Prendiamo, per esempio, la descrizione
che egli fa del narcisismo come esperienza infantile che riemerge
inaspettata e sconvolgente per lo spazio pubblico, così come lo abbiamo
conosciuto finora. Se, per un verso, si manifesta come “esibizione
pornografica dell’intimità”, per l’altro sembra invece aprire la strada
alla nascita di una singolarità dell’essere umano rimasta impigliata
nell’unità a due dell’origine: l’indistinzione e poi la contiguità tra
madre e figlio prima e subito dopo la nascita, la fusionalità nella
relazione amorosa adulta.
Gli individui dell’era digitale infatti
sono sì isolati, ma tutti alla ricerca di un loro “profilo”, anzi
“lavorano senza posa all’ottimizzazione di sé”, ambiscono
insistentemente all’attenzione. Le ideologie, che una volta costituivano
l’orizzonte politico, si disgregano, ma come non giudicare positivo il
fatto che al loro posto subentri una “infinità di opinioni e opzioni
individuali”, la richiesta di “maggiore partecipazione e trasparenza”,
sintomo della crisi che attraversa oggi la democrazia rappresentativa?
Il “Noi”, così come lo abbiamo ereditato
da secoli di dominio maschile, ha conosciuto una serie infinita di
esclusioni: fuori dalla sfera pubblica, dalle sue istituzioni, dalle sue
forme organizzative, non sono rimaste solo le donne, ma tutto ciò che
segnalava una diversità: gruppi sociali, popoli ed esperienze umane,
come la sessualità, la maternità, considerate “non politiche”. Si è
dovuto arrivare alla metà del secolo scorso per riconoscere la
politicità della vita personale e uscire da contrappposizioni astratte:
maschile/femminile, corpo/pensiero, individuo/collettivo, ecc.
Non dovremmo meravigliarci perciò se il
bisogno di pensarsi come individualità concreta, restituita
all’interezza del proprio essere, si manifesta come “ripresa” di un sé
intento a ricostruire la propria immagine attraverso quello “specchio
digitale”che, al medesimo tempo, lo isola e lo espone al mondo.
Il rischio che l’immagine prenda il
sopravvento e che la libertà vada a coincidere paradossalmente con una
“nuova schiavitù”, quale è la “costrizione a comunicare”, in effetti
c’è.
Ma nessuna acquisizione nuova della
coscienza, nessuno svelamento di un “rimosso” storico, può considerarsi
indenne da limiti, ripiegamenti o sconfitte. Per questo l’attenzione
alla strada che si sta percorrendo non è mai troppa, e gli
“apocalittici” sono, da questo punto di vista, un prezioso indicatore di
marcia.
Cita questo articolo: La
comunicazione digitale: la rovina del mondo o l’inizio di una nuova
civiltà?, “Tysm”. Published 27 luglio 2015. Last accessed 28 dicembre
2015.
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