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Riccardo Carraro
A Natale, se si vuole passare qualche pomeriggio o serata nelle sale cinematografiche, si è spesso costretti a fare slalom tra film di dubbia qualità. Quest'anno, se non vi appassiona Star Wars (“perché non sarà mai come la prima serie” ovviamente) e se non volete un retorico Spielberg in versione guerra fredda o i soliti cinepanettoni, c'è un’alternativa valida e inaspettatamente piacevole.
Perfect Day, non è il primo film dello spagnolo Fernando León de Aranoa, ma il primo ad avere ampia diffusione in Italia. Infatti i precedenti I Lunedì al sole, Barrio, Princesas e Amador, nonostante il grande successo in terra iberica, hanno avuto scarsa diffusione da noi. È un peccato, perché sono opere validissime, sempre a forte tematica sociale e politica, con solide sceneggiature (scritte dallo stesso regista) e recitate da attori del calibro di Javier Bardem o Candela Peña.Perfect Day, a mio parere, conferma le notevoli qualità del regista spagnolo, che però questa volta si cimenta in lingua inglese, al di qua dei Pirenei e in una tematica, la vita degli operatori umanitari nei conflitti, che è trattata rifuggendo qualunque retorica buonista dell'aiuto. León de Aranoa evita interamente quella stessa retorica, per intenderci, che invece affolla le pubblicità di tante Ong, proprio nel periodo natalizio.
“1995, Da qualche parte nei Balcani” – dice la didascalia iniziale del film – e i riferimenti a quel periodo storico e a quel luogo sono numerosi anche se volutamente generici. Ben presto la vicenda assume carattere simbolico ed emblematico di tante guerre a base etnica che hanno diviso popoli e che hanno visto l'intervento e una presenza militare e civile straniera.
Al centro della vicenda un “problem solving” per i quattro operatori umanitari protagonisti del film, cioè estrarre da un pozzo un cadavere che è stato gettato dentro al fine di contaminarlo e così privare di acqua potabile la popolazione dell'area.
Ognuno degli operatori è in una fase differente della propria esperienza nei Balcani. Sophie ha l'entusiasmo di chi è appena arrivata, B (Tim Robbins) è da anni lì e lo terrorizza solo l'idea di dover tornare a casa, Mambrú (Benicio Del Toro) dice da mesi che vuole andarsene e forse tra pochi giorni lo farà per davvero, mentre Katya in realtà se ne è già andata e ora fa, con distacco, il lavoro di valutatrice e analista del conflitto. E qui emerge una prima verità: la propria “anzianità” di missione differenzia e caratterizza fortemente l'approccio verso il luogo e le persone, locali e internazionali.
Si è scritto che è un film sulla cooperazione, ma lo sguardo su tale realtà è talmente ironico che inevitabilmente il film si traduce, per me, in una critica dolceamara sui limiti soggettivi e sistemici della cooperazione stessa.
León de Aranoa fa emergere nodi di fondo problematici quali il rapporto con le forze armate, o i limiti dettati dalle grandi agenzie umanitarie che finanziano progetti solo se il contesto è emergenziale e sono pronte a chiuderli quando non si è più in “emergenza”. Ma nel film emergono pure altri difetti, legati invece alle soggettività che operano nel campo.
C'è sempre una forte empatia verso i protagonisti della vicenda, eppure il regista non si risparmia dall'essere ironico anche nei loro confronti, soprattutto quando cadono in tipici “errori da cooperante”, come la tendenza a semplificare i problemi senza considerarne la stratificazione e la complessità data dal conflitto e dalla “diversità” sociale e culturale dei Balcani rispetto ai parametri occidentali con cui loro si orientano. E quando B entra in un negozio di corde per comprarne una, sembra proprio ricalcare la metafora dell' “elefante nella cristalleria”. Non riesce infatti, per inconscia superiorità (postcoloniale?), a comprendere che quanto richiede è complesso, ed è ancor più complesso perché lo richiede lui, straniero, “altro” rispetto al contesto.
Il regista coglie dinamiche tipiche delle relazioni tra cooperanti, quali il morbido cinismo con cui schermarsi dalla tragicità della situazione, il leggero paternalismo che caratterizza il rapporto con il personale in loco, l'estrema volatilità delle relazioni affettive-sentimentali, la ricerca affannata di un successo almeno nelle micro-progettualità umanistiche (come ridare un pallone ad un bambino) vista la costante frustrazione per il fallimento delle progettualità lavorative-politiche.
Nel film, si esplorano gli stati d'animo dei protagonisti, facendo emergere tipiche psicosi da cooperante quali il ripetere, anzitutto a se stessi, che “tra poco me ne vado di qui, ed è finita!”, oppure, appunto, l'essere terrorizzati all'idea di andarsene e quindi di dover fare i conti con la mancanza di una rete umana e sociale al proprio paese di origine, a causa di tanti anni vissuti da expatriate. E quando Mambrú dice a B “Non ti preoccupare, la tua famiglia è qui dove la gente ha bisogno del tuo aiuto. Qui le persone sentono la tua mancanza. Chi altro può vantare di mancare a persone che neppure lo conoscono?” rimane un certo amaro in bocca, a mio parere per nulla consolatorio. È inevitabile infatti pensare che le persone a cui B mancherà non saranno legate a lui da affetto reale, ma dalla necessità di soddisfare bisogni, che è in fondo una sgradevole verità che spesso i cooperanti faticano a riconoscere e accettare.
Infine il film fa emergere un’altra grande verità: nella cooperazione vi è una permanente sovrapposizione delle motivazioni personali-private a quelle lavorativo-politiche. Questo avviene perché è un contesto dove il privato è così circoscritto (e spesso frustrato) che si è costretti a riversare per intero, e con tutte le conseguenze del caso, la sfera personale nella totalizzante dimensione lavorativa, anche questa ben rappresentata dalle 24 ore del Perfect Day del titolo, in cui si sta sempre assieme e nessuno ha tempo neppure per farsi una doccia. Mambrú lo dice alla giovane Sophie “Qui tutto è un fatto personale”, e B, in una delle battute più esilaranti del film, dirà a Mambrú: “Scòpatela, cazzo, fallo per noi, per la missione, fallo per il popolo bosniaco!”
Una colonna sonora scoppiettante, una bella scenografia (che è in realtà la Spagna rurale, ma potrebbero essere i Balcani) e un cast di tutto rispetto completano l'opera a mio parere molto apprezzabile anche (o soprattutto) da chi il lavoro del cooperante lo fa o l'ha fatto e può ridere sotto i baffi, rivedendosi nelle sottili sfumature di una condizione di vita e nei suoi riflessi psicologici e stati d'animo che León de Aranoa riesce acutamente a cogliere, con intelligenza e, appunto, con dolceamara ironia.
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