sabato 26 dicembre 2015

Il 2015 dell’occupazione.

Le fonti ufficiali e amministrative convergono su alcuni punti per quanto riguarda la dinamica dell’occupazione nel 2015. Aumentano gli occupati, soprattutto nei servizi e nel lavoro dipendente. In calo i rapporti di collaborazione, mentre sono consistenti gli effetti della decontribuzione.

Watchdog della politica economica italiana Bruno Anastasia
La dinamica dell’occupazione
Sulla dinamica dell’occupazione nel 2015 abbiamo ormai a disposizione numerose informazioni statistiche aggiornate al terzo trimestre o anche a ottobre. Alcune evidenze si possono cominciare a considerare acquisite: i due mesi che mancano alla fine dell’anno potrebbero determinare qualche correzione, ma non alterare i segni dei fenomeni. Dall’esame congiunto delle varie fonti ufficiali (Indagine sulle forze di lavoro Istat e dati di contabilità nazionale) e amministrative (Inps-Osservatorio sulla precarietà; ministero del Lavoro e network SeCo per le comunicazioni obbligatorie delle imprese ai centri per l’impiego) si può delineare il quadro che di seguito sintetizziamo.
Un punto sembra ormai certo e assodato: gli occupati complessivi sono aumentati. La variazione, comunque calcolata (occupati o unità di lavoro o posizioni lavorative), rispetto all’anno precedente si aggira sulle 200mila unità. Non si tratta di una dimensione tale da far scordare la dura riduzione imposta dalla crisi, né il ritmo del recupero è tale da assicurare sugli sviluppi futuri: ma è comunque una netta inversione di rotta.
Un secondo punto sul quale c’è convergenza è la caratterizzazione settoriale dell’incremento, che risulta sostanzialmente dovuto ai servizi, mentre per le costruzioni, pur rallentata, prevale ancora la tendenza riflessiva e il manifatturiero risulta, per ora, aver (solo) arrestato, dopo un lungo periodo, il processo continuo di ridimensionamento.
Un terzo elemento si può dare per assodato: la crescita si è prodotta nell’area del lavoro dipendente mentre l’insieme (eterogeneo) del lavoro indipendente è rimasto al palo.

Tipologie dei contratti
Questione controversa è invece l’apporto alla crescita delle diverse tipologie di contratti di lavoro. Dal punto di vista delle politiche del lavoro, l’anno è stato caratterizzato dall’attenzione agli effetti dell’esonero contributivo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, a partire da gennaio 2015, e dal primo impatto del Jobs act su diversi aspetti, in primis la revisione, in vigore da fine marzo, della normativa sui licenziamenti (contratto a tutele crescenti) e le restrizioni, attivate da giugno, per alcune forme di rapporto di lavoro parasubordinato (contratti a progetto, associazione in partecipazione).
Tutti questi elementi convergono, di fatto, nell’incentivare o comunque favorire le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, riducendo il costo mensile per i primi tre anni e rendendo certo il costo di una risoluzione per licenziamento. È dunque logico che a questo aspetto si dedichi una particolare attenzione.
I dati amministrativi (Inps, ministero del Lavoro, network SeCo) hanno evidenziato il netto incremento sia del volume di nuove assunzioni a tempo indeterminato sia del volume di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (tabella 1).
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Nello stesso periodo, il volume delle assunzioni sia con contratti di apprendistato sia con contratti a tempo determinato è diminuito (Inps, primi dieci mesi del 2015) o modestamente aumentato su base annua (ottobre 2014-settembre 2015), parallelamente a un’analoga crescita delle cessazioni (regioni SeCo). Il maggior volume di assunzioni si riflette nelle variazioni dello stock dei rapporti di lavoro in essere: i grafici 1 e 2, pur scontando il diverso universo di osservazione territoriale e la diversa base settoriale (Inps non include agricoltura e settore pubblico), evidenziano che la dinamica finalmente positiva risulta chiaramente trainata dai contratti a tempo indeterminato. Tanto per Inps quanto per le regioni SeCo le posizioni di lavoro a termine risultano invece in flessione e lo stesso si registra per l’apprendistato. Aggiungiamo che i dati amministrativi attestano chiaramente pure la riduzione del ricorso sia ai rapporti di lavoro intermittente (come ormai accade dal 2012) sia ai rapporti di collaborazione (-20 per cento su base annua) mentre è cresciuto fortemente l’utilizzo dei voucher.




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Nei dati Istat non emerge ancora nitidamente la crescita del tempo indeterminato: sembra anzi che l’incremento dei rapporti a termine sia più rilevante per spiegare la crescita occupazionale. Come peraltro si osserva nella tabella 2 le variazioni tendenziali degli occupati nella distribuzione tra occupati a termine e occupati a tempo indeterminato oscillano di mese in mese. E occorre sempre ricordare che stiamo parlando di variazioni in valori assoluti che sono sotto quella soglia di consistenza tale da poter essere accertata con sicurezza anche da un’indagine campionaria, come quella sulle forze di lavoro.
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(1) Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino Alto Adige, Marche, Campania, Umbria, Emilia Romagna
Effetti della decontribuzione
Del resto, se quest’anno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non fossero aumentati in termini di flusso e di conseguenza anche in termini di stock (è impensabile infatti immaginare una parallela e contestuale moria, con la riduzione delle durate dei tempi indeterminati alla stregua del somministrato o della maggioranza dei rapporti a termine) significherebbe che un incentivo triennale pari al 30 per cento del costo del lavoro non ha molto peso né appeal. Certificherebbe una conferma di non nuove teorie sul salario come variabile indipendente (dal suo costo). Così non è stato. La decontribuzione – che, basandoci sui dati Inps, possiamo stimare a fine anno supererà agevolmente il milione (tra nuovi rapporti a tempo indeterminato e trasformazioni) – ha avuto effetti consistenti e consegna al 2016 un trascinamento occupazionale positivo: una fiammata di assunzioni a tempo indeterminato ha effetti indubbiamente più duraturi di una analoga dovuta ai rapporti a termine, come accaduto nel 2014 con il decreto Poletti.
*Bruno Anastasia dirige l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro, ente strumentale della Regione Veneto. Dal 1994 al 2001 è stato presidente del Coses di Venezia e dal 2001 al 2006 presidente dell’Ires Veneto. Ha insegnato Economia del lavoro all’Università di Trieste, Corso di laurea in Scienze della Formazione. Dal 2000 al 2006 ha collaborato con il Gruppo nazionale di monitoraggio delle politiche del lavoro istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dal 2007 al 2009 ha collaborato all’attività della Commissione di Indagine sul lavoro di iniziativa interistituzionale Cnel-Camera dei Deputati-Senato (Commissione Carniti).

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