Fonte:
Il ManifestoAutore:
Ciccio Ferrara
Dovremmo fermarci e ragionare su noi stessi, sulla prospettiva della nostra politica. Da anni la sinistra italiana fa la stessa cosa, aspettando risultati che non arrivano. Chissà perché dovrebbero scaturire, se lo schema è una coazione a ripetere di un percorso politico e organizzativo che la riporta alla casella di partenza.
Guardiamo alla Grecia, alla Spagna, senza mai considerare quei processi dei modelli meccanicamente da importare, ma vediamo come manifestano una rottura, una speranza in quei paesi e per l’Europa. È presto per dire se da lì potrà emergere un’alternativa alle scellerate politiche di austerità che percorrono il Continente, ma nella lunga stagnazione della sinistra europea sembra aprirsi un varco.
Dovremmo fermarci e ragionare su noi stessi, sulla prospettiva della nostra politica. Da anni la sinistra italiana fa la stessa cosa, aspettando risultati che non arrivano. Chissà perché dovrebbero scaturire, se lo schema è una coazione a ripetere di un percorso politico e organizzativo che la riporta alla casella di partenza.
Guardiamo alla Grecia, alla Spagna, senza mai considerare quei processi dei modelli meccanicamente da importare, ma vediamo come manifestano una rottura, una speranza in quei paesi e per l’Europa. È presto per dire se da lì potrà emergere un’alternativa alle scellerate politiche di austerità che percorrono il Continente, ma nella lunga stagnazione della sinistra europea sembra aprirsi un varco.
Da noi non è così. Mettere sul tappeto
le ragioni di uno stallo politico che può diventare scacco matto per
l’intera sinistra è una necessità non rinviabile. Il quadro che si
delinea nelle urne è un allargamento del solco che i cittadini
mettono, con l’astensione, tra sé e l’offerta di un possibile
cambiamento, che non riconoscono come tale. Ciò determina la
crescente spoliticizzazione della società dentro cui
fertilizzano populismi e trasformismi che diventano il terreno
per la ricostituzione di una destra xenofoba e nazionalista. Se
guardiamo alla prospettiva, assistiamo al proliferare,
a sinistra, di tentativi generosi ma inconcludenti. Di loro si
percepisce il senso di una frammentazione incapace di un
processo di ricomposizione, privo del minimo comun denominatore
politico in grado di produrre quell’unificazione che tiene insieme
culture politiche e leadership condivisa, progettualità,
organizzazione di una nuova soggettività politica della sinistra.
Sel è stata il più generoso
e strutturato di questi tentativi. Generoso per l’impegno dei
militanti in un progetto mai considerato autosufficiente
e sempre aperto, come nelle europee e in questa tornata
amministrativa, ad allargare il campo a contaminazioni con
esperienze e pratiche arricchenti. Più strutturato perché Sel ha
messo in campo una ricerca inedita di culture politiche come
architrave di una strategia di cambiamento per il Paese.
Un’elaborazione incompiuta ma alta e non comune nel panorama
italiano. Un’elaborazione che è mancata al processo di costruzione
del Pd, segnando il suo destino di contenitore elettorale
orientato all’occupazione del potere, fino al punto di concepirlo
partito della nazione. È qui la causa principale della difficoltà
di un comune operare di queste due forze per la costruzione di un
centrosinistra la cui cultura di governo risultasse parte di
un’alternativa politica e sociale alla destra e al moderatismo.
Dobbiamo avere il coraggio di dire che questo tentativo generoso
non è bastato, né basterà, se la prospettiva è dare al Paese una
sinistra considerata utile da una parte larga, popolare,
maggioritaria dell’Italia. Se la sinistra non è questa,
l’autoreferenzialità e la riproduzione di ceto politico che tanto
contrastiamo diventerà un impedente dato di fatto.
Il tempo per rompere gli indugi,
a partire da Sel, è adesso. Il rinvio, l’esercizio temporeggiatore
di un altro giro, ci consegnerebbero ad una lunga subalternità.
Scomposizione, scioglimento, riaggregazione, diventano
espressioni gergali di ceti politici se non siamo capaci di rompere
davvero lo schema di gioco che ci paralizza. L’esperienza che abbiamo
compiuto è in sé ormai esaurita. Questa capacità si gioca adesso in
un campo più vasto e abita tutti i luoghi in cui il confronto
e l’incontro, è sul cambiamento, sull’alternativa ai populismi, ai
trasformismi, ai posizionamenti di potere, ai consociativismi
delle unità nazionali. Cogliamo l’urgenza e mettiamoci al lavoro per
costruire qualcosa di nuovo a sinistra, con tutte quelle
soggettività che proprio perché distanti da un’autosufficienza
minoritaristica avvertono, come noi, che il tempo sta per scadere.
Le nostre resistenze, le paure verso un passaggio difficile, le
chiusure, le attese, risulterebbero contrastanti rispetto a quella
missione che è al fondamento della nostra stessa esistenza. È un
rischio che corriamo, se è vero che da tempo invochiamo l’apertura di
un varco, ad esempio dentro il Pd, e nel momento in cui ciò
finalmente avviene ci attardiamo su giudizi che hanno a che fare con
il posizionamento dei diversi interlocutori, da Civati a Fassina
o Landini, impegnato in un’azione tesa a dare nuova forza al mondo del
lavoro, piuttosto che promuovere noi per primi luoghi d’incontro
e di confronto nei quali queste diverse esperienze abbiano modo di
parlarsi e di agire sul merito dei problemi. Democrazia diffusa
e innovazione politica sono i due terreni da dissodare per dare
alla sinistra che vogliamo un proprio profilo culturale e politico
e insieme una leadership affidabile e popolare. Qui è il campo
dove occorre trasferire quel patrimonio utile e ricco che abbiamo
accumulato in Sel in questi anni, con l’orgoglio di averci provato
e di essere stati capaci nei punti più alti del nostro cammino — in
Puglia, a Milano, a Cagliari — di sperimentare felicemente.
Ragionare su questo passaggio, mai come ora così urgente
e necessario, è la strada giusta dove giocare la sfida che ci
attende e, questa volta, vincerla.
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