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«È
un avvocato di Torino…», disse mia madre passandomi la cornetta. Un
pomeriggio d’inverno del 2011, il Novecento mi telefonò a casa. Aveva la
voce squillante di Bianca Guidetti Serra a novantadue anni, il suo
rotacismo sull’accento piemontese” (Daniele Orlandi, “A voi la fiaccola”).
Coglie
nel segno Daniele Orlandi in apertura del suo bellissimo saggio
sull’amicizia fra Bianca Guidetti Serra e Primo Levi. Coglie nel segno
perché l’intera vita di questo “avvocato di Torino”
riassume in sé i momenti più alti delle lotte sociali e delle conquiste
civili del Novecento italiano. Pochi hanno saputo incarnare lo spirito
del proprio tempo (a volte anticipandolo) come Bianca Guidetti Serra, ad
attraversare il secolo breve con una tale internità ai processi di
cambiamento. Con eccessiva modestia, lei si definiva come “un granello di sabbia, che unendosi ad altri può creare degli argini a correnti pericolose e può inceppare ingranaggi e meccanismi perversi”.
Non
le sfuggiva dunque l’importanza della dimensione collettiva nell’agire
politico, né la difficoltà dell’obbiettivo: arginare le correnti più
nefaste della Storia, inceppare i meccanismi del Potere, compiti
all’apparenza così smisurati rispetto alle forze dei singoli. Di certo,
questo gigante morale del ‘900, nel farsi sabbia seppe spesso provocare
in quegli ingranaggi un acuto stridio, e varie volte a fermarli.
Cominciò
così, non ancora per coscienza politica quanto per un profondo senso di
giustizia, il suo “farsi argine”, come momento di un processo di
maturazione collettiva nel suo straordinario gruppo di amici: Alberto
Salmoni, Franco Momigliano, Silvio Ortona, Vanda Maestro, Luciana Nissim, Ada Della Torre,Franco Sacerdoti, Primo Levi, Sandro Delmastro, Emanuele Artom.
Dopo
l’8 settembre presero tutti la via delle montagne, e alcuni la strada
ferrata per i campi di sterminio. Unica “gentile” in un gruppo di ebrei,
fu Bianca la destinataria delle lettere dall’inferno di Primo Levi.
Al
fianco di Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra divenne staffetta
partigiana nelle valli piemontesi, ma soprattutto organizzò assieme alle
compagne di varie formazioni, la rete clandestina torinese dei “Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti per la libertà” (GDD): la base della Resistenza sociale, senza la quale nemmeno la lotta armata sarebbe stata possibile.
Le
donne dei Gruppi di difesa erano l’ossatura del Soccorso Rosso per i
prigionieri e le loro famiglie, raccoglievano fondi e beni di prima
necessità per le brigate partigiane, costruivano reti di cura dei feriti
nelle case e negli ospedali. Ma i loro compiti erano ben più ampi e
complessi della semplice “assistenza”: si occupavano della redazione dei
giornali clandestini, della compilazione di documenti falsi. Mappavano
gli spostamenti delle truppe tedesche, segnalavano i punti minati,
assaltavano i magazzini di viveri, trasportavano ordini, armi e
munizioni. Manifestavano in onore delle compagne uccise, o per impedire
deportazioni e rastrellamenti, e per la liberazione dei prigionieri.
Alcune riuscivano a rapire militari tedeschi per scambiarli con i
condannati a morte. Nelle fabbriche promuovevano gli scioperi delle
donne e i sabotaggi della produzione bellica, che aveva forti componenti
femminili fra le maestranze operaie1.
Bianca,
nel nucleo fondatore dei GDD di Torino, fu attiva nelle attività di
propaganda, e grazie alla sua esperienza precedente di assistente
sociale di fabbrica ebbe il compito di curare l’internità delle donne ai
comitati di agitazione2 che si andavano diffondendo nei luoghi di lavoro, in vista dello sciopero preinsurrezionale del 18 aprile ’45.
Un’attività
che non si fermò col 25 aprile, perché se Liberazione doveva essere,
essa doveva riguardare anche la discriminazione di genere a partire
dalla disparità salariale.
Nel
luglio del ’45 le donne di Torino scesero in sciopero ed occuparono
l’Unione Industriale per ottenere la stessa indennità di contingenza
degli uomini. Raggiunsero l’obbiettivo, anche se temporaneo e
territorialmente circoscritto.
Non
era un risultato scontato, e non lo sarebbe stato nemmeno dopo il varo
della Costituzione repubblicana che formalmente sanciva l’eguaglianza
fra i sessi. Per affermare questo principio sul piano giuridico si
dovette aspettare, nel 1958, l’esito vittorioso della prima causa per la
parità salariale fra uomo e donna e l’abolizione della “clausola di
nubilato”3,
condotta contro il Gruppo Finanziario Tessile di Torino. A difesa
delle lavoratrici tessili vi era l’avvocato Bianca Guidetti Serra.
Nei
primi anni del dopoguerra l’ineguaglianza di genere non fu l’unico
esempio di inapplicazione del testo costituzionale. Alla sconfitta
formale del fascismo non era seguita né l’abrogazione del codice penale
ereditato dal guardasigilli di Mussolini, Alfredo Rocco, né l’epurazione
dall’apparato repressivo dei funzionari e dei giudici nominati nel
ventennio. A dire il vero, l’ossatura dell’odierno codice penale è
ancora quella, tuttora usata contro i movimenti, ma negli anni ’50 essa
si presentava tal quale, senza alcun emendamento.
Prima che ne venisse sancita l’illegittimità costituzionale4,
l’art. 113 del codice Rocco, che vietava i comizi, i volantinaggi e
l’affissione di manifesti senza previa autorizzazione della questura,
veniva applicato in maniera intensiva, portando a giudizio e a
reclusione centinaia di militanti sindacali e dei partiti della
sinistra. L’avvocato Guidetti Serra dovette occuparsene parecchio,
assieme agli arresti per le attività di fabbrica, e la difesa giuridica
delle lotte costituì per lei un osservatorio privilegiato dei
cambiamenti nella composizione di classe e dell’emergere di nuove
conflittualità. Come quando, nel luglio ’62, dopo un accordo separato
con la Fiat, centinaia operai corsero all’assalto della sede della UIL
di Piazza Statuto, reggendo gli scontri per tre giorni. Bianca fece
parte del collegio di difesa dei 72 arrestati, di cui “quasi la metà erano meridionali e, tra tutti quanti, solo otto avevano più di trent’anni, e il più giovane ne aveva quattordici”5.
Avvertì da subito la crescita di quel nuovo soggetto giovane e
immigrato, irregimentato in produzione ma confinato ai margini della
città, e la crescita della sua rabbia, tale da alimentare il ciclo di
lotte successivo.
Gli
anni ’60 rappresentarono per Bianca anche quelli dell’impegno a favore
dell’infanzia abbandonata rinchiusa dentro istituzioni totali minorili,
veri e propri lager per proletari in fasce. Fu un lavoro costante di
inchiesta e di denuncia, condotto assieme a Francesco Santanera, che
servì a portare in tribunale i gestori di vari istituti, per le
violenze, la denutrizione, l’incuria inflitta a centinaia di inermi
ragazzini. Bambini lasciati morire per mancanza di cure, bambini
suicidi, una galleria degli orrori raccontata qualche anno dopo nel
libro “Il paese dei celestini”:
“I
ragazzi erano malnutriti ed erano assoggettati a punizioni
intollerabili come mangiare anche per quindici giorni la pappa di pane
senza sale e con l’olio di merluzzo, essere legati alle zampe del letto
sotto di questo a crocefisso, ricevere percosse”. (Istituto Maria Vergine Assunta in Cielo, Prato).
“Porte
sgangherate, urina stagnante a terra, sporcizia stratificata sulle
pareti, insetti schifosi che movimentano l’ambiente. Questi locali sono
il soggiorno di una quindicina di bimbi minorati psichici e non, che
sono ospiti a pagamento di questo assurdo collegio di pseudorieducazione
… I loro corpicini scarni, deformati, i loro occhi spenti ma tristi,
fanno sì che qualsiasi uomo, anche il più abbietto, si muova a
compassione e inviti, chi è competente, a provvedere” (Casa materna per bambini minorati di Pagliuca Maria Diletta, Grottaferrata).
I
processi ai gestori e al personale degli istituti si conclusero con
alcune lievi condanne, ma la campagna di denuncia della Guidetti Serra e
Santanera raggiunse ugualmente un risultato importante con la legge sulle adozioni del 1967, che finalmente tolse spazio agli aguzzini6.
Punto
di riferimento per gli abitanti dei quartieri popolari e ormai nota per
la sua competenza sulle questioni minorili, alla Guidetti Serra si
rivolsero Argenide Rovoletto e Marianna Cavallero per problematiche
relative ad affidamenti ed adozioni. Ma nell’ottobre del 1967, le madri
di due fra i rapinatori più famosi del paese, dovettero tornare in
quell’ufficio per tutt’altri motivi. (Continua)
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