giovedì 25 giugno 2015

La denuncia delle associazioni: il succo d'arancia come la coca, tagliato e meno puro.

Presentato il rapporto FilieraSporca realizzato da Terrelibere, daSud e Terra. Uno spaccato impressionante sul mercato degli agrumi. Dalle campagne, tra sfruttamento e caporalato, agli scaffali. Passando per la truffa del succo italiano mischiato a quello brasiliano. Una giungla dove il più forte impone la propria legge.

La denuncia delle associazioni: il succo d'arancia come la coca, tagliato e meno puro L'Espresso di Giovanni Tizian

"Il‘virus della tristezza’ è una malattia che colpisce gli agrumi. Una parte del ramo diventa troppo grande e finisce per uccidere tutta la pianta». Una metafora perfetta per spiegare come l'illegalità diffusa in tutta la filiera agroalimentare rischi di distruggere un intero settore.

Si apre con queste parole di un agricoltore siciliano il rapporto FilieraSporca, un dossier firmato dall'associazione daSud, Terra e Terrelibere, che indaga la filiera agroindustriale dell'arancia: dalle campagne allo scaffale della grande distribuzione. Lungo questo percorso si incrociano poteri criminali e sfruttamento dei braccianti stranieri. Campagne trasformate in lager senza acqua, luce e in condizioni igieniche pessime. E rotte dominate dai camion che fanno capo alle organizzazioni mafiose.



Nel mezzo ci sono gli intermediari che di fatto sono i padroni dei mercati ortofrutticoli: «I mercati ortofrutticoli nascono come sbocco commerciale delle produzioni locali. Dovrebbero rifornire piccoli dettaglianti e mercati rionali. Sono sostanzialmente l’alternativa primaria alla grande distribuzione. Spesso funzionano male. Come abbiamo visto importano dall’estero. Sono dominati da un numero eccessivo di mediatori», si legge nel rapporto. Proprio i mediatori, i sensali, sono quelli che impongono prezzi bassissimi ai piccoli produttori.

Ognuno, insomma, scarica i costi sul più debole. Una vera e propria catena dello sfruttamento. In questa giungla, che inizia dall'albero e finisce nella grande distribuzione, dove il più forte impone la sua legge, la logica che guida gli imprenditori è banale: il profitto a qualunque costo, con qualunque mezzo.

Così è facile imbattersi in storie che possono sembrare surreali e che invece sono terribilmente reali. Gli autori del dossier spiegano per esempio come avviene il taglio del succo d'arancia. Già, il mitico succo d'arancia italiano. Cento per cento italiano? Non proprio.

«Una bolla d’accompagnamento sostituita con un’altra. Con un solo gesto 510 tonnellate di succo d’arancia brasiliano diventavano italiane. Pronte per essere tagliate con gli agrumi di Rosarno». Tagliate come si fa con la cocaina, la stessa che la 'ndrangheta importa a tonnellate nello scalo di Gioia. «L’indagine è condotta dal Corpo Forestale dello Stato e dalla Procura di Palmi - prosegue il dossier - Siamo nel porto di Gioia Tauro. Un enorme hub dove le merci che arrivano dall’oriente sono stoccate su navi più piccole che arriveranno nei porti europei. Qui, negli anni, è arrivato di tutto. Dalle scarpe contraffatte alla cocaina nascosta nei blocchi di marmo o tra le banane dell’Ecuador. Non c’è limite alla fantasia dei trafficanti.

Ma sicuramente ci vuole molta immaginazione per pensare che il succo chimico – come spiegato in seguito – “taglierà” quello naturale. Il problema del “biondo calabrese” è il restrogusto amaro. Oltre la soglia del 13%, l’amaro non è accettato dalle specifiche delle bibite commercializzate nei supermercati. La soluzione è una banale mescolanza. Il succo brasiliano arriva nella Piana in vari modi, attraverso i container o sbarcando nei porti con meno controlli, come in Grecia, e poi proseguendo il percorso via terra. Come fosse il gioco dell’oca. È lo stesso giro dell’olio che arriva a Valencia e poi via camion in Italia. Gioia rimane un porto di transhipment. In questo modo non c’è controllo doganale. Il problema sono le mancate verifiche incrociate sulla produzione del succo. La maggior parte delle aziende ormai mescolano succo locale e altro importato».

Un made in Italy dal sapore contraffatto. Meccanismi di un mercato globale che hanno portato alla chiusura numerosi “spremitori”, gli stabilimenti dove si produce il succo. «Altri spremitori hanno chiuso, come Conagri, Apoc, Itals. Basta un giro veloce nel paese o appena fuori per verificare che tutti i capannoni erano in prossimità di fiumi e fiumare. Così i residui altamente inquinanti delle lavorazioni finivano in mare. Gli spremitori erano tanti. Alcuni storici, quasi tutti con piccole aziende. Cubi di latta e cemento tra il verde degli agrumi oppure edifici nascosti tra i mattoni forati dei palazzi non finiti. In Sicilia accade la stessa cosa: tanto prodotto che arriva al porto di Catania proviene dal Marocco, dall’Egitto, dalla Spagna. Ovviamente a un prezzo più basso»

Nel 2012 le associazioni dei consumatori denunciavano che l’80 per cento del succo d’arancia consumato in Europa proviene da Brasile e Stati Uniti. È interessante però il racconto di un produttore locale intervistato dalle associazioni che hanno realizzato l'inchiesta. «Il prezzo del succo concentrato è deciso a livello internazionale. Una percentuale minima si produce in Europa, tra Italia e Spagna. Il Brasile incide per il 70%, solo l’azienda Cutrale possiede 100mila ettari. Il resto viene dagli Usa.

Qui hanno creato il Valencia da succo come specie selezionata. Tecnicamente si chiama Nfc (Non Frozen Concentrate), è succo pastorizzato con aggiunta di anidride solforosa. Fc (Frozen Concentrate) è invece il bevibile, ha una filiera simile a quella della centrale del latte. I succhi di arancia rossa sono pastorizzati di qualità. In Italia il prezzo medio del Nfc è di 7 centesimi. La battaglia per un prezzo più alto dell’arancia da succo è di retroguardia. L’unica strada è differenziare i prodotti oppure creare un prodotto di qualità tale che non può essere trovato in altri luoghi. Un prodotto non sostituibile».

L'arancia rossa, la sanguinella, è la primizia che si raccoglie in provincia di Catania. Un prodotto d'eccellenza. Ma anche in questa filiera non mancano le opacità. A partire proprio dallo sfruttamento dei migranti africani. Molti di quelli che vivono nel centro per richiedenti asilo di Mineo, infatti, hanno trovato caporali disposti a concedergli il favore di un lavoro: raccolgono arance come a Rosarno, poi tornano nel ghetto della solidarietà più grande d'Europa.

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