giovedì 25 giugno 2015

Scuola. La verità, vi prego, su Renzi, la scuola e l’Italia.

Perché tanta ostinazione da parte del governo Renzi su una riforma che ha portato a un durissimo scontro con insegnanti, studenti, sindacati, associazioni, movimenti, da un anno sulle barricate in difesa della scuola della Costituzione?



micromega di Anna Angelucci

Insegno, e ho il vizio della lettura e dello studio. Ho anche l’abitudine alla riflessione e all’analisi. E, talvolta, alla ricostruzione diacronica degli accadimenti. Lo so, nel mondo d’oggi sono perversioni. Perdite di tempo. Ma consentitemele. Finché non ci sarà un preside-sceriffo che mi considererà immeritevole perché mi balocco con i libri invece, chessò, di affinare le mie competenze digitali, fatemi crogiolare un po’ nella memoria e nel pensiero.

Mi chiedevo, in queste ore convulse che precedono la votazione del ddl scuola in Parlamento, il perché di tanta ostinazione del governo sulla riforma proposta, o meglio, imposta, da Renzi. Un’ostinazione patologica, che ha portato il premier a un corpo a corpo con insegnanti, studenti, sindacati, associazioni, movimenti.

Renzi e il suo governo contro migliaia di persone che da un anno sono sulle barricate in difesa della scuola della Costituzione. Un corpo a corpo pagato a caro prezzo sul piano elettorale da tutto il Partito Democratico, prima rottamato e asfaltato dal suo segretario e ora sfiduciato e disprezzato dagli elettori. Ma, di questo, Renzi sembra curarsi poco: del resto, da Monti in poi, i governi in Italia sono commissariati, non hanno più reale legittimità politica e sono funzionali alla realizzazione delle riforme imposte da Bruxelles. È lì che Renzi deve portare a casa il risultato. È lì che deve render conto. È per questo che Napolitano lo ha sostituito all’inefficace Letta, troppo titubante per gli eurotecnocrati.

L’ostinazione renziana dunque, si spiega con un piccolo sforzo di ricostruzione storica: nella lettera della Bce a Berlusconi del 2011 e, pochi mesi dopo, in quella della Commissione europea al governo, le riforme erano tutte chiaramente e prescrittivamente declinate, compresa quella della scuola: nuovi sistemi regolatori e fiscali per sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro; liberalizzazione dei servizi pubblici e dei servizi professionali; riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva con accordi al livello d’impresa più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione; revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti; misure immediate per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche con economie di scala e tagli di spesa; riforma del sistema pensionistico; riduzione dei costi del pubblico impiego, se necessario riducendo gli stipendi; riforma della pubblica amministrazione, con l’introduzione sistematica dell’uso di indicatori di performance, soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione. Il tutto in cambio del massiccio sostegno della Bce nella riduzione dello spread, che aveva raggiunto, a novembre del 2011, l’insostenibile punta di 575.

È così semplice, basta un piccolo sforzo di memoria. A questo servono gli insegnanti.

Defenestrato Berlusconi, la riforma delle pensioni fu rapidissimamente portata a casa da Monti, con la ministra Fornero che piangeva davanti alle telecamere. Erano, certo, lacrime di coccodrillo, ma comunque espressione di una consapevolezza che pare oggi drammaticamente assente nello sguardo vacuo di Renzi e Giannini, nel volto spento di Padoan, nel ghigno affilato della Boschi. Dei 300 giorni del governo Letta ricordiamo soltanto l’indimenticabile conferenza stampa del premier che, in mondovisione dagli Emirati Arabi (da cui peraltro ritornò col misero obolo di 500 milioni di euro) tuonava contro chi, in Italia, aveva offeso la Boldrini, al grido di ‘è una barbaria’ con la a, ripetuto tre volte, mentre in poltrona, sullo sfondo, l’emiro in ciabatte volgeva alla telecamera uno sguardo interrogativo.

Da sostituire immediatamente, avrà pensato Napolitano, mentre Renzi twittava all’amico #staisereno e intanto si candidava a fargli le scarpe. Giovane, estroverso, innovatore, arrivista: il perfetto homunculus novus per portare a termine la missione ordinata dall’Ue, rinsaldando subito quel patto scellerato in cambio del differimento del pareggio di bilancio al 2017.

E così è stato, se riflettiamo sui provvedimenti attuati e in corso d’opera. Con l’aggravante della totale concordia tra Renzi, il Parlamento e i diktat di Bruxelles. E non so dire se è più drammatico che deputati e senatori italiani legiferino senza comprendere portata e conseguenze delle proprie azioni o che capiscano, apprezzino e concorrano consapevolmente all’affossamento del nostro Paese.

Il Jobs act; l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; lo Sblocca Italia; la riforma della pubblica amministrazione; le riforme costituzionali; il disegno di legge sulla scuola, che altro non è che la riforma del governo della scuola in chiave autoritaria e gerarchica e la sua consegna al mercato: altrettanti tasselli dell’ideologia della deregulation, della privatizzazione, della liberalizzazione selvaggia, della cancellazione dei diritti dei lavoratori e delle tutele dei cittadini, imposti dalla troika e realizzati da questo governo e da questo Parlamento, in cui una sparuta minoranza si oppone ma non ha i numeri per vincere e un’altra sparuta minoranza finge di opporsi ma al momento del voto è sempre rientrata nei ranghi, come nella migliore tradizione gregaria e opportunista del nostro italico, ignobile, ‘particulare’.

Ma noi siamo insegnanti, noi ricordiamo; ricatti e mistificazioni non ci obnubilano. Conosciamo le implicazioni della posta in gioco, che va ben oltre la stabilizzazione di uno, nessuno, centomila precari: difendere la scuola della Costituzione significa contrastare il disegno regressivo di chi, col ricatto del debito, vuole cancellare le conquiste della democrazia in Europa. La Grecia insegna.

Domani, in Parlamento, la verità, vi prego, su Renzi, la scuola e l’Italia.

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