lunedì 3 giugno 2013

PIETRO INGRAO E IL COMUNISMO DI SINISTRA

Autore: Franco Piperno

Ho incontrato Pietro Ingrao nel 1970 a Roma, in casa di Ninni Monroj, una signora palermitana, scomparsa qualche anno fa, che sobriamente usava la convivialità per mescolare tra di loro, dirò così, intellettuali della variegata sinistra, confidando nella circostanza che intessere rapporti personali, come, per esempio,incontrarsi a cena, avrebbe favorito una conoscenza reciproca ed evitato le “zuffe a perdere”, che, in quegli anni, erano assai frequenti, soprattutto nella capitale.
L’anno successivo, Pietro, che era consigliere comunale a Roma, fu ufficiale civile alle mio matrimonio in Campidoglio – non posso non ricordare le sue ultime parole nel discorso di rito, parole che suonarono come una piccola profezia: si augurava e temeva che a noi toccasse una “vita intensa”.
Va da sé che io, Pietro Ingrao, lo conoscessi da prima e anche bene — la sua immagine pubblica intendo. E nutrivo un rispetto non privo d’ammirazione per lui.
Sapevo di lui già da quando vivevo a Catanzaro, dai tempi del liceo; militavo allora nella FGCI, l’organizzazione giovanile del partito comunista italiano, quello ancora di Gramsci ma già anche di Togliatti. Per noi giovani comunisti calabresi, era del tutto evidente che, sulla questione meridionale e non solo, v’erano nel partito, messo a parte l’obesa macchina burocratica, due tendenze significative, ancorché non formalmente organizzate in correnti, come accadeva invece nel partito socialista.
V’era la linea della destra interna,quella di Giorgio Amendola, che proponeva la modernizzazione forzata del Sud, ovvero una politica d’industrializzazione tramite la mano pubblica. La natura profondamente minimalista e autoritaria di questa linea comportava un restringimento dell’azione del partito alle relazioni col ceto politico, alle alleanze “politiciste” con gli altri partiti. E questo con ragione perché programmare l’economia per modernizzare il Sud non abbisognava delle masse, bastavano e, dirò così, avanzavano, le burocrazie dello stato e dei partiti.

V’era poi la sinistra interna, quella ingraiana. Pietro Ingrao era convinto che le masse meridionali stesse dovessero essere protagoniste delle forme e dei modi della loro emancipazione; era quindi attento alla trasformazione sociale piuttosto che al consenso elettorale e alle maggioranze di governo; aveva rispetto e curiosità per la civiltà contadina, per la potenza di quel legame comunitario — forse, mi piace pensare, perché, in gioventù, sul finire della guerra, per sfuggire alla polizia politica che lo ricercava, s’era rifugiato tra i casali cosentini, le città rurali del Bruzio; e aveva fatto esperienza diretta di quella condotta di vita, l’adattamento sentimentale al luogo, allo spirito del luogo; spirito pubblico che, oggi, le lingue di legno chiamano omertà.
Noi, o comunque io, avevamo appreso più dall’oratoria appassionata di Ingrao, piena di vocali arrotolate che dallo stile algido, giacobino, sprezzante, dirò così, alto borghese che impregnava i discorsi di Amendola.
Poi, finito il liceo, andai a studiare a Pisa. Qui il partito era assai più radicato, nella vita civile, di quanto accadesse a Catanzaro — dove i militanti appartenevano prevalentemente alla piccola-borghesia impiegatizia quando non alle professioni liberali o addirittura alla rendita fondiaria. Così, in Calabria, tra i funzionari di partito, i contadini, intendo quelli provenienti dalle grandi lotte contadine, si contavano sulle dita di una sola mano; in Toscana, invece, a reggere l’apparato v’era una significativa componente d’origine operaia; e molti tra di loro avevano combattuto, appena venti anni prima, la guerriglia partigiana. Inoltre la presenza degli universitari, studenti e professori, conferiva come un tocco di raffinata consapevolezza al dibattito vivace che aveva corso all’interno delle sezioni e delle cellule di partito. Insomma, come dire, si trattava di una altra umanità.
A Pisa, la federazione era diretta dal compagno Di Paco, in quota, dirò così, alla sinistra. Io ero iscritto alla sezione universitaria e la maggioranza di questa sezione era assai critica verso Di Paco e gli altri dirigenti federali, specie sulla questione della politica universitaria. Per dirla in breve più che ingraiani questi dirigenti sembravano anti-amendoliani, dunque inevitabilmente subalterni, come accade alle identità negative. D’altro canto, nella sezione universitaria, era venuta emergendo, specie tra noi studenti, una terza tendenza,minuscola rispetto alle due maggiori, ma sufficientemente radicale da riuscire a dare un senso alla miseria della condizione studentesca. Chiamerò sommariamente “operaista”questa minuscola tendenza, giacché condivideva molti dei concetti politico-sociali elaborati dalla rivista torinese “Quaderni Rossi” e, successivamente, dalla romana “Classe Operaia”. Lo scontro politico che si svolgeva all’interno del partito, si manifestò pubblicamente quando la sezione universitaria guidò, nel gennaio del 1964, l’occupazione dell’ intero ateneo, occupazione che durò un mese e forse più. Il dibattito che si svolse allora, alla Sapienza di Pisa, montò gli attrezzi teorici che permisero,qualche anno dopo, la nascita e la lunga persistenza del “68 studentesco ed operaio in Italia.
La federazione sconfessò pubblicamente l’occupazione; e i dirigenti ingraiani ci avvertirono che rischiavamo l’espulsione dal partito; ciò che più destava stupore era la loro incapacità a rimettere in discussione l’istituzione universitaria, come per un inconsapevole e reverenziale superstizione nei riguardi della conoscenza e della scienza ufficiale. Gli ingraiani pisani non ci allontanarono dal partito; non allora. Lo fecero tre anni dopo, nel 1967,in occasione del congresso nazionale. Sciolsero formalmente la sezione universitaria e radiarono dal partito 18 di noi iscritti. Così il primo incontro-scontro con gli ingraiani in carne ed ossa non fu per me esaltante, mal corrispondeva alla figura di Ingrao come era venuta configurandosi nella mia testa, ancora a Catanzaro, all’inizio della mia militanza comunista. Insomma, come era giusto che fosse, un conto era Ingrao, uno altro gli ingraiani.
L’anno dopo arrivò il “68. Io mi trovavo ormai a Roma per la scuola di perfezionamento; ed in quelle prime settimane così febbricitanti ebbi modo d’incontrare degli altri ingraiani o da me sospettati d’esserlo; quelli di Roma, ovvero Rossanda, Castellina, Magri, Natoli, Parlato,Pintor e così via. Insomma, si trattava di coloro che, da lì a qualche tempo, avrebbero dato vita al gruppo del “Manifesto”. I miei compagni ed io collaborammo per qualche anno con loro all’interno di quel movimento che acquistava via via aspetti insurrezionali. Certo non può dirsi che concordassimo del tutto nelle analisi e nelle proposte; ma noi riconoscevamo in loro le qualità migliori della tradizione comunista italiana. Per noi era evidente che fosse stato Ingrao ad avere ispirato, se non promosso, l’esperienza del “Manifesto”; e ci sembrava che nella scrittura e nei discorsi di quei compagni di strada echeggiasse frequente la voce di Pietro.
Poi l’insurrezione mancata sfociò in una piccola guerra civile; noi fummo dispersi tra carcere ed esilio, io smisi di frequentare Ingrao e gli ingraiani.
Vennero le leggi speciali; le calunnie, i maltrattamenti e le torture degli arrestati; le morti da entrambe le parti; infine la sconfitta di quel movimento che il “68 aveva innescato. In quegli anni bui,non si troverà un discorso, una dichiarazione, una parola di Ingrao, divenuto nel frattempo presidente della Camera, che avvalli la liceità costituzionale delle leggi speciali. Sia pure con la prudenza che comportava il ruolo ricoperto, in più di una occasione era intervenuto per ribadire che i diritti costituzionali si applicavano anche a quelle centinaia e centinaia di giovani che,giorno dopo giorno, venivano arrestati. Qui ricorderò in particolare il duro intervento contro la procura di Roma che rifiutava di scarcerare Oreste Scalzone, divenuto,lui già magro di suo, una frazione di se stesso, per via del lungo e volontario digiuno—probabilmente quell’intervento valse a salvare una vita.
Certo,Ingrao non fu la sola personalità politica ad opporsi alle leggi speciali; Giacomo Mancini, Marco Pannella, Stefano Rodotà, per ricordarne alcuni, fecero altrettanto e forse più. Ma Pietro Ingrao fu il solo dirigente del partito comunista a sottolineare pubblicamente il suo disagio verso la deriva liberticida — si ricordi che il partito comunista aveva votato in parlamento la legislazione speciale.
Così, per chiudere senza concludere, per me, tra i dirigenti del P.C.I. ancora in vita, Pietro Ingrao è la sola personalità che non abbia tradito la sua origine, quella cattiveria sognante che lo aveva, una volta, in gioventù, portato ad avere fede nel movimento comunista. O, almeno, così ora mi sembra.

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