sabato 28 dicembre 2024

Sapere e morte: le università di tutto l’Occidente a sostegno del nuovo colonialismo e in primo luogo di Israele.

È in libreria da fine novembre il numero 13 di Lo stato delle città. Ne pubblichiamo l’editoriale di Stefano Portelli.

 

labottegadelbarbieri.org

Se fai una cosa abbastanza a lungo, il mondo l’accetterà”, ha detto l’ex direttore del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano Daniel Reisner, secondo un articolo di Ha’aretz del 2009. “Un’azione oggi vietata diventa lecita se a compierla è un numero sufficiente di paesi”, ha aggiunto. Reisner è un “esperto di diritto internazionale”, collaboratore abituale della Tel Aviv University, dove istruisce studenti e studentesse su come piegare trattati e organismi Onu al progetto sionista di pulizia etnica della Palestina.

Le università israeliane per decenni ci sono state presentate come spazi di incontro e dialogo, addirittura roccaforti del dissenso e del pacifismo. Nel libro Torri d’avorio e d’acciaio: come le università israeliane sostengono l’apartheid della popolazione palestinese (Alegre, 2024) l’antropologa Maya Wind espone invece il catalogo degli orrori, finora accessibile solo a chi leggeva l’ebraico: ogni aspetto di queste istituzioni sostiene, promuove ed estende la colonizzazione della Palestina e la disumanizzazione del suo popolo.

Non si tratta solo di dual use, cioè, per esempio, che la tecnologia di riconoscimento facciale può servire per accendere il cellulare ma anche come strumento di morte o di apartheid (i droni che riconoscono chi uccidere, i check-point chi non far passare).
Tutte le discipline, anche le meno sospette, servono la colonizzazione della Palestina e il suprematismo sionista.
L’archeologia è interamente improntata a eliminare le prove della presenza palestinese e a esagerare l’importanza degli antichi insediamenti ebraici. Le scienze giuridiche cercano di legittimare torture, stupri e sterminio come legalmente accettabili. L’orientalistica, mizrahinut in ebraico, offre basi pseudo-scientifiche ai pregiudizi contro i palestinesi, come l’idea che la cultura araba “venera la morte”.
Architettura e urbanistica plasmano i territori per rendere invisibile, o invivibile, tutto ciò che non è ebraico. Addirittura i dipartimenti di filosofia e di etica aiutano l’esercito a stabilire “quale sia il numero eticamente accettabile di civili palestinesi da poter uccidere nel tentativo di assassinare un palestinese considerato da Israele come un miliziano, al fine di salvare la vita di anche un solo cittadino israeliano”.

Prima del 2024 questo “tasso di cambio”, come lo chiama il comico palestinese Bassem Youssef, era calcolato come poco più di tre a uno, anche se ne uccidevano già moltissimi di più. L’importante era che passasse il messaggio: che questi orrori sono misurabili.
Oltre a essere luoghi di legittimazione della violenza coloniale, e di formazione dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti, le università israeliane sono anche fisicamente avamposti militari intorno a cui nascono gli insediamenti, come la Hebrew University a Gerusalemme Est; sono culle per le start up dell’industria delle armi, sperimentate quotidianamente sui civili palestinesi; e think tank delle strategie comunicative dell’estrema destra, che cercano di rendere impossibile anche solo parlare di alternative alla guerra e alla distruzione del pianeta.

 

Il libro di Maya Wind ci fa riflettere sul sistema infernale che lega indissolubilmente la produzione del sapere alla macchina di morte dell’esercito israeliano; ma dobbiamo approfittarne anche per capire le nostre implicazioni.
La matrice del permanente sostegno “scientifico” alla brutalità coloniale, naturalmente, è statunitense; il sistema accademico che Israele porta a compimento è quello statunitense. Ma le università europee non hanno alcuna difficoltà nel difendere e riprodurre questa commistione tra avorio e acciaio, tra scienza e guerra.
Le università di tutto l’Occidente, scrive Bana Abu Zuluf, dottoranda palestinese in diritto internazionale per un’università irlandese, hanno creato un “muro di ferro” intorno al colonialismo israeliano e al genocidio dei palestinesi: sono “fortezze intellettuali” che “si assicurano che le critiche al sionismo siano sterilizzate, spogliate della loro potenza, nascoste dietro eufemismi come ‘conflitto’ e ‘sicurezza’”.

L’intero sistema accademico europeo si basa su questi eufemismi e su questa sterilizzazione della critica; e non solo verso il sionismo. In tutta Europa, chi vuole fare ricerca subisce un addestramento, formale o informale, perché inquadri strettamente le sue percezioni in un ambito disciplinare, per impararne il gergo e usarlo per trasformare le sue idee in opinioni inattaccabili e referenziate.
Il gergo, i termini tecnici, la stessa divisione arbitraria tra le discipline, permettono di nascondere la disumanizzazione e il disprezzo verso i poveri e i colonizzati, ammantandoli con strati di retorica pseudoscientifica.
Si viene addestrati a trascurare la propria lingua, a scrivere solo per il colonizzatore, per le grandi compagnie editoriali che sfruttano il nostro lavoro, e a ignorare il proprio contesto e il dibattito locale. Le forme sono forse meno sfacciate che nell’accademia israeliana, ma il modello è lo stesso: rafforzare i quadri di senso su cui si basano l’esclusione sociale, l’ingiustizia sistemica e il dominio militare.

L’Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università pubblica quotidianamente notizie sulla deriva bellicista delle università italiane.
L’Università di Bologna collabora nelle esercitazioni della Marina; l’Orientale ha relazioni con la Nato; i rettori più importanti d’Italia sono nel think tank Med-Or, con cui l’impresa di armamenti Leonardo legittima la vendita di morte e il profitto sul genocidio in MedioOriente.
 

Ma anche la nostra archeologia, la nostra architettura, la nostra urbanistica, riproducono logiche coloniali; la storia e la filosofia trascurano le basi dell’umanità, riproponendo ancora la sequenza crociana e cristiana dei grandi uomini della Storia dello Spirito; le scienze ambientali ci presentano la catastrofe climatica come una questione che riguarda il nostro futuro, per impedirci di riconoscerla nel presente (lo spiega Amitav Ghosh nel suo libro del 2021, La maledizione della noce moscata); la sociologia incanala la rabbia per le morti in mare in una sotto-disciplina che studia le migrazioni, strutturalmente organizzata per non produrre nessun cambiamento.
Mentre un gruppo di accademici israeliani scrive una proposta di sostituzione etnica per Gaza, chiamandola “deradicalizzazione”, l’architetto italiano Stefano Boeri più mitemente devasta con l’urbanistica la capitale di un’ex colonia italiana, Tirana, sostituendo il tessuto tradizionale con grattacieli e boulevard colossali, denominati “distretto green”.
Intanto, il Politecnico di Milano stringe un accordo con Edison per la ricerca sull’energia nucleare, nonostante il referendum che ne proibisce l’applicazione in Italia; e la Sapienza continua a costruire avamposti per la gentrificazione di San Lorenzo, come Columbia aveva fatto con Harlem. Addirittura l’antropologia, la scienza potenzialmente più in grado di riconoscere le implicazioni coloniali, riduce costantemente ogni tentativo di discriminare e di avanzare nella conoscenza dell’umanità a un chiacchiericcio relativista sulla complessità e l’ambiguità di tutto, che termina sempre riaffermando la propria irrilevanza.

C’è qualcosa di strutturale, che connette la produzione accademica del sapere con le politiche della guerra e della colonizzazione. Siccome ci siamo immersi dentro, è difficile riconoscerlo; come i pesci non vedono l’acqua, chi è inserito in un sistema ideologico non è in grado di capirne le regole.
Siamo stati abituati a considerare più rispettabili e serie proprio le forme di sapere che rendono accettabile il classismo e la violenza sistemica, nascondendone le conseguenze e le ingiustizie. Tutte le altre forme di espressione ci sembrano naïf, semplicistiche, troppo schierate, di parte, non oggettive, parziali, “militanti”, quando non inappropriate o diretta- mente ridicole. Fortunatamente, il sistema ideologico in cui siamo immersi è sempre più inquinato, e pian piano iniziamo a intravedere l’acqua.
Cominciamo a capire quanto il colonialismo sia entrato nel nostro linguaggio, nel nostro pensiero; come diceva Eduardo Galeano: “Il colonialismo visibile ti mutila senza nasconderlo: ti proibisce di dire, ti proibisce di fare, ti proibisce di essere. Il colonialismo invisibile, invece, ti convince che la servitù è il tuo destino e l’impotenza la tua natura: ti convince che non si può dire, non si può fare, non si può essere”.

Che lavoro dobbiamo fare?
Estirpare le radici di questa impotenza; riconoscerla nelle parole che usiamo, nell’autocensura e nei vizi linguistici. Chi è dentro l’università ha continuamente davanti scelte del genere: produrre articoli che alimentano la macchina o cercare di tirar fuori il sapere, usarlo per nutrire chi la combatte?
Bisogna elaborare nuovi linguaggi, che non fingano “oggettività”, e sviluppare mezzi di comunicazione che ci permettano di usarli, di tradurli in azioni. Dobbiamo capire perché ci siamo ridotti a credere che sia più importante pubblicare che dire quello che pensiamo; perché ci siamo convinti che quello che scriviamo non ha importanza, che si scrive solo per aumentare il ranking, il curriculum o la propria visibilità mediatica.

Serve un’ingegneria inversa del pensiero: se non vogliamo fare il gioco di questo sistema, dobbiamo eliminare eufemismi, parole vuote, frasi storte e involute, articoli ripetitivi e autoreferenziali; ma anche ricostruire perché siamo stati costretti a esprimerci così, perché crediamo sempre di dover nascondere, travestire quello che vogliamo dire, per renderlo più conforme al linguaggio dominante, al gergo neutrale e inumano degli algoritmi.
ChatGPT al massimo può servire a capire come non si scrive. L’omologazione è la radice della nostra neutralizzazione. Le parole hanno un potere incredibile di trasformazione, ma devono essere quelle giuste. Se a monte ci obblighiamo a usare quelle sbagliate, anche il pensiero ne risentirà. Ogni volta che alimentiamo le false scienze, quelle che legittimano lo status quo, perdiamo un’occasione per costruire terreno fertile per il vero sapere.

 

Nessuno può sconfiggere questo orrore da solo. Bisogna unire le forze, ma non sotto le vecchie forme sclerotizzate che condividono il linguaggio autoassolutorio e identitario delle università e delle altre istituzioni coloniali.
Nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone Weil spiega che, a differenza dei partiti, le riviste garantiscono la fluidità del discorso, lasciando che tutti i collaboratori mantengano le proprie posizioni. “Quando frequentiamo amichevolmente chi dirige la rivista, o chi ci scrive, o quando ci scriviamo noi stessi, siamo in contatto con il mezzo di produzione, ma non sappiamo se ne siamo parte; perché non esiste una distinzione netta tra chi è dentro e chi è fuori. Ci sono i lettori che conoscono una o due persone che vi scrivono; i lettori assidui che vi trovano ispirazione; e i lettori occasionali. Ma a nessuno viene in mente di dire: ‘Siccome sono legato a questa rivista, allora devo pensare che…’”.
Questo è il senso de Lo stato delle città: creare uno spazio di pensiero collettivo, non identitario, che ci aiuti ad attaccare su tutti i fronti queste torri di acciaio e di avorio, a cacciarne i mercanti di morte.

Tratto da Napoli Monitor.

Nessun commento:

Posta un commento