È in libreria da fine novembre il numero 13 di Lo stato delle città. Ne pubblichiamo l’editoriale di Stefano Portelli.
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“Se fai una cosa abbastanza a lungo, il mondo l’accetterà”, ha detto l’ex direttore del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano Daniel Reisner, secondo un articolo di Ha’aretz del 2009. “Un’azione oggi vietata diventa lecita se a compierla è un numero sufficiente di paesi”, ha aggiunto. Reisner è un “esperto di diritto internazionale”, collaboratore abituale della Tel Aviv University, dove istruisce studenti e studentesse su come piegare trattati e organismi Onu al progetto sionista di pulizia etnica della Palestina.
Le università israeliane per decenni ci sono state presentate come spazi di incontro e dialogo, addirittura roccaforti del dissenso e del pacifismo. Nel libro Torri d’avorio e d’acciaio: come le università israeliane sostengono l’apartheid della popolazione palestinese (Alegre, 2024) l’antropologa Maya Wind espone invece il catalogo degli orrori, finora accessibile solo a chi leggeva l’ebraico: ogni aspetto di queste istituzioni sostiene, promuove ed estende la colonizzazione della Palestina e la disumanizzazione del suo popolo.
Non si tratta solo di dual use,
cioè, per esempio, che la tecnologia di riconoscimento facciale può
servire per accendere il cellulare ma anche come strumento di morte o di
apartheid (i droni che riconoscono chi uccidere, i check-point chi non
far passare).
Tutte le discipline, anche le meno sospette, servono la colonizzazione della Palestina e il suprematismo sionista.
L’archeologia è interamente improntata a eliminare le prove della
presenza palestinese e a esagerare l’importanza degli antichi
insediamenti ebraici. Le scienze giuridiche cercano di legittimare
torture, stupri e sterminio come legalmente accettabili.
L’orientalistica, mizrahinut in ebraico, offre basi
pseudo-scientifiche ai pregiudizi contro i palestinesi, come l’idea che
la cultura araba “venera la morte”.
Architettura e urbanistica plasmano i territori per rendere invisibile, o
invivibile, tutto ciò che non è ebraico. Addirittura i dipartimenti di
filosofia e di etica aiutano l’esercito a stabilire “quale sia il
numero eticamente accettabile di civili palestinesi da poter uccidere
nel tentativo di assassinare un palestinese considerato da Israele come
un miliziano, al fine di salvare la vita di anche un solo cittadino
israeliano”.
Prima del 2024 questo “tasso di cambio”,
come lo chiama il comico palestinese Bassem Youssef, era calcolato come
poco più di tre a uno, anche se ne uccidevano già moltissimi di più.
L’importante era che passasse il messaggio: che questi orrori sono
misurabili.
Oltre a essere luoghi di legittimazione della violenza coloniale, e di
formazione dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti, le
università israeliane sono anche fisicamente avamposti militari intorno a
cui nascono gli insediamenti, come la Hebrew University a Gerusalemme
Est; sono culle per le start up dell’industria delle armi, sperimentate
quotidianamente sui civili palestinesi; e think tank delle strategie
comunicative dell’estrema destra, che cercano di rendere impossibile
anche solo parlare di alternative alla guerra e alla distruzione del
pianeta.
Il
libro di Maya Wind ci fa riflettere sul sistema infernale che lega
indissolubilmente la produzione del sapere alla macchina di morte
dell’esercito israeliano; ma dobbiamo approfittarne anche per capire le
nostre implicazioni.
La matrice del permanente sostegno “scientifico” alla brutalità
coloniale, naturalmente, è statunitense; il sistema accademico che
Israele porta a compimento è quello statunitense. Ma le università
europee non hanno alcuna difficoltà nel difendere e riprodurre questa
commistione tra avorio e acciaio, tra scienza e guerra.
Le università di tutto l’Occidente, scrive Bana Abu Zuluf, dottoranda
palestinese in diritto internazionale per un’università irlandese, hanno
creato un “muro di ferro” intorno al colonialismo israeliano e al
genocidio dei palestinesi: sono “fortezze intellettuali” che “si
assicurano che le critiche al sionismo siano sterilizzate, spogliate
della loro potenza, nascoste dietro eufemismi come ‘conflitto’ e
‘sicurezza’”.
L’intero sistema accademico europeo si
basa su questi eufemismi e su questa sterilizzazione della critica; e
non solo verso il sionismo. In tutta Europa, chi vuole
fare ricerca subisce un addestramento, formale o informale, perché
inquadri strettamente le sue percezioni in un ambito disciplinare, per
impararne il gergo e usarlo per trasformare le sue idee in opinioni
inattaccabili e referenziate.
Il gergo, i termini tecnici, la stessa divisione arbitraria tra le
discipline, permettono di nascondere la disumanizzazione e il disprezzo
verso i poveri e i colonizzati, ammantandoli con strati di retorica
pseudoscientifica.
Si viene addestrati a trascurare la propria lingua, a scrivere solo per
il colonizzatore, per le grandi compagnie editoriali che sfruttano il
nostro lavoro, e a ignorare il proprio contesto e il dibattito locale.
Le forme sono forse meno sfacciate che nell’accademia israeliana, ma il
modello è lo stesso: rafforzare i quadri di senso su cui si basano
l’esclusione sociale, l’ingiustizia sistemica e il dominio militare.
L’Osservatorio contro la
militarizzazione della scuola e dell’università pubblica quotidianamente
notizie sulla deriva bellicista delle università italiane.
L’Università di Bologna collabora nelle esercitazioni della Marina;
l’Orientale ha relazioni con la Nato; i rettori più importanti d’Italia
sono nel think tank Med-Or, con cui l’impresa di armamenti Leonardo
legittima la vendita di morte e il profitto sul genocidio in
MedioOriente.
Ma
anche la nostra archeologia, la nostra architettura, la nostra
urbanistica, riproducono logiche coloniali; la storia e la filosofia
trascurano le basi dell’umanità, riproponendo ancora la sequenza
crociana e cristiana dei grandi uomini della Storia dello Spirito; le
scienze ambientali ci presentano la catastrofe climatica come una
questione che riguarda il nostro futuro, per impedirci di riconoscerla
nel presente (lo spiega Amitav Ghosh nel suo libro del 2021, La maledizione della noce moscata);
la sociologia incanala la rabbia per le morti in mare in una
sotto-disciplina che studia le migrazioni, strutturalmente organizzata
per non produrre nessun cambiamento.
Mentre un gruppo di accademici israeliani scrive una proposta di
sostituzione etnica per Gaza, chiamandola
“deradicalizzazione”, l’architetto italiano Stefano Boeri più
mitemente devasta con l’urbanistica la capitale di un’ex colonia
italiana, Tirana, sostituendo il tessuto tradizionale con grattacieli e
boulevard colossali, denominati “distretto green”.
Intanto, il Politecnico di Milano stringe un accordo con Edison per la
ricerca sull’energia nucleare, nonostante il referendum che ne
proibisce l’applicazione in Italia; e la Sapienza continua a costruire
avamposti per la gentrificazione di San Lorenzo, come Columbia aveva
fatto con Harlem. Addirittura l’antropologia, la scienza potenzialmente
più in grado di riconoscere le implicazioni coloniali, riduce
costantemente ogni tentativo di discriminare e di avanzare nella
conoscenza dell’umanità a un chiacchiericcio relativista sulla
complessità e l’ambiguità di tutto, che termina sempre riaffermando la
propria irrilevanza.
C’è qualcosa di strutturale, che
connette la produzione accademica del sapere con le politiche della
guerra e della colonizzazione. Siccome ci siamo immersi dentro, è
difficile riconoscerlo; come i pesci non vedono l’acqua, chi è inserito
in un sistema ideologico non è in grado di capirne le regole.
Siamo stati abituati a considerare più rispettabili e serie proprio le
forme di sapere che rendono accettabile il classismo e la violenza
sistemica, nascondendone le conseguenze e le ingiustizie. Tutte le altre
forme di espressione ci sembrano naïf, semplicistiche, troppo
schierate, di parte, non oggettive, parziali, “militanti”, quando non
inappropriate o diretta- mente ridicole. Fortunatamente, il sistema
ideologico in cui siamo immersi è sempre più inquinato, e pian piano
iniziamo a intravedere l’acqua.
Cominciamo a capire quanto il colonialismo sia entrato nel nostro
linguaggio, nel nostro pensiero; come diceva Eduardo Galeano: “Il
colonialismo visibile ti mutila senza nasconderlo: ti proibisce di dire,
ti proibisce di fare, ti proibisce di essere. Il colonialismo
invisibile, invece, ti convince che la servitù è il tuo destino e
l’impotenza la tua natura: ti convince che non si può dire, non si può
fare, non si può essere”.
Che lavoro dobbiamo fare?
Estirpare le radici di questa impotenza; riconoscerla nelle parole che
usiamo, nell’autocensura e nei vizi linguistici. Chi è dentro
l’università ha continuamente davanti scelte del genere: produrre
articoli che alimentano la macchina o cercare di tirar fuori il sapere,
usarlo per nutrire chi la combatte?
Bisogna elaborare nuovi linguaggi, che non fingano “oggettività”, e
sviluppare mezzi di comunicazione che ci permettano di usarli, di
tradurli in azioni. Dobbiamo capire perché ci siamo ridotti a credere
che sia più importante pubblicare che dire quello che pensiamo; perché
ci siamo convinti che quello che scriviamo non ha importanza, che si
scrive solo per aumentare il ranking, il curriculum o la propria
visibilità mediatica.
Serve un’ingegneria inversa del
pensiero: se non vogliamo fare il gioco di questo sistema, dobbiamo
eliminare eufemismi, parole vuote, frasi storte e involute, articoli
ripetitivi e autoreferenziali; ma anche ricostruire perché siamo stati
costretti a esprimerci così, perché crediamo sempre di dover
nascondere, travestire quello che vogliamo dire, per renderlo più
conforme al linguaggio dominante, al gergo neutrale e inumano degli
algoritmi.
ChatGPT al massimo può servire a capire come non si scrive.
L’omologazione è la radice della nostra neutralizzazione. Le parole
hanno un potere incredibile di trasformazione, ma devono essere quelle
giuste. Se a monte ci obblighiamo a usare quelle sbagliate, anche il
pensiero ne risentirà. Ogni volta che alimentiamo le false scienze,
quelle che legittimano lo status quo, perdiamo un’occasione per
costruire terreno fertile per il vero sapere.
Nessuno
può sconfiggere questo orrore da solo. Bisogna unire le forze, ma non
sotto le vecchie forme sclerotizzate che condividono il linguaggio
autoassolutorio e identitario delle università e delle altre
istituzioni coloniali.
Nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone
Weil spiega che, a differenza dei partiti, le riviste garantiscono la
fluidità del discorso, lasciando che tutti i collaboratori mantengano
le proprie posizioni. “Quando frequentiamo amichevolmente chi dirige
la rivista, o chi ci scrive, o quando ci scriviamo noi stessi, siamo in
contatto con il mezzo di produzione, ma non sappiamo se ne siamo parte;
perché non esiste una distinzione netta tra chi è dentro e chi è
fuori. Ci sono i lettori che conoscono una o due persone che vi
scrivono; i lettori assidui che vi trovano ispirazione; e i lettori
occasionali. Ma a nessuno viene in mente di dire: ‘Siccome sono legato a
questa rivista, allora devo pensare che…’”.
Questo è il senso de Lo stato delle città:
creare uno spazio di pensiero collettivo, non identitario, che ci aiuti
ad attaccare su tutti i fronti queste torri di acciaio e di avorio, a
cacciarne i mercanti di morte.
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