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Più di 444 giorni di vita sospesa a Gaza. Qui, il tempo ha smesso di scorrere. Niente scuole, niente lavoro, niente speranza. Solo giorni che nel loro dolore si rispecchiano l’uno nell’altro, come infinite repliche della stessa catastrofe. Giorni sospesi nel vuoto, appesantiti dall’eco delle esplosioni e dal suono incessante dei proiettili, costante promemoria che la vita qui è diversa da qualsiasi altra vita, in qualsiasi altro luogo. A migliaia di chilometri di distanza dai mercati affollati, adornati di luci scintillanti e dal suono delle campane natalizie, esiste un altro mondo – un mondo che non conosce né il calore delle feste, né la benedizione della pace. Qui a Gaza, dove il rombo degli aerei e delle esplosioni non cessa mai, la gioia del Natale è assente, sostituita da una realtà cupa che sfugge a ogni umana descrizione.
In questi giorni, mentre il mondo accende alberi di Natale e innalza preghiere per la pace, noi alziamo le mani, non in segno di festa, ma in un disperato tentativo di proteggere i nostri figli dal terrore dei missili. Nelle strade della mia città, non ci sono decorazioni, né risate – solo resti di case distrutte e sogni infranti. In mezzo a questo inferno, l’inverno arriva come un ospite indesiderato, portando solo altra sofferenza. Gaza non è estranea al dolore, ma a dicembre diventa ancora più insopportabile. Qui, i regali non si scambiano sotto gli alberi; invece, si distribuiscono razioni di cibo scarse in lunghe file, accompagnate dalla paura che le scorte finiscano prima di arrivare a tutti. Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra perso nelle sue celebrazioni, sommerso dal bagliore delle sue festività.
In inverno la sofferenza del popolo di Gaza si raddoppia. Le famiglie si ritrovano intrappolate tra il freddo pungente dell’inverno e muri fatiscenti che non offrono protezione. I bambini dormono sul terreno ghiacciato, i loro volti pallidi raccontano storie di fame e freddo. L’inverno qui non è solo un’altra stagione; è un’ulteriore prova di resistenza contro l’insopportabile. I vicoli stretti, ora inondati di fango dopo le piogge, costringono i bambini scalzi a percorrere sentieri mentre i loro piccoli corpi tremano. Le famiglie vivono in tende strappate circondate da pozze d’acqua dopo le tempeste, mentre i bambini cercano di accendere fuochi usando spazzatura solo per scaldarsi le mani.
Ieri sera, mentre camminavo tra i vicoli del quartiere, cercando di comprare del cibo dal costo esorbitante e scarso fino alla disperazione, ho chiesto ai bambini che ho incontrato: “Cosa desiderate?” I loro volti erano stanchi, le loro espressioni raccontavano storie di esaurimento che non dovrebbero appartenere all’infanzia. Le loro risposte andavano dal desiderio di calore, al voler morire, al desiderare la fine di questo genocidio che soffoca Gaza.
Ma c’è stata una bambina, non più grande di cinque anni, che mi ha colpito più di ogni altra cosa. Portava sulla spalla una scatola di cartone in cui raccoglieva avanzi di cibo marcio che aveva recuperato da cumuli di immondizia. La sua immagine da sola sarebbe bastata a spezzare qualsiasi cuore. Le ho chiesto: “Cosa desideri?” Si è fermata per un momento, poi ha risposto con una voce dolce che portava il peso del mondo: “Vorrei trovare cibo per nutrire i miei fratellini. Mio padre ha perso gli arti, e mia madre è stata martirizzata. Sono io la responsabile di loro”. Non ho potuto rispondere. Le parole mi sono mancate mentre la guardavo. In quel momento, la mia ricerca di cibo non aveva più importanza. Tutto sembrava insignificante rispetto al dolore in quegli occhi piccoli.
In tutto il mondo, i bambini scrivono lettere a Babbo Natale, chiedendo giocattoli e regali. Decorano alberi di Natale e riempiono le loro case di risate e gioia. Ma a Gaza, non ci sono lettere e non ci sono feste. Qui, se i bambini scrivessero qualcosa, non sarebbe per chiedere giocattoli o regali. Chiederebbero solo una cosa: la morte, come fuga da una vita che ha rubato loro l’infanzia e distrutto i loro sogni.
A Gaza, la vita non è vita. È una serie infinita di crisi che iniziano e non finiscono mai, mettendo alla prova anche i bambini più piccoli prima che possano capire il significato dell’innocenza. Sperano che oggi sia l’ultimo giorno, perché i giorni futuri non portano altro che più fame, paura e silenzio assordante. Migliaia di chilometri lontano, i bambini accendono candele e si riuniscono intorno a tavole piene di amore e cibo. Ma qui, le candele si accendono solo per vedere cosa rimane delle nostre case, e la tavola è vuota tranne che per un’attesa dolorosa.
Ogni volta che sento parlare delle lettere che i bambini inviano a Babbo Natale, mi chiedo: e se i bambini di Gaza scrivessero lettere? Chiederebbero qualcosa di diverso dalla morte? Chiederebbero un giocattolo per riportare una gioia che non hanno mai conosciuto? Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra averla completamente dimenticata, sommerso nel bagliore delle sue festività.
A Gaza, tutto è fermo: niente elettricità, niente acqua potabile, nessuna parvenza di vita normale. Persino sognare, un tempo un rifugio semplice, è diventato un lusso che nessuno osa concedersi. Ma lontano da questo angolo di mondo, la vita va avanti. Le città si illuminano con i colori del Natale, i mercati sono affollati e le persone si scambiano regali. Altrove, il tempo vola, e il mondo si occupa delle sue routine quotidiane, mentre qui a Gaza, ogni minuto porta un peso insopportabile.
Più di 444 giorni, e il mondo non si è fermato nemmeno per un momento a chiedersi: come sopravvivono due milioni di persone senza alcun orizzonte? Come continuano a vivere in mezzo alla completa assenza di tutto? Più di 444 giorni, senza risposte.
L’articolo è tratto da la Repubblica del 24 dicembre
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