sabato 21 dicembre 2024

La rivoluzione del quotidiano e l’autogestione.

Nel film I giorni contanti (1962) del celebre regista Elio Petri, il protagonista Cesare, un uomo di 53 anni rimasto vedovo e di professione idraulico, dopo aver assistito su un tram alla morte di un uomo, prende una decisione drastica per la sua vita: smettere di lavorare. 

I GIORNI CONTATI di ELIO PETRI - Cinema e Psicologia

In un giorno ordinario apparentemente simile a tutti gli altri, l’esperienza ravvicinata con la morte costringe l’uomo a interrogarsi sul senso della propria vita avvenire, fino al punto di convincersi a non voler vivere gli ultimi anni della propria esistenza dedicandosi unicamente al lavoro. Da quel momento, Cesare trascorre le sue giornate all’insegna della scoperta, intrattenendosi tra un passatempo e l’altro: visita una mostra d’arte pittorica, organizza una gita al mare con gli amici, frequenta le zone periferiche della città toccando con mano i problemi di chi è costretto a vivere in case di fortuna. L’uomo libero dal lavoro scopre soprattutto una nuova socialità, fatta di incontri frugali con persone sconosciute a cui sottopone domande di ogni tipo sulla realtà sconosciuta che lo circonda. 
Di fronte a una quotidianità alienante, la scelta di lasciare il lavoro assume il carattere di un mutamento radicale nella scansione del tempo, di una rottura definitiva con la routine statica, monotona e asfissiante vissuta dal protagonista. In questo frammento temporale avviene la vera frattura con il passato: certo, la sostenibilità futura rimane problematica specie dal punto di vista economico, ma è nel presente e in particolare del vivere quotidiano che si compie la rivoluzione umana.

Lungo il corso degli anni Sessanta, il tema della quotidianità fu al centro della riflessione del filosofo ceco Karel Kosik (1926-2003). Ricordato soprattutto per gli scritti inerenti ai fatti della Primavera di Praga, Kosik pubblicò nel 1963 quella che diventerà negli anni la sua opera più conosciuta, intitolata Dialettica del concreto. Nel tentativo di coniugare il pensiero marxista con la tradizione fenomenologica, egli contribuisce alla riflessione sull’analisi della realtà capitalista. Secondo Kosik, nel continuo processo di comprensione della realtà, gli esseri umani costruiscono delle rappresentazioni di tutto ciò che li circonda, senza interrogarsi continuamente sulla natura e il fondamento di tali costrutti artificiali. Se da un lato «la prassi utilitaria immediata e il senso comune ad essa corrispondente mettono gli uomini in condizione di orientarsi nel mondo, di familiarizzarsi con le cose e di maneggiarle», dall’altro lato, essi smettono di considerarsi i soggetti artefici del divenire storico (K. Kosik, Dialttica del concreto, Milano, Bompiani, 1965, p. 10). Kosik utilizza il termine “pseudoconcretezza” per indicare «l’esistenza autonoma dei prodotti dell’uomo e la riduzione dell’uomo al livello della prassi utilitaria», facendo propri i concetti marxiani di alienazione, feticismo e reificazione (ivi, p. 21).

In questa analisi della realtà capitalista acquisisce senso e importanza il tempo della quotidianità. Essa non è la vita privata contrapposta a quella pubblica, così come non può essere semplicemente inquadrata come pura e semplice ripetizione di azioni ed eventi. La quotidianità, che caratterizza «ogni modo di esistenza umana o di esistere al mondo», è in primo luogo «organizzazione giorno per giorno della vita individuale degli uomini», dei loro ritmi e del tempo a disposizione (ivi, p. 81). Nella società di tipo capitalista, secondo Kosik, gli individui vivono una quotidianità alienata, in cui scompare l’immagine del soggetto come il vero motore della storia. L’unico modo per uscire da questa condizione consiste in un’operazione di violenza da esercitare sul quotidiano. Una forma di violenza che significa per l’essere umano tentare di riappropriarsi del proprio agire giorno per giorno, fatto di «eccezionalità» e di «ripetizione», rinnegando una filosofia della storia guidata da una qualche idea di provvidenza (sia essa di tipo religioso, razionale o naturale). Riflettere sulla dimensione quotidiana significa allora rivendicare una concezione della storia come il frutto dell’azione umana, laddove l’essere umano non può venir inteso come mero «esecutore», ma come soggetto in grado di determinare, influenzare o condizionare il proprio presente e futuro (ivi, p. 252 e ss). Tradotto in termini marxiani, significa svelare il carattere umano celato dietro il processo di feticizzazione dei prodotti, riconoscendo che la realtà, il divenire storico è in primo luogo frutto dell’azione concreta di individui che agiscono all’interno di un sistema storicamente determinato.

La lunga riflessione sul senso e il significato da attribuire alla dimensione dell’agire quotidiano (qui solamente accennato) si intreccia alla fine degli anni Sessanta con la critica sostanziale mossa al concetto di autorità e ai meccanismi di potere discendenti. Sulla scia degli eventi del maggio 1968, cresce tra le fila del marxismo francese un’intensa discussione intorno all’idea di autogestione, intesa come teoria politica e sociale volta a mettere radicalmente in discussione il modello di organizzazione economica capitalista.

Proponendo un ritorno ai testi di Marx e avanzando una dura critica al Lenin del Che fare, il sociologo francese Yvon Bourdet fondò la propria idea di autogestione sul principio della spontaneità, intesa come la condizione di un individuo di potersi determinare «liberamente secondo le proprie norme, senza subire nessun condizionamento estraneo» (Y. Bourdet, Teoria politica dell’autogestione, Roma, Nuove Edizioni Operaie, 1977, p. 74). Se la logica leninista aveva attribuito a una classe di rivoluzionari di professione il compito di liberare gli uomini dal giogo capitalista, insistere sul concetto di autogestione significa, al contrario e in continuità con Marx, riconoscere il carattere autonomo e spontaneo della classe operaia. Per questo motivo, il presupposto teorico dell’autogestione come proposta politica concreta risiede anzitutto in una specifica concezione del soggetto individuale, a cui è riconosciuta una «spontaneità razionale» incline al riconoscimento della libertà come autodeterminazione, della cooperazione e del mutuo aiuto. Sono gli uomini, che vivono tra loro una relazione di interdipendenza, a contribuire con il loro agire quotidiano al farsi della storia, tale per cui ogni tentativo di emancipazione e di rottura con l’esistente non può che essere concepito a partire dal basso.

Il dibattito sull’autogestione sviluppato in Francia dalla metà degli anni Sessanta si diffonde anche in Italia a partire dall’inizio del decennio successivo. La riflessione del sociologo Michele La Rosa tenta di coniugare gli elementi fin qui delineati, proponendo un’immagine dell’autogestione non come modello teorico preconfezionato «che finisce per risultare funzionale alle nuove esigenze di riassorbimento dei conflitti delle società a capitalismo maturo», bensì come «una forma nuova di gestione diretta ed autonoma della società nel suo insieme e nelle sue singole parti ad opera di tutti i soggetti ad essa partecipanti ed a tutti i livelli di articolazione della medesima» (M. La Rosa, M. Gori (a cura di), L’autogestione. Democrazia politica e democrazia industriale, Roma, Città Nuova, 1978, pp. 24-25). Con il termine “autogestione” deve dunque intendersi prima di tutto una «modalità di vita sociale che definendo le finalità, gli obiettivi lascia la scelta dei mezzi agli individui e alla situazione storica concreta in cui si opera» (ivi, p. 25). La «spontaneità razionale» di Bourdet viene letta da La Rosa come creatività, come capacità intrinseca a ciascun soggetto che si manifesta a pieno titolo proprio nella quotidianità. Il vero carattere rivoluzionario, di mutamento radicale e costante dell’idea di autogestione risiede all’interno dellimportanza attribuita alla quotidianità come momento altalenante tra uno status di «ripetitività» e una condizione umana di «potenzialità creativa» (ivi, p. 30).

In conclusione, La Rosa ipotizza un’idea di autogestione che non si arresta ai confini della fabbrica, ma assume la forma di una teoria politica estendibile all’intera organizzazione della vita in società. Per il suo carattere anticapitalistico, l’autogestione non può inoltre essere confusa con l’idea della partecipazione operaia o con i tentativi avviati in alcuni contesti specifici di cogestione; essa mira, anzitutto, a costruire una socialità differente, promuovendo la reale eguaglianza tra governanti e governati. In altre parole, con autogestione si intende un mutamento «permanente» e rivoluzionario, che si propone di «trasformare profondamente la natura dei rapporti fra gli individui», resi conflittuali dal funzionamento e dalla natura del capitalismo stesso (ivi, p. 26).

Nessun commento:

Posta un commento