venerdì 27 dicembre 2024

L’apocalisse economica dell’Europa è ora

Il 2025 non sarà un buon anno. I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.


Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.

Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee.

Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.

Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.

 

I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali ad esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).

Il tutto è riassumibile nell’assenza totale di qualsiasi orientamento pubblico (statale o comunitario) che andasse al di là dell’occhiuta sorveglianza di “regole di bilancio” così perfette – sulla carta – da esser sempre state violate da quasi tutti i paesi membri. Ora che tocca anche alla Germania, come si dice, il re è nudo.

Come sintetizza Karnitschnig, tutto questo “ha funzionato… finché non ha funzionato più”. “Il pilota automatico”. alla fine, ci ha portato contro gli scogli…

Molto interessante, ancorché detta di sfuggita, la valutazione di quanto questo modello economico, nel riuscito tentativo di prolungare la propria esistenza senza grandi cambiamenti, abbia contribuito a conquistare l’Est europeo veicolando anche l’allargamento della Nato. Fino ad incontrare la barriera russa…

Nelle analisi sull’espansione della Nato, fatte a sinistra, ci si concentra in effetti fin troppo spesso sul bisogno degli Stati Uniti di rafforzare la propria egemonia portando sempre più ad est le proprie basi militari. Karnitschnig – certo involontariamente – rimette invece al centro quelle ragioni “strutturali” che ogni allievo di Marx dovrebbe ricordare a memoria.

 

La “conquista dell’Est” è avvenuta secondo il format messo a punto nella riunificazione tedesca (l’Anschluss, secondo la brillante definizione di Vladimiro Giacché), e il suo successo era fondato su pochi ma decisivi pilastri: basso costo dell’energia grazie al gas russo, bassi salari per popolazioni di lavoratori comunque istruite e immediatamente inseribili nel ciclo produttivo, immagine vincente dell’Occidente sul resto del mondo (rafforzato da guerre asimmetriche contro avversari troppo più deboli), superiorità tecnologica (ma solo nei settori maturi, come l’automotive).

Il legame tra successo ed espansione è quindi solare: solo allargando ulteriormente lo spazio da annettere all’Europa capitalistica (e dunque anche alla Nato) quel modello poteva prolungare la propria vita senza troppi scossoni.

Si comprende meglio, a questo punto, cosa volesse dire Mario Draghi a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, quando affermava quasi ogni giorno “La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile, ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica, ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”.

Sfrondata dalla retorica sui presunti “valori” (si è visto quanto fossero concreti quando Israele, con il supporto di tutto l’Occidente, ha cominciato la sua opera di genocidio in Palestina e di aggressione a tutto il Medio Oriente), Draghi faceva coincidere il successo della UE con la possibilità di proseguire l’espansione ad Est, annettendo anche l’Ucraina… e poi si sarebbe visto.

Si comprende dunque meglio, anche, la “strana” condiscendenza europea verso l’aggressività statunitense persino quando questa demoliva asset e relazioni fondamentali per quel “modello europeo” (ad esempio il silenzio e il depistaggio di fronte alla distruzione del gasdotto North Stream, i cui autori sono stati individuati dalla magistratura tedesca nei servizi segreti ucraini, supportati da Usa, Norvegia e Gran Bretagna).

In altri termini la competizione latente tra Usa ed “Europa” poteva svilupparsi solo se la seconda poteva continuare a crescere… ma sempre sotto l’ombrello militare statunitense. Fermata l’espansione, finita anche la competizione, resta solo la subordinazione.

Ciò contribuisce in parte anche a spiegare perché, all’interno dell’Unione Europea, la sofferenza popolare venga capitalizzata per ora soprattutto dall’estrema destra sotto gli slogan di un nazionalismo d’altri tempi e perché questa crescita venga catalogata come “filo-putiniana” anche quando si divide in modo decisamente netto tra “atlantisti-europeisti” (Meloni, l’olandese Wilders, i polacchi di quasi tutti i partiti, ecc) e ben poco attendibili”pacifisti” (Orbàn, Afd tedesca, il rumeno Georgescu, ecc).

Orbàn, da questa angolazione, ha fatto davvero scuola mentre i “democratici” guerrafondai lo criticavano soltanto per il controllo sulla magistratura o le idiozie contro la “cultura gender”.

Se il sedicente “progressismo liberale” ha condotto sull’orlo del baratro e della guerra, e continua a spingere sul trinomio “austerità, guerra e svuotamento della democrazia”, non c’è da troppo da stupirsi che gli ultradestri peggiori conquistino un ruolo importante.

Anche perché i difetti strutturali del modello export oriented sono usciti alla luce del sole: fine della superiorità tecnologica nel principale dei settori maturi (l’automotive cinese è di anni più avanti, ormai), crescita esponenziale del costo dell’energia, restrizione fatale del mercato interno (i bassi salari vanno bene per esportare, ma quando l’export si ferma nessuno lo può sostituire), inesistenza nei settori-guida del presente e del futuro (informatica, piattaforme, intelligenza artificiale, ecc).

Il tutto sotto la spada di Damocle di una popolazione che invecchia, una conclamata crisi demografica (in Italia nascevano oltre un milione di neonati nel 1964, solo 380mila nel 2023), del declino cognitivo di gran parte della popolazione (il 33% non comprende quello che legge), della “fuga dei cervelli”…

Nonché dell’impossibilità di compensare con un’immigrazione che non mette a disposizione competenze già formate altrove (com’era avvenuto con l’Est post-sovietico), non viene accolta con politiche di formazione-integrazione e dunque si trasforma in un ulteriore “problema di ordine pubblico” che ha favorito il risorse del razzismo fascista (specializzato nel risolvere a chiacchiere i “problemi di cronaca”, ma senza soluzioni per quelli “di sistema”).

Su questo continente alle corde si abbatterà ora anche il “ciclone Trump”, ovvero il bisogno degli Stati Uniti di “confermare il proprio standard di vita” sottraendo risorse ad altri. Lo stop nell’espansione ad Est vale però anche per Washington, che reagisce imponendo dazi o minacciandone di nuovi, pretende un aumento delle spese militari (a tutto vantaggio delle proprie industrie) e acquisti più massicci di petrolio e gas (a prezzi quadrupli rispetto a quelli russi). Insomma, declassando l’Europa da predatore secondario a preda.

Non stupisce perciò l’altra sintesi proposta da Karnitschnig: “bloccati nel XIX secolo”, quindi destinati a soccombere.

Sappiamo bene come l’establishment europeo presuma di uscire da questa tenaglia: trasformando ogni cittadino del continente in un “soldato” della produzione e/o dell’esercito (con parecchi problemi derivanti proprio dalla crisi demografica, che non mette a disposizione “forze fresche” da gettare nelle trincee né nelle fabbriche che chiudono), salutando definitivamente ogni pretesa di “democrazia” e concentrando tutti i poteri verso l’esecutivo.

Che però a livello europeo non c’è, visto che la “Commissione von der Leyen” non può essere considerata tale neanche con uno sforzo di fantasia hollywoodiana…

Crisi nera, dunque. Ma è nell’esplodere delle crisi, nei “collassi di sistema”, che si crea lo spazio sociale e politico per rovesciare i rapporti di forza tra le classi e iniziare perciò a cambiare davvero il mondo.

Buona lettura (e buona lotta!).

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L’apocalisse economica dell’Europa è ora

Matthew Karnitschnig – Politico

L’Europa sta finendo il tempo.

 

Con Donald Trump pronto a tornare alla Casa Bianca tra poche settimane e l’economia del continente in una crisi sempre più profonda, le fondamenta su cui si basa la prosperità della regione non stanno solo mostrando crepe: rischiano di crollare.

L’economia europea ha dimostrato una notevole resilienza negli ultimi decenni grazie all’espansione verso est del blocco e alla forte domanda dei suoi prodotti da parte di Asia e Stati Uniti. Ma con il rallentamento del boom economico cinese e le tensioni commerciali con Washington che offuscano il quadro dei rapporti transatlantici, i tempi d’oro sono chiaramente finiti.

I venti contrari economici che soffiano sul continente rischiano di trasformarsi in una tempesta perfetta nel prossimo anno, mentre un Trump senza freni punta l’Europa. Oltre a imporre nuovi dazi su tutto, dal Bordeaux ai Brioni (i suoi completi italiani preferiti), il nuovo leader del mondo libero è certo di rafforzare la sua richiesta che i paesi della NATO contribuiscano di più alla loro difesa o perdano la protezione americana.

Ciò significa che le capitali europee, già impegnate a contenere deficit in crescita in mezzo a un calo delle entrate fiscali, dovranno affrontare ulteriori pressioni finanziarie, che potrebbero innescare nuove turbolenze politiche e sociali.

Le recessioni e le guerre commerciali possono andare e venire, ma ciò che rende questo momento così pericoloso per la prosperità del continente riguarda la più grande verità scomoda: l’UE è diventata un deserto dell’innovazione.

Sebbene l’Europa abbia una ricca storia di invenzioni straordinarie, comprese scoperte scientifiche che hanno dato al mondo tutto, dall’automobile al telefono, dalla radio alla televisione e ai prodotti farmaceutici, si è ridotta a un ruolo di comprimaria.

Un tempo sinonimo di tecnologia automobilistica all’avanguardia, oggi l’Europa non ha nemmeno un modello tra le 15 auto elettriche più vendute. Come ha sottolineato l’ex primo ministro e banchiere centrale italiano Mario Draghi nel suo rapporto recente sulla perdita di competitività dell’Europa, solo quattro delle 50 principali aziende tecnologiche mondiali sono europee.

Se l’Europa continuerà sulla traiettoria attuale, il suo futuro sarà anche quello dell’Italia: quello di un museo a cielo aperto, decadente, per quanto bello, pieno di debiti, destinato ai turisti americani e cinesi.

Stiamo vivendo un periodo di rapido cambiamento tecnologico, guidato in particolare dai progressi nell’innovazione digitale, e, a differenza del passato, l’Europa non è più all’avanguardia,” ha detto a novembre la presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde.

Parlando presso il medievale Collège des Bernardins a Parigi, Lagarde ha avvertito che il modello sociale europeo, tanto celebrato, sarà a rischio se non si cambia rapidamente rotta.

«Altrimenti, non saremo in grado di generare la ricchezza necessaria per affrontare l’aumento delle spese indispensabili per garantire la nostra sicurezza, combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente», ha detto.
Draghi, che ha presentato il suo rapporto alla Commissione Europea a settembre, è stato più diretto: «Questa è una sfida esistenziale

Infrastrutture inadeguate

 

Sfortunatamente, riparare l’infrastruttura economica dell’Europa è più facile a dirsi che a farsi.

Con Donald Trump alla Casa Bianca e i Repubblicani al controllo di entrambe le camere del Congresso, l’Europa non è mai stata così esposta ai capricci della politica commerciale americana.

Se Trump darà seguito alla sua minaccia di imporre dazi fino al 20% sulle importazioni dal continente, l’industria europea subirebbe un colpo devastante. Con oltre 500 miliardi di euro di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti dall’UE, l’America è di gran lunga la destinazione più importante per i beni europei.

Per qualche motivo, l’Europa sembra aver fatto poco per prepararsi al ritorno di Trump. La prima risposta della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen alla sua rielezione è stata quella di suggerire che l’Europa acquisti più gas naturale liquefatto (LNG) dagli Stati Uniti. Questo potrebbe compiacere Trump per un po’, ma non rappresenta certo una strategia.

«Il fallimento dei leader europei nell’imparare le lezioni dalla prima presidenza Trump ora ci sta perseguitando», dice Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo con sede a Monaco, un importante think tank economico.

Fuest avverte che Trump potrebbe non essere una cattiva notizia su tutta la linea per l’UE. Se, ad esempio, darà seguito ai suoi piani per rinnovare massicci tagli fiscali per i ricchi e imporre nuovi dazi, l’inflazione negli Stati Uniti potrebbe aumentare, costringendo a un rialzo dei tassi di interesse. Questo rafforzerebbe il dollaro, favorendo gli esportatori europei quando convertono i loro ricavi americani in euro.

Trump potrebbe anche essere aperto a una più ampia negoziazione commerciale con l’Europa per evitare del tutto un nuovo giro di dazi.

Tuttavia, il sentimento generale dell’industria europea nei confronti del nuovo presidente è di apprensione, in gran parte perché i dirigenti ricordano bene il passato.

Nel 2018, Trump ha imposto dazi su acciaio e alluminio europei che sono ancora in vigore. L’attuale presidente americano Joe Biden ha concordato di sospendere tali dazi fino a marzo 2025, preparando il terreno per un nuovo scontro con Trump nelle prime settimane della sua nuova amministrazione. I banchieri centrali europei stanno già avvertendo che un nuovo ciclo di dazi potrebbe riaccendere l’inflazione e minare in modo fondamentale il commercio globale.

«Se il governo degli Stati Uniti darà seguito a questa promessa, potremmo assistere a un punto di svolta significativo nel modo in cui viene condotto il commercio internazionale», ha detto recentemente Joachim Nagel, presidente della Bundesbank tedesca.

Problemi di fondo

 

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi.

Anche se l’UE è concentrata su Trump e su cosa potrebbe fare in futuro, per quanto riguarda l’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, con le sue continue minacce di dazi e il suo stile ‘bombastico’, non fa altro che sollevare il velo sul fragile modello economico dell’Europa.

Se l’Europa avesse basi economiche più solide e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poco margine di manovra sul continente.

Il divario tra Europa e Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è impressionante. Il gap del PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato, secondo alcune metriche, arrivando al 30%, principalmente a causa della più bassa crescita della produttività nell’UE.

In parole semplici, gli europei lavorano troppo poco. Un lavoratore tedesco medio, ad esempio, lavora oltre il 20% di ore in meno rispetto ai suoi omologhi americani.

Un’altra causa della scarsa produttività europea è il fallimento del settore aziendale nell’innovare.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi investono in ricerca e sviluppo più del doppio rispetto alle loro controparti europee. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività nel settore tecnologico europeo è rimasta stagnante.

Questo divario si riflette anche nel mercato azionario: mentre le valutazioni di mercato statunitensi sono più che triplicate dal 2005, quelle europee sono aumentate solo del 60%.

«L’Europa sta perdendo terreno nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura», ha detto Lagarde nel suo discorso a Parigi.

È un eufemismo. L’Europa non sta solo perdendo terreno, non è nemmeno davvero in gara.

Al vertice UE di Lisbona nel 2000, i leader si impegnarono a rendere «l’economia europea la più competitiva al mondo». Un pilastro chiave della cosiddetta Strategia di Lisbona era «un salto decisivo negli investimenti per l’istruzione superiore, la ricerca e l’innovazione».

Un quarto di secolo dopo, l’Europa non solo non ha raggiunto il suo obiettivo, ma è rimasta ben indietro rispetto a Stati Uniti e Cina.

L’Europa non è mai riuscita nemmeno a raggiungere il suo scopo di spendere il 3% del PIL del blocco in ricerca e sviluppo (R&D), il principale motore dell’innovazione economica. Di fatto, la spesa per la ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ferma al 2% circa, lo stesso livello del 2000.

Le università europee sarebbero un luogo naturale per dare slancio a innovazione e ricerca, ma anche qui il continente è in ritardo.

Tra le migliori università globali valutate da Times Higher Education, solo un’istituzione dell’UE è entrata nella top 30: la Technical University di Monaco, che si è classificata al 30° posto.

L’investimento europeo in R&D «non è solo troppo basso, ma una parte sostanziale fluisce nelle aree sbagliate», ha detto Clemens Fuest dell’Ifo.

Il segreto nascosto

 

È qui che entra in gioco la Germania. Il segreto poco noto della spesa europea per l’R&D è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti si concentra in un solo settore: l’automotive.

Sebbene ciò possa sembrare ovvio dato il peso del settore (il fatturato annuale dell’industria automobilistica tedesca sfiora i 500 miliardi di euro), non è lì che si ottengono i maggiori ritorni sugli investimenti. Questo perché le innovazioni nel settore automobilistico, come il miglioramento dell’efficienza del motore, sono incrementali.

In altre parole, le aziende stanno letteralmente reinventando la ruota, invece di creare nuovi prodotti, come un iPhone o Instagram, che aprirebbero nuovi mercati.

Se non altro, l’Europa è stata coerente. Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in R&D nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens. Nel 2022, erano Mercedes, VW e Bosch.

Nel complesso, puntare tutto su un unico settore ha funzionato… finché non ha funzionato più. Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in R&D nel settore automobilistico, i rinomati produttori tedeschi hanno comunque perso il treno delle auto elettriche.

Questo fallimento è al centro della crisi economica tedesca, come dimostra il recente annuncio di VW di chiudere alcuni impianti tedeschi per la prima volta nella sua storia.

Il dominio del settore automobilistico tedesco è a rischio poiché la riluttanza a investire nei veicoli elettrici ha spinto altri — in particolare Tesla e numerosi produttori cinesi — a colmare il vuoto. Mentre queste aziende hanno investito pesantemente nella tecnologia delle batterie e acquisito preziosi brevetti, i tedeschi hanno lavorato per perfezionare il motore diesel. Non è andata bene.

La crisi nell’industria automobilistica tedesca è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per affrontare altre sfide complesse che stanno prosciugando il suo potenziale economico. La più grande: una combinazione devastante di una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati.

Molti in Germania speravano che l’afflusso di rifugiati degli ultimi anni avrebbe alleviato questa pressione. Il problema è che pochi rifugiati hanno il background educativo e le competenze necessarie per occupare posti di lavoro altamente qualificati nelle aziende tedesche.

Detto ciò, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in modo positivo. Nelle ultime settimane, VW, Ford e ThyssenKrupp, tra gli altri, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti.

Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti al mondo, a manodopera costosa e a normative gravose, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente trasferendosi in altre regioni. Secondo un recente sondaggio della DIHK, quasi il 40% delle aziende industriali tedesche sta considerando di trasferirsi altrove.

Veronika Grimm, membro del Consiglio di esperti economici tedeschi, un panel apartitico che consiglia il governo tedesco, sostiene che l’unico modo per invertire il declino del paese sia perseguire riforme strutturali fondamentali per incoraggiare gli investimenti.

«La situazione è piuttosto cupa», ha detto Grimm il mese scorso dopo la pubblicazione dell’analisi annuale del Consiglio sullo stato dell’economia tedesca.

Bloccati nel XIX secolo

 

Come economia più grande dell’UE, le difficoltà economiche della Germania si ripercuotono su tutto il blocco. Questo è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni è diventata di fatto il piano produttivo per i produttori tedeschi di auto e macchinari.

Se acquistate una Mercedes, una BMW o una VW, è probabile che il motore o il telaio siano stati prodotti in Ungheria, Slovacchia o Polonia.

Ciò che rende così difficile da risolvere la crisi dell’industria automobilistica tedesca per l’Europa è che il continente non ha altri settori su cui fare affidamento.

Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.

Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in ricerca e sviluppo negli USA erano Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, sono Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook).

Dato il dominio di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo tecnologico, è difficile immaginare come il settore tecnologico europeo possa mai competere nello stesso campionato, per non parlare di recuperare terreno.

Una ragione è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il venture capital. Ma il pool di venture capital in Europa è una frazione di quello statunitense. Nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Invece di investire nel futuro, gli europei preferiscono lasciare i propri soldi in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro dei risparmi degli europei vengono lentamente erosi dall’inflazione.

«I modesti pool di venture capital in Europa stanno privando le startup innovative di investimenti, rendendo più difficile stimolare la crescita economica e migliorare gli standard di vita», hanno concluso un team di analisti dell’FMI in una recente analisi.

Se quindi automobili e IT sono esclusi, l’UE potrebbe affidarsi alle tecnologie del XIX secolo in cui ha sempre eccelso, come macchinari e treni, giusto?

Purtroppo, qui entrano in gioco i cinesi.

Il numero di settori in cui le aziende cinesi competono direttamente con quelle della zona euro, molte delle quali produttrici di macchinari, è passato da circa un quarto nel 2002 a due quinti oggi, secondo una recente analisi della BCE.

Peggio ancora, i cinesi sono estremamente aggressivi sui prezzi, il che ha contribuito a una significativa riduzione della quota dell’UE nel commercio globale.

La politica dello struzzo

 

Con l’Europa alle prese con una crescita stagnante, una competitività in calo e tensioni con Washington — solo per citare alcuni dei problemi — ci si potrebbe aspettare un vivace dibattito pubblico su un’ampia agenda di riforme.

Magari fosse così. Il rapporto di Draghi ha ottenuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente per poi essere rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, i continui allarmi lanciati da FMI e BCE cadono nel vuoto.

Probabilmente perché gli europei non stanno realmente avvertendo il dolore — almeno, non ancora.

Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, guida tutte le classifiche globali quando si tratta della generosità dei sistemi di welfare dei suoi membri.

Tuttavia, con il peggiorare delle prospettive economiche della regione, gli europei potrebbero ricevere una brusca sveglia. Paesi come la Francia, che quest’anno affronta un deficit di bilancio del 6% e del 7% nel 2025 — più del doppio del limite consentito nella zona euro — avranno difficoltà a mantenere uno stato sociale generoso.

Parigi spende attualmente oltre il 30% del PIL in spesa sociale, una delle percentuali più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono lontani.

Se le fortune economiche dell’Europa non cambieranno presto, quei paesi si troveranno a dover prendere decisioni difficili, proprio come ha fatto la Grecia nel 2010, con l’aumento dei costi di indebitamento.

Il probabile risultato è una radicalizzazione della politica, come accaduto in Grecia durante la crisi del debito, con i populisti di estrema destra e sinistra che colgono l’opportunità di attaccare l’establishment.

Questa radicalizzazione è già in atto in diversi paesi, il più preoccupante dei quali è la Francia. Il successo delle frange estremiste è tanto più inquietante se si considera che il peggio della sofferenza economica deve probabilmente ancora arrivare.

Il problema è che, quando gli europei si sveglieranno di fronte alla nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa.

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