domenica 29 dicembre 2024

Ecco tutti i fronti aperti tra Meloni e i fondi stranieri.

Assedio a Palazzo Chigi – Dal risiko bancario alla legge Capitali pro-Calta fino alla svendita di Poste.

 

(Marco Palombi – ilfattoquotidiano.it)

Da un paio di mesi un pezzo della soi-disant classe dirigente italiana vaticina (e un po’ invoca) il complottone: i fondi angloamericani che fanno fuori Giorgia Meloni mettendo sotto pressione finanziaria l’Italia. Gente di un certo peso, per carità, visto che i soli istituzionali a stelle e strisce valgono oltre un quinto della capitalizzazione di Piazza Affari e qualche centinaio di miliardi di debito pubblico, ma – una volta sondati sul tema – di complottone non pare proprio aria. Altra faccenda è il pulviscolo di grossi interessi, alcuni non proprio commendevoli, in cui si trova a operare un governo in rapporto con questi mostri finanziari: e qui, invece, la gestione del fortino di Palazzo Chigi non pare decisamente all’altezza.

Tornando ai fondi d’investimento stranieri, va preliminarmente chiarito che gli interessa solo una cosa: remunerare il capitale, meglio se a doppia cifra. Quando non ci riescono vanno in fibrillazione. È il caso degli australiani di Macquarie, i più avvelenati con Meloni e soci, perché il loro investimento in Open Fiber, di cui hanno il 40%, si sta rivelando un bagno di sangue: erano convinti che il governo, gran regista dell’operazione Tim-Kkr, avrebbe costretto la società della rete FiberCop ad accollarsi OF a buon prezzo, sanando così il loro azzardo, ma come leggete qui accanto non sta andando così e nel frattempo anche Kkr si agita. Altro fronte aperto (ve ne parliamo sempre in queste pagine) è Autostrade, dove ancora Macquarie insieme a Blackstone sta dissanguando la società a forza di dividendi: per smettere di farlo, magari vendere le loro quote e far entrare un socio industriale vogliono però molti soldi, troppi.

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Nelle recenti vicende bancarie, invece, sono stati i colossi Blackrock e Fidelity Management a storcere il naso: entrambi azionisti rilevanti di Unicredit, non hanno gradito la reazione negativa di un bel pezzo del governo (e l’evocazione del golden power da parte del ministro Giorgetti) all’offerta di scambio nei confronti di Banco Bpm. Si tratta della stessa accoppiata – insieme a Vanguard, Norges e altri fondi – che in Generali ha garantito i voti alla conferma dell’ad Philippe Donnet contro i due soci italiani Caltagirone e Delfin (eredi Delvecchio): è per aiutare questi ultimi che Meloni ha fatto approvare la cosiddetta “legge Capitali”, che dovrebbe dare una mano all’editore del Messaggero e al suo alleato a prendersi Mediobanca (primo azionista di Generali). Questa è un’altra mossa che non è certo piaciuta a Blackrock e soci (vedi i ripetuti attacchi sul tema del Financial Times), nonostante la visita autunnale del capo Larry Fink a Palazzo Chigi e il permesso concessogli di salire sopra il 3% in Leonardo. Il paradosso è che anche Caltagirone pare in fredda con la premier per questioni bancarie: lui, dicono, è entrato nel capitale Mps per fare una banca del Centrosud e non ha alcuna intenzione di costruire il terzo polo coi milanesi di Bpm (il piano di Giorgetti).

Oltre alle singole partite di potere e di soldi già in atto, ci sono pure quelle futuribili ad animare il silenzioso braccio di ferro tra il grande capitale angloamericano e un governo non così granitico quando si tratta di fare scelte che non coinvolgano i migranti o l’utero in affitto. Ormai è una specie di giallo la vendita del 15% di Poste (che oggi garantirebbe 150 mln di dividendi l’anno), imminente in novembre e oggi sparita dai radar: il prospetto pubblico assegnava almeno il 70% del pacchetto a fondi d’investimento e simili, Meloni e Fazzolari pare abbiano bloccato l’operazione per aumentare la quota destinata ai piccoli risparmiatori; così facendo, però, calerebbe l’incasso e dunque Giorgetti s’è fermato. In generale, dall’ondata di privatizzazioni promessa dal governo ai grandi progetti d’investimento sul tavolo c’è di tutto: dalla possibilità di entrare nel Gruppo Ferrovie con rendimenti garantiti (ma ora si ragiona sulla sola alta velocità) al patrimonio immobiliare di pregio, dai nuovi grandi data center alle centrali energetiche l’appetito dei Larry Fink è insaziabile come il loro portafogli. È una sorta di comma 22: se si governa un grande Paese ignorarli non si può, ma se li fai entrare in casa rischi di finire a pagare l’affitto.

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