L’imperialismo, nelle sue geometrie contemporanee, sembra oggi precipitarci verso una catastrofe planetaria.
effimera.org
Struttura di dominio storico, si nutre del
capitalismo assoluto che ci imprigiona in una spirale finanziaria
distruttiva, e di uno stato di guerra mondiale continua che porta allo
“sterminismo”. In questo testo, presentato recentemente da Étienne
Balibar in occasione della sua Edward Saïd Memorial Lecture
(all’Università Americana de Il Cairo – Egitto, il 24 novembre 2024),
alcuni percorsi teorici per pensare ed emanciparci collettivamente da
esso.
Questa è la prima parte del testo. Qui si trova la seconda parte. La terza e ultima parte è disponibile qui.
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Questa è, ovviamente, una presentazione teorica. Ma che – spero si vedrà – non può dissociarsi da un impegno militante nelle lotte antimperialiste con la loro diversità e la loro problematica unità. Sono la nostra unica speranza di diventare o tornare ad essere attori di un processo di emancipazione collettiva dalla violenza e dallo sfruttamento.
A conclusione di questa presentazione, in modo molto rapido e molto astratto, cercherò quindi di delineare alcuni orientamenti per pensare a queste lotte, sulla base di una rappresentazione aggiornata della struttura di dominio a cui, per più di cinque secoli, è soggetto il nostro mondo, e che oggi sembra condurlo verso una catastrofe planetaria.
Per quanto astratte possano essere (e mi dispiace non poter fare di meglio in questo contesto), le mie proposte non potranno sfuggire alla pressione delle circostanze in cui si svolge il nostro incontro. Sono (semplicemente tragici) assolutamente tragiche. (Parlando sotto l’invocazione di) Rievocando Edward Said, come potrei non essere tormentato dalle immagini di pulizia etnica e di sterminio che ci giungono ogni giorno dalla Palestina (e ora anche dal Libano)? E come potrei non essere ossessionato dalla domanda sul perché il “mondo” (chiamato anche “comunità internazionale”) non vuole o non può porre fine a questa barbarie? Ma ovviamente ho altri pensieri, altri ricordi in mente riguardo a questa regione di cui l’Egitto è il centro… Intraprendendo a mia volta il “Viaggio in Oriente”, penso a ciò che essa ha di veramente unico, per il suo contributo alla civiltà (tanto quanto dalla) e anche per la violenza delle esperienze vissute. Regione dove, fin dagli inizi di quella che chiamiamo “storia”, gli imperi hanno lottato per l’egemonia (una delle mie tesi sarà che l’imperialismo moderno, con tutte le sue specificità, continua ancora questa lunga storia). Una regione che, nel corso dei secoli XIX e XX, continuò ad essere al centro di rivalità imperialiste, ma anche teatro di rivolte eroiche che cercarono di invertire il corso della storia e immaginare il futuro sotto il segno della libertà, troppo spesso però per finire schiacciate dalla repressione e dalla superiorità delle forze conservatrici interne ed esterne. Potete quindi facilmente immaginare cosa significhi per me parlare oggi proprio accanto a Tahrir Square! E non posso dimenticare (quello più tragico) tragedie ancora più gravi: i tre genocidi avvenuti lì negli ultimi anni, in Darfur, Siria e Gaza. (Non si può dire che) Discutere qui di imperialismo (sia solo) non è certo una questione di sola scienza storica!
L’imperialismo e la guerra
Veniamo al mio primo punto. Mi concentrerò sull’articolazione tra imperialismo e guerra, ed ecco perché. Dopo i saggi che, all’inizio del XX secolo, inaugurarono il problema dell’imperialismo in una prospettiva socialista e marxista: Hobson, Hilferding, Rosa Luxemburg, Kautsky, Lenin, Trotsky e altri, (non c’è mai stato un punto fermo. Il problema ha continuato a evolversi) la questione non ha mai smesso di evolversi.
(Ma) Ci sono stati periodici “ritorni” su significativi (punti di eresia) aspetti eretici, come quando David Harvey, nella sua analisi del Nuovo Imperialismo basato sull’“accumulazione per espropriazione” (da cui trarrò in parte ispirazione) ridà onore alle idee di Rosa Luxemburg (in L’accumulazione del capitale, 1913) sulla violenta espropriazione dei contadini nelle “periferie” coloniali da parte del capitale industriale[3]. (E soprattutto,) Esiste soprattutto una tensione permanente tra le teorie che mettono in primo piano il fenomeno politico dell’imperialismo (dunque l’azione dello Stato con i suoi “segni di sovranità”, come dicono Bodin e Hobbes[4]), e le teorie (principalmente marxiste) che ne fanno lo sviluppo di una “fase” o “modalità” di sviluppo del capitalismo, con i suoi antagonismi caratteristici.
Ora, fin dall’inizio, questa tensione mi sembra dettata dalla necessità di (dare conto di) spiegare un fenomeno che è l’emergere della guerra al centro stesso dell’economia di una società il cui principio di organizzazione e di progresso (il “commercio”, nel senso più ampio) dovrebbe promuovere la pace. Fu (per usare l’espressione di Lenin) la “catastrofe imminente” della guerra mondiale del 1914 a cristallizzare i dibattiti sul rapporto del capitalismo con il nazionalismo, la colonizzazione, il militarismo e la guerra[5]. Ed è stata proprio la convinzione che questo binomio spingesse la società “borghese” verso un limite assoluto, insostenibile, che ha portato i teorici più radicali del momento a porre l’alternativa: imperialismo o rivoluzione, sostenuta dalla duplice convinzione che l’imperialismo genera problemi che è impossibile risolvere, e la rivoluzione, appunto, fornisce la soluzione (o almeno ne sblocca la possibilità). Ci tornerò, ovviamente.
Ma per ora voglio difendere l’idea che, per una teoria dell’imperialismo, la guerra non può essere vista come una conseguenza particolare del fenomeno studiato. È (questo che costituisce) la guerra a costituire il problema fondamentale, la prima questione da cui nasce il concetto. È dunque a essa che bisogna ritornare per valutare cosa, nella struttura dell’imperialismo e nella configurazione delle sue “tendenze”, è cambiato o è persistito, e in quale proporzione. Non c’è nulla di contingente nell’articolazione tra imperialismo e guerra. Ma non può nemmeno essere dedotto da una semplice definizione.
Quando ci interroghiamo su questa articolazione, non parliamo quindi solo di “guerre imperialiste”, o di “guerre dell’era imperialista”, ma del legame intrinseco tra imperialismo e guerra. È su questo punto che avanzerò due ipotesi.
Ecco la prima: nella sua accezione oggi dominante (marxista o post-marxista) che non (lo) separa l’imperialismo dal capitalismo come modo di produzione basato sull’accumulazione di valore monetario, non c’è dubbio che l’imperialismo (coincideva) ha coinciso con una nuova modalità della conquista imperiale, simbolicamente segnata dall’apertura dell’America nel 1492 alla colonizzazione europea, che si sarebbe poi estesa al mondo intero. Ciò, tuttavia, non segna alcuna interruzione nella storia degli imperi e delle loro rivalità. Al contrario, fu l’inizio di un periodo in cui l’impero come forma politica acquistò una vitalità senza precedenti. L’imperialismo non costituisce una rottura con la successione degli imperi, ma segna piuttosto un nuovo momento in una storia molto lunga. Ciò potrebbe semplicemente significare che gli imperialismi moderni implicano sempre la conquista e il dominio, o sono addirittura guidati dal sogno imperiale del potere universale, il che era chiaramente il caso, non solo per l’Impero britannico, ma per gli imperi “repubblicani” francese o americano. Ma possiamo fare un ulteriore passo avanti, perché l’impero come forma politica ha un legame istituzionale con la guerra e con la funzione politica che svolge. Lo esprimerò (forgiando) usando un assioma “romano” che vale ancora nei tempi moderni: gli imperi fanno sempre la guerra ai loro “confini” (che spostano costantemente) per creare spazio per il commercio, la legislazione e la cultura, in altre parole ” (della) per la pace”; ma è però vero anche il contrario: fanno la pace e sviluppano le istituzioni per poter preparare e fare la guerra[6].
La seconda proposta non è meno vera della prima, e anch’essa ne costituisce la verità da un punto di vista materialista. La guerra è inerente all’imperialismo come essa lo fu agli imperi. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant : è sempre opportuno rileggere Tacito[7].
Per la mia seconda ipotesi, la più importante, cercherò di basarmi su formulazioni prese in prestito da due autori – Lenin e Carl Schmitt – che sono politicamente inconciliabili, ma hanno in comune una visione realistica dei conflitti di potere nel XX secolo. Al centro del saggio di Lenin: Imperialismo, stadio supremo del capitalismo[8] figura l’idea di “spartizione del mondo” tra le potenze coloniali, una divisione caratterizzata dalla sua intrinseca instabilità, lungi quindi dal condurre ad una soluzione permanente o “equilibrata” (di) tra le sue parti tra sovranità equivalenti, ma implicando al contrario una violenta lotta per la re-divisione.
Se c’è un’idea di Lenin che la storia ha brillantemente confermato è ovviamente questa, come dimostra una storia di incessanti conflitti che va dalla Conferenza di Berlino (1885), dove venne distribuita l’Africa esplorata e inesplorata (“continente nero”) tra le potenze coloniali europee, fino all’emergere delle potenze imperialiste extraeuropee in America e in Asia e alla “guerra fredda” (la “spartizione di Yalta”), passando per le due guerre mondiali (da qui il Patto tedesco-sovietico), per arrivare infine, dopo il 1989, alla costruzione di un unico “ordine liberale” militarizzato. È quindi una delle questioni decisive per la nostra indagine sapere se e come tale idea è applicabile alla nostra situazione attuale e alle sue tendenze in evoluzione, in particolare per chiarire il significato dello slogan “multilateralismo”. È chiaro, tuttavia, che questa discussione presuppone un notevole ampliamento della caratterizzazione leninista, che si basa sulla funzione decisiva dei territori e dei confini territoriali, così come possono essere individuati su una mappa del mondo. Tuttavia, gli imperi con cui oggi abbiamo a che fare (qui) basano il loro potere sugli investimenti e sulla redditività del capitale. I territori che contano per loro non sono pure entità spaziali, sono spazi aperti con la forza per l’appropriazione di risorse monopolizzabili: risorse energetiche (carbone, petrolio, uranio, ecc.), risorse minerarie e agricole (compreso lo sfruttamento sconvolgente dell’ambiente), risorse umane (popolazioni che rischiano di essere ridotte in schiavitù, trasferite, messe al lavoro, arruolate nell’esercito, ecc.). Ma si scopre presto che gran parte di queste risorse possono essere controllate ed estratte senza dover ricorrere al dominio diretto (o alla “sovranità” esercitata sul territorio), ovviamente a condizione che siano disponibili i mezzi (monetari e militari) che consentano un eccesso di (potere) potenza irresistibile. Questo, come sappiamo, è stato il segreto dell’imperialismo statunitense, che ha dato alla “divisione del mondo” un carattere più astratto, nascosto sulle carte se non sul terreno, controllando i territori non come colonie (con eccezioni) ma come mercati, in modo da costruire un impero globale la cui estensione era limitata solo dalla capacità degli Stati Uniti di reprimere le insurrezioni e investire capitali ovunque nel mondo. Ma a sua volta, questa modalità è “superata” oggi da un modello completamente diverso di divisione del mondo (e della lotta per la sua re-divisione), che non si riferisce agli spazi terrestri ma agli spazi “virtuali” (o immateriali). che insieme formano il metaverso), distribuiti (e ridistribuiti, o contesi) tra imperi della comunicazione[9]. Una tale divisione crea i propri “territori” appropriandosi di essi, e i suoi “padroni” non sono tanto gli stati quanto le multinazionali con le loro “reti” di distribuzione e raccolta dati, che controllano l’attività degli Stati piuttosto che (non) essere controllate da essi.
Riuscirà questa forma rivoluzionaria di “territorialità” ad acquisire sufficiente autonomia per relegare in secondo piano la lotta per l’egemonia che oggi sembra sul punto di strutturare “geopoliticamente” l’ordine mondiale (tra imperi industriali, che sviluppano diversi modelli di “capitalismo”, rivali e allo stesso tempo complementari tra loro, (cosa) come lo sono la Cina e gli Stati Uniti)? E di quale natura saranno i conflitti che ne deriveranno? Queste sono chiaramente le domande da cui dipende il nostro immediato futuro. Il riferimento all’opera di Carl Schmitt è a questo punto essenziale. (A questo punto la deviazione è essenziale per l’opera di Carl Schmitt.) (È) C’è un’innegabile (la) convergenza tra la “divisione del mondo” leninista e la sua stessa idea di Landnahme (“presa” di terra) sviluppata nel libro del 1950: Il Nomos della Terra e il diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, dove la storia della costituzione degli Stati nazionali d’Europa (dopo la fine delle guerre di religione nel XVII secolo, che portarono all'”ordine di vestfaliano”) è correlato al fatto che queste stesse nazioni sono in uno stato di guerra permanente per espandere i propri imperi e spogliarsi a vicenda delle proprie colonie[10].
Evidentemente Lenin e Schmitt non “concludono” allo stesso modo la loro diagnosi di crisi del nomos : per Lenin, la rivoluzione è la conseguenza immediata, ineluttabile, della crisi dell’imperialismo, mentre per Schmitt (contro-rivoluzionario dichiarato), ciò che ne risulterà è una nuova geometria dell’imperialismo, caratterizzata dalla costituzione dei Grossräume («grandi spazi geopolitici”) che sono una nuova varietà d’imperi regionali (la cui risonanza con certe problematiche contemporanee: la “multipolarità” e il “conflitto di civiltà”, non manca di essere scioccante[11]).
Ma ciò che trovo più chiarificatore nelle sue analisi, è l’idea che la divisione del mondo non è solo una (re)divisione delle terre, delle risorse, delle popolazioni, ma anche una distribuzione delle forme della guerra (e più in generale delle modalità della violenza) tra le regioni del pianeta[12]. Questa distribuzione opera simultaneamente a due livelli: è una distribuzione tra gli Stati imperialisti, ed è una distribuzione tra la regione in cui abitano i “padroni” (o i “popoli-padroni”) e la regione in cui abitano i “soggetti” (o i futuri soggetti, già segnati dalla conquista) – ciò che più tardi si chiamerà il “centro” e la “periferia”.
La violenza che si esercita nel centro e la cui posta in gioco è la potenza sovrana (Herrschaft) e quella che si esercita nella periferia per installarvi e riassicurarvi in permanenza il dominio dei padroni sui barbari che spetta loro di sottomettere, di educare e di fare lavorare, sono qualitativamente e quantitativamente diverse: la seconda deve essere permanente, atroce e essa stessa barbara, mentre la prima è intermittente (separata da dei trattati di pace), e pretende restare civilizzata (in virtù delle “leggi della guerra”). Essa si “trattiene” (Hegung des Krieges) mentre la seconda è scatenata.
La stabilità, e anche la (verosimilità) verosimiglianza di tale distribuzione sono lungi dall’essere assicurate ( (testimone) come testimoniano le atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale, o oggi in Ucraina), ma vedo la possibilità di servirsene al rovescio : porrei in maniera post-schmittiana (qui è anche anti-schmittiana) che la distribuzione diseguale delle forme eterogenee della violenza è, (come quella) in quanto tale, uno dei meccanismi che disegnano le frontiere separando “due mondi” in seno allo stesso “mondo” (e quindi due “umanità” o due “razze” in seno alla stessa “specie umana”). Ora (tale) questa è precisamente la figura dell’imperialismo in quanto forma sociale e antropologica all’epoca moderna. A più riprese essa è stata deformata e spostata (e lo sarà senza dubbio ancora, al prezzo di terribili sofferenze e distruzioni ambientali), ma il suo principio si è mantenuto. Lo si vede in questo momento stesso a Gaza.
Concludiamo su questo punto e torniamo alle questioni angoscianti del presente. In un mondo più che mai diviso in Stati, nazioni e regimi concorrenti, ma che sembrerebbe anche segnato da un grado d’interdipendenza diseguale tra le sue “parti” costitutive, e che si vede obbligato da avvenimenti così diversi come la pandemia, una crisi monetaria mondiale, ma soprattutto dalla catastrofe ambientale, a prendere coscienza di certi interessi vitali comuni a tutta l’umanità, quindi di far prevalere la sua unità sulle sue divisioni, in cosa riconosciamo ancora i segni dell’impero? E come definiamo il regime mondializzato delle guerre condotte – (per) nella terra e (in aria) nei cieli, o ancora nello spazio “virtuale” dell’infosfera – in nome dei valori incompatibili anche in seno a questo mondo «unificato[13]”?
Alla prima questione, risponderei ipoteticamente: sono gli imperi in declino (che sono) ad essere i più violenti (o i più crudeli nel loro modo di fare la guerra), poiché si sentono spalle al muro sia (dall’) per l’erosione dei loro privilegi (e) sia (dalla rovina) per il crollo della loro pretesa di “grandeur” (o d’elezione)[14]. La Russia e gli Stati-Uniti d’America illustrano oggi questa tesi, benché a dei livelli diversi d’imperialità[15]: per gli uni, occorre “ricostituire l’unità del Russkyi Mir” che l’URSS aveva preservato e che il suo (crollo) tracollo ha dissolto, per gli altri, occorre “Make America Great Again” …
Alla seconda questione, risponderei che siamo arrivati a uno stadio di sterminismo generalizzato. Riprendo questo termine del saggio, celebre a suo tempo, dello storico Edward P. Thompson (un degli animatori del movimento Est-Ovest per il disarmo nucleare) : Notes on Exterminism, the Last Stage of Civilization (1980)[16], il cui titolo parodiava intenzionalmente Lenin. Scritto in piena “corsa agli armamenti” durante la Guerra Fredda, insisteva sull’idea che il rischio di un annichilimento del pianeta non si doveva solo alle politiche e ideologie imperiali delle due “superpotenze”, ma anche all’ampiezza delle industrie d’armamenti e del loro posto centrale nell’economia.
E’ sempre vero, ma penso che si possa spingere ulteriormente il concetto di sterminismo per descrivere la normalizzazione di questo stato di eccezione che è la guerra nel mondo di oggi: non includo solo le guerre ufficialmente definite “guerre tra Stati” (come la guerra in Ucraina – più da parte ucraina che da parte russa, del resto), ma guerre “civili” e anche “private” (se si pensa alla porosità della separazione tra guerra e criminalità in certe parti del mondo), al “terrorismo” e all’“antiterrorismo” che gli Stati esercitano contro i propri nemici interni o esterni. Tutte queste forme hanno ovviamente le loro storie e cause uniche, ma prese insieme (con, sullo sfondo, la produzione e la diffusione di armi), formano una distribuzione globalizzata della violenza armata che comprende tutti i gradi di violenza e non risparmia (la) nessuna società (o) né regione del mondo, un continuum tra due estremi: da un lato i genocidi perpetrati contro intere popolazioni da masse razziste “non organizzate” o (soprattutto) da stati ed eserciti altamente organizzati (come Israele); dall’altro, il potenziale sterminio nel contesto di una guerra nucleare dichiarata o risultante da una “escalation” incontrollata. Lo sterminismo non è quindi l’ultima, ma la fase più recente e “più bassa” dell’imperialismo, la cui violenza multilaterale significa che non possiamo davvero immaginare l’avvento di un altro mondo. Nulla di confortante … (continua)
[1] Questo testo è l’adattamento della “Edward Saïd Memorial Lecture 2024”, presentato all’Università Americana del Cairo, il 2 Novembre 2024, su invito del Dipartimenti d’inglese e Letteratura comparata. // xi libri di Balibar in italiano vedi qui: https://www.ibs.it/libri/autori/%C3%A9tienne-balibar?gad_source=1&gclid=CjwKCAiA3ZC6BhBaEiwAeqfvyr1q_rho6QoXhlEpxrh55Af3uRyX-eJJ0hpFCsIAVbHU1bdUVnryBRoCWnYQAvD_BwE
[2] Giovanni Arrighi, La geometria dell’imperialismo. I limiti del paradigma di Hobson (1978), edizione riveduta, con una nuova postfazione, Verso Editions 1983. ( La geometria dell’imperialismo , Feltrinelli, 1982)
[3] David Harvey, The New Imperialism , Oxford University Press 2005. (in italiano vedi La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo , il Saggiatore, 2006)
[4] Vedi Etienne Balibar, “Prolégomènes à la souveraineté”, in Nous, citoyens d’Europe ? les frontières, l’Etat, le peuple , Éditions La Découverte, Parigi 2001.
[5] Il testo più conosciuto è “La catastrophe imminente et les moyens de la conjurer” datant de septembre 1917 (immediatamente prima della rivoluzione d’ottobre), che riprende e accentua i temi sviluppati da Lenin dal 1915 (in Œuvres , Paris- Mosca, 1959, tomo 24.
[6] NT: vedi anche Foucault che rovescia il celebre postulato di Clausewitz: è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi e non il contrario; non è quindi che la necessaria conseguenza del fatto che tra società e potere il conflitto si è finalmente rivelato irriducibilmente “bio-politico”, senza altra definitiva soluzione che la vittoria della prima sul secondo. Poiché è la vita stessa ad essere individuata come la vera posta in gioco della politica, ogni contesa in termini giuridici e di sovranità appare chiaramente un surrogato d’altri tempi, e l’unica prospettiva per difendere il sociale sta nel guerreggiare col potere… ma l’imperialismo odierno è sterminatore e non h alcun interesse alla salvaguardia della vita (se si punta sempre più alle nuove tecnologie x sostituire i militari è innanzitutto per una questione di profitti ..
[7] Tacito, Vie d’Agricola , 30.
[8] sottotitolato “Essai de vulgarisation”, scritto nel 1916 e pubblicato l’anno seguente, nell’aprile 1917 tra le due «rivoluzioni». Vedi Opere , Tomo 22.
[9] Vedi il mio articolo “ Sur la catastrophe informatique : une fin de l’historicité ?”, in Les Temps Qui Restent (rivista online), aprile 2024, in cui mi riferisco in particolare a Benjamin Bratton, The Stack. Software e sovranità , Cambridge, MIT Press, 2015.
[10] Carl Schmitt: Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), trad. fr. Peter Haggenmacher, PUF 2012. Schmitt giocaticamente sul doppio significato etimologico del greco nomos : la legge, la condivisione o distribuzione.
[11] Sulla prossimità tra le tesi di Schmitt a proposito del “Grossraum” e quelle di Samuel Huntington a proposito dello “choc delle civiltà”, cfr. Etienne Balibar, L’Europa, l’Amérique, la Guerre . Réflexions sur la médiation européenne, Éditions La Découverte, Parigi 2003, Éclaircissement n° VIII.
[12] Colpisce che lo stesso anno esattamente un’idea simile sia proposta da Hannah Arendt ( Les Origines du Totalitarisme ) e da Aimé Césaire ( Discorso sur le colonialisme ).
[13] Qui mi distinguo in parte dalla tesi di Éric Alliez e Maurizio Lazzarato (essi stessi ispirati dall’opera di Antonio Negri e Michael Hardt : Empire et Multitude , 2000-2004) in Guerres et capital , Editions Amsterdam, 2016, traendone tuttavia un’ispirazione diretta.
[14] Non c’è impero che non sia centrato su una nazione che si concepisce essa stessa come una “Grande Nazione” (espressione della Rivoluzione francese contemporanea dello scontro con la coalizione monarchica e la spedizione d’Egitto), o come dotata di un Manifest destini di conquista del continente (1845: annessione del Texas e guerra USA-Messico). Questo sarebbe l’oggetto di uno studio speciale. Vedi anche le nozioni di “Greater Britain”, Grossdeutschland , “Mondo russo” ecc.
[15] Riprendo questa nozione di Mohamed Amer Meziane: Des empires sous la terre. Histoire écologique et razziale de la sécularizzazione , Éditions La Découverte, Parigi 2021. Vedi anche la sua intervista con Emir Mahieddin: “Pour une anthropologie de l’impérialité”, in Journal des anthropologues, 170-171, 2022.
[16] Traduzione francese in EP Thompson e alii., L’exterminisme. Armement nucléaire et pacifisme , Parigi PUF 1983.
Fonti: https://aoc.media/analyse/2024/11/24/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-1-2/ e
e https://aoc.media/analyse/2024/11/25/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-2-2/
(Traduzione di Turi Palidda. Ringraziamo per la revisione del testo Mario Sei)
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