(Terza
parte: un atteggiamento egocentrico di fondo che si sta rivelando
sempre più distruttivo sul piano ambientale ed umano e – grazie anche
all’insipienza diffusasi durante il ’900 nella cosiddetta sinistra – un
“sistema di potere” particolarmente efficace)*
sinistrainrete.info Luca Benedini
La scarsa attenzione neoliberista per la salvaguardia dell’ambiente, della salute pubblica, della natura.
Un’altra emblematica tendenza sociale attuale è il disinteresse di fondo con cui i neoliberisti trattano sia la prevenzione delle malattie, degli squilibri climatici e dei dissesti idrogeologici, sia la tutela della biodiversità e di una ben sviluppata fertilità della terra, un disinteresse che è nel contempo una sorta di “educazione delle masse” a dare anch’esse poca importanza a tutte queste cose: sarebbe pericoloso se le classi popolari pensassero che la loro salute è importante, più importante dei profitti delle grandi aziende industriali, commerciali, ecc., e se pensassero che anziché ridurre il più possibile le tasse ai ricchi e lasciare in tal modo al lumicino le finanze pubbliche – pur preservando comunque una certa tendenza della pubblica amministrazione (P.A.) al clientelismo e alla corruzione, tendenza che ai ricchi fa molto comodo... – bisognerebbe investire con diffusa attenzione e con oculatezza consistenti quantità di soldi pubblici per tutelare il clima planetario, l’assetto naturale di colline, monti, fiumi, mari e coste, la qualità intrinseca di terreni e acque, le specie viventi, la presenza diffusa di macchie di alberi e altri aspetti cruciali dell’ambiente e del paesaggio (investimenti che, per di più, in questo tipo di progettualità andrebbero fatti possibilmente prima che dagli squilibri di questi fattori derivino drammatiche devastazioni degli ecosistemi e della vita di questa o quella comunità locale)...
La tipica tendenza del pensiero neoliberista nei confronti delle problematiche ambientali, climatiche, sanitarie, sociali, ecc. è: “Lasciamo che esplodano, così potremo guadagnarci sopra in un modo o nell’altro...
Tanto noi – con il nostro denaro, i nostri aerei, i nostri yacht, le nostre amicizie altolocate, le nostre aderenze nel mondo politico, i nostri lavoratori dipendenti bisognosi di un reddito, la nostra capacità di pagare all’occorrenza i medici più rinomati e le terapie più costose e di dare eventualmente lauti stipendi a una serie di “guardie del corpo”, ecc. ecc. – alla fin fine riusciamo a cavarcela molto bene pressoché sempre...”. Alcuni frequentissimi esempi dei modi di guadagnarci sopra possono essere il vendere farmaci e/o l’aprire cliniche private per le varie patologie, il fare con le proprie aziende qualche lavoro ben pagato per ripristinare la “normalità” locale che ha subìto danni, l’utilizzare gli aumenti della disoccupazione per ricattare ancor meglio i lavoratori occupati, l’acquistare a prezzi stracciati qualche impresa in difficoltà o qualche bene locale gettati sul mercato a causa di un’urgenza finanziaria, e via dicendo. Oltre tutto, molto spesso le principali cause che al giorno d’oggi stanno all’origine di inquinamenti, dissesti ambientali, squilibri climatici, fenomeni di desertificazione, ecc. sono proprio le attività economiche capitalistiche stesse, attuate volutamente senza attenzione per l’ecologia e senza rispetto per la salute umana, così da ricavare nell’immediato maggiori profitti [86]...
Si crea così – innanzi tutto – un estremo conflitto di interessi tra le élite economiche neoliberiste e la “popolazione comune”, che viene potentemente danneggiata più volte: prima dall’incuria tipicamente manifestata da tali élite nei confronti del progressivo svilupparsi di quelle problematiche, poi a un certo punto dal vero e proprio esplodere di queste ultime e, infine, dal dover pagare come clienti o come contribuenti per qualche forma di riparazione o riaggiustamento dei danni subiti. Nel contempo, si crea anche un profondo conflitto culturale – e tendenzialmente politico – tra, da un lato, coloro che cercano di manipolare la mentalità popolare per rendere la gente superficiale, ignorante e soprattutto succube degli interessi materiali di breve termine di quelle élite e, dall’altro lato, la consapevolezza di chi coglie e comprende le effettive esigenze della gente stessa e dell’ambiente planetario e si rende conto di come queste esigenze potrebbero essere in effetti concretizzate e tutelate in maniera efficace con lucidità, con rispetto per tutte le persone e per il resto della natura, con amore per la vita e con il piacere intrinseco della ricerca creativa di una relazione armonica tra persona e persona, così come tra umanità e altre specie viventi.
Si tratta di una tematica che già nell’epoca del liberismo ottocentesco venne toccata in modo estremamente significativo da Friedrich Engels, specialmente in Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia (uno scritto risalente pressoché certamente al 1876 e pubblicato postumo nel 1896) [87]. Vi si legge: «L’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta a essa modificazioni semplicemente con la sua presenza; l’uomo modificandola la rende utilizzabile per i propri scopi, la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali [...]. Non aduliamoci troppo, tuttavia, per le nostre vittorie umane sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia Minore e in altre regioni sradicavano i boschi per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l’attuale desolazione di quelle regioni, in quanto estirpando i boschi sottraevano ad esse i centri di raccolta dell’umidità e i suoi depositi. Gli italiani della regione alpina, nell’esaurire nei pendii meridionali i boschi di abeti, che nei pendii settentrionali erano protetti con tanta attenzione, non presentivano affatto che, così facendo, scavavano la fossa all’industria della pastorizia nel loro territorio; e ancor meno immaginavano di sottrarre in questo modo alle loro sorgenti alpine, per la maggior parte dell’anno, quell’acqua che tanto più impetuosamente si sarebbe precipitata in torrenti sulle pianure durante l’epoca delle piogge. [...] A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo a essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nel fatto che rispetto alle altre creature abbiamo il vantaggio di essere capaci di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato» [88]. E ancora: «In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono essere presi in considerazione solo i risultati più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende con l’usuale profittarello la merce fabbricata o comprata e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso “humus” e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto»...
In seguito, in una lettera del 18 giugno 1892 al socialista russo Nikolaj Daniel’son, pubblicata postuma nel 1908, Engels mise in evidenza che non solo in Russia (come Daniel’son aveva rilevato in una precedente lettera a Engels) ma anche, «più o meno», in «tutti i paesi» che avevano attraversato il processo della «rivoluzione industriale» si erano verificati in campo ambientale svariati gravi «fenomeni che accompagnano necessariamente questi tremendi sconquassi economici». Tra tali fenomeni in particolare «l’impoverimento del suolo – vedi America; il disboscamento – vedi Inghilterra, Francia e da poco Germania e America; l’alterazione del clima – l’inaridimento dei fiumi è probabilmente maggiore in Russia che altrove, in rapporto con la configurazione livellata del territorio che fornisce acqua a questi fiumi giganteschi, e con l’assenza di un serbatoio di nevi dalla tipologia alpina come quello che alimenta il Reno, il Danubio, il Rodano e il Po» (e oggi si può notare che quel serbatoio alpino di nevi, che allora appariva solido e stabile, ha cominciato a entrare seriamente in crisi a cavallo tra il 20° e il 21° secolo, col progredire dell’effetto serra). Anche negli scritti di Marx si ritrova più volte una spiccata attenzione nei confronti della natura e delle sue risorse, specialmente in riferimento alle forme di agricoltura [89]. Nel 1875, nella Critica al programma di Gotha, Marx addirittura rammentò con una certa durezza ai suoi compagni di partito che, contrariamente a quanto da loro asserito in una bozza di programma del partito socialdemocratico tedesco, «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana».
Tra l’altro, quel testo engelsiano presumibilmente del 1876 mostra che anche allora, come oggi, c’erano popolazioni che andavano comunemente – e in linea di massima giustamente – fiere del loro tradizionale rapporto profondo con l’ambiente naturale circostante e intendevano mantenerlo saggiamente in atto (come appunto le popolazioni del lato settentrionale delle Alpi) e altre che tendevano a trascurare l’ambiente stesso, non cogliendo i suoi fondamentali equilibri interni, e che a volte erano disposte addirittura ad assecondare fino all’estremo gli interessi economici di chi era pronto a sfruttare senza riserve la natura... E mostra che anche allora, come oggi, c’erano “invasori” colonialisti o imperialisti che – sfruttando il potere delle armi (i colonialisti) o del denaro affiancato molto spesso dalla corruzione (gli imperialisti) – tendevano a sfruttare con rapidità e senza limiti e remore le risorse di qualche altra parte del mondo, lasciandosi dietro poi la classica “terra bruciata”: cioè un’estrema devastazione inflitta tipicamente a meravigliosi e fecondi ambienti naturali che per millenni si erano conservati dinamicamente lì grazie anche all’intuizione e alla saviezza di popolazioni native che amavano, rispettavano e per molti versi comprendevano l’ambiente in cui vivevano. Ovviamente, anche queste popolazioni native sono state in sostanza “sacrificate” in buona parte, in una maniera o nell’altra, al “dio profitto” di quegli invasori (che in molti casi hanno visto solo di sfuggita questi luoghi – o addirittura non li hanno neanche visti personalmente – e in pratica li hanno sfruttati e progressivamente distrutti “da lontano” e per interposta persona, tramite una serie di incaricati, come ad esempio amministratori delegati, tecnici, operai, avvocati, aziende in appalto, milizie armate mercenarie, ecc.).... E ciò benché si trattasse spessissimo di popolazioni non solo estremamente vitali e interessanti dal punto di vista culturale, ma anche molto più civili degli invasori in diversi aspetti della vita sociale e quotidiana, pur essendo generalmente molto più “primitive” per quanto riguarda specificamente la sfera tecnologica [90]
Rispetto al tardo ’800, la situazione di fondo non cambiò di molto nella prima metà del ’900, durante la quale anzi appare essere complessivamente peggiorata sulla spinta di comparti industriali come quelli dei fertilizzanti chimici e delle macchine agricole, spesso utilizzate con poco acume (come emerse in modo particolarmente drammatico durante gli anni ’30 negli Usa, dove vaste zone rurali vennero sconvolte da fenomeni di estrema erosione agraria e da conseguenti tempeste di sabbia, eventi che – come si iniziò a comprendere diffusamente con una certa rapidità – erano stati facilitati in modo decisivo da degli eccessi di aratura) [91].
Notava nel 1933 in Autosufficienza nazionale John Maynard Keynes – che allora stava già cominciando a ottenere una considerevole fama internazionale, sulla base sia della lucidità delle sue valutazioni e previsioni in campo economico sia dei suoi suggerimenti a esse connessi – con accenti non molto lontani da quelli espressi mezzo secolo prima da Engels: «L’Ottocento ha portato a livelli smodati ed eccessivi l’uso del criterio basato su quelli che in breve si possono chiamare “i risultati finanziari”, intesi come prova dell’opportunità di qualsiasi azione promossa dall’azione privata o collettiva. L’intera condotta della vita è stata trasformata in una sorta di parodia dell’incubo di un contabile. Invece di usare le loro enormemente aumentate risorse materiali e tecniche per costruire una città delle meraviglie, gli uomini dell’Ottocento hanno costruito baraccopoli; e ritenevano giusto e consigliabile costruire baraccopoli perché i bassifondi, alla prova dell’impresa privata, “pagavano”, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, secondo loro, un atto di sciocca stravaganza, che – nell’idioma imbecille in uso nel mondo della finanza – avrebbe “ipotecato il futuro” [...]. La stessa regola del calcolo finanziario autodistruttivo governa ogni ambito della vita. Distruggiamo la bellezza della campagna perché gli splendori della natura che non appartengono a nessuno non hanno un valore economico. Siamo capaci di spegnere il sole e le stelle perché non pagano dividendi. [...] Per dire ancora: fino a poco tempo fa abbiamo concepito come un dovere morale rovinare i coltivatori del terreno e distruggere le secolari tradizioni umane legate all’agricoltura solo per poter ottenere una pagnotta a un decimo di centesimo in meno. Non c’era niente che non fosse nostro dovere sacrificare a questo Moloch e Mammona insieme, poiché credevamo con grande fede che l’adorazione di questi mostri avrebbe superato il male della povertà e condotto la generazione successiva in modo sicuro e confortevole – sulla base dell’interesse composto – verso la pace economica. Oggi ne patiamo la disillusione, non perché siamo più poveri di prima [...] ma perché altri valori sembrano essere stati sacrificati e perché sembrano essere stati sacrificati inutilmente, in quanto il nostro sistema economico, alla prova dei fatti, non ci consente di sfruttare al massimo le possibilità di ricchezza economica offerte dal progresso della nostra tecnica, ma ne è ben al di sotto».... Si tratta, tra le altre cose, di un testo in cui un economista di spicco (che a quell’epoca stava per diventare – e poi rimanere – l’economista più significativo dell’intero secolo) riconosce in modo alquanto pressante che nella realtà è evidentemente intrinseco il fatto che l’economia non può essere in se stessa il metro dominante del mondo, ma va combinata e integrata con altri essenziali valori di fondo (come in particolar modo il senso della natura, della bellezza, della creatività artistica e architettonica, della sensibilità e della generosità umana), altrimenti quel metro dominante diventerà sempre più distruttivo e autodistruttivo...
Scriveva a sua volta Aldo Leopold in un libro fondamentale dell’ambientalismo statunitense, Almanacco di una contea sabbiosa - E appunti qua e là, del 1948 (pubblicato postumo l’anno successivo e tradotto in italiano nel 2023 per la Piano B edizioni sotto il titolo Pensare come una montagna, titolo che ripropone una delle espressioni-chiave contenute nel testo, mentre l’edizione originaria alludeva appunto col suo titolo a quelle zone rurali degli Usa colpite intensamente dall’erosione e dalle tempeste di sabbia): «Per me è inconcepibile che un rapporto etico con la terra possa esistere senza amore, rispetto e ammirazione [...]. L’ostacolo che deve essere rimosso per aprire la strada allo sviluppo di un’etica [della terra, N.d.R.] è semplicemente questo: smettere di pensare che un uso corretto della terra sia un problema esclusivamente economico. Iniziare a esaminare ogni problema nei termini di che cosa sia eticamente ed esteticamente giusto, come pure economicamente opportuno. Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica; è sbagliata quando mostra una tendenza diversa. È chiaro che la fattibilità economica limita la portata di ciò che può o non può essere fatto per la terra – è sempre stato così e lo sarà sempre. L’errore che i deterministi economici ci hanno legato intorno al collo [...] è la convinzione che solo l’economia deve determinare il nostro utilizzo della terra» (sulla base dei guadagni ottenibili in pratica vendendo prodotti agricolo-pastorali o legname oppure concedendo spazi d’azione a cacciatori e pescatori).... Analogamente, anche «un sistema di tutela ambientale basato esclusivamente sull’interesse economico è irrimediabilmente asimmetrico. Esso tende a ignorare, e quindi alla fine a eliminare, molti elementi della comunità terrestre [costituita da flora e fauna, N.d.R.] privi di valore commerciale, ma che sono (per quanto ne sappiamo) essenziali al sano funzionamento della comunità. Suppone, erroneamente, che le parti economiche del meccanismo biotico possano funzionare in mancanza delle sue parti di tipo non-economico». Uno degli esempi più evidenti è il fatto che «la fertilità è la capacità del suolo di ricevere, immagazzinare e rilasciare energia. L’agricoltura, attraverso l’eccessivo sfruttamento del suolo, o la sostituzione troppo radicale di specie indigene con altre [...], può sconvolgere i canali di flusso o esaurire le scorte. I terreni impoveriti delle loro scorte, o della materia organica che le àncora, vengono dilavati più rapidamente di quanto si formino. Questa è l’erosione» (che è appunto uno dei principali drammi possibili nel settore agricolo e che – se non viene fermata e invertita e la si lascia proseguire – finisce col portare a casi di vera e propria desertificazione, come quelli che stavano all’origine di quelle tempeste di sabbia). Tra l’altro, pure in questo discorso il termine “economia” tendeva a significare – per lo più – “economia di breve termine”, in quanto anche allora per molti investitori finanziari era soprattutto nel breve termine che si valutava la profittabilità dei loro investimenti economici.
Colpisce come Leopold, vivendo negli Usa, sottolineasse la stessa cosa che sottolineava Keynes in Gran Bretagna una quindicina d’anni prima (e che già negli anni ’70 del secolo precedente mettevano in esplicita evidenza Marx ed Engels parlando di tematiche socio-culturali generali): l’esigenza – che ormai stava diventando una vera e propria necessità sempre più evidente e indiscutibile – di abbandonare l’idea che l’economia sia strutturalmente più importante della natura, della scienza, dell’etica, dell’estetica, e questo perché per la società umana nel suo insieme si tratta di un’idea radicalmente distruttiva (che rimane tale anche se per gli individui dei gruppi sociali privilegiati – grazie alle loro possibilità economiche e logistiche solitamente molto maggiori della media – tendono a esserci quasi sempre delle relative vie d’uscita e dei possibili sbocchi tramite i quali sfuggire di volta in volta agli effetti distruttivi che si concretizzano localmente qua o là...). Anche questa strutturale divaricazione di idee (e ovviamente anche di comportamenti concreti) può essere considerata un aspetto nodale dei contrasti di fondo che finiscono pressoché inevitabilmente con lo svilupparsi tra le forme di pensiero e di cultura autenticamente dialettiche (aperte alla complessità della vita, antidogmatiche, orientate verso l’indagine scientifica, fondamentalmente inclusive) e le forme intrinsecamente dualiste (semplicistiche, facilmente egocentriche ed esclusiviste, tipicamente autoritarie e tendenti al dogmatismo) [92].
La situazione ambientale complessiva è poi peggiorata ulteriormente durante la seconda metà del ’900, col crescente conflitto tra l’atteggiamento affarista e alquanto menefreghista solitamente predominante tra i dirigenti di varie forme di industria (tra le quali specialmente quella chimica e quella energetica) – pronti a inquinare in maniera consistente aria, acqua e suolo senza tante remore – e le consapevolezze sempre più nitide e documentate che si sono andate sviluppando sia nel campo dell’ecologia che in quello della medicina preventiva e che però sono arrivate quasi sempre in netto ritardo rispetto alla gravità dei danni già arrecati alla salute della collettività e all’ambiente, come ha messo in particolare evidenza già nei primi anni ’60 Rachel Carson in Primavera silenziosa (Feltrinelli, 1963). Uno degli aspetti principali di questo conflitto ha visto i nuovi comparti industriali dei pesticidi e dei diserbanti – entrati progressivamente a far parte di un vero e proprio “sistema agroindustriale” basato generalmente sulle monocolture e su un enorme uso non solo di quelle due classi di prodotti chimici fortemente tossici ma anche di fertilizzanti sintetici e di irrigazione – contro le varie correnti dell’agricoltura ecologica, spesso sottoposte dai vertici di quel sistema a un vero e proprio “attacco sotterraneo” pieno di falsificazioni, privo di scrupoli e fondato sul potere del denaro (come hanno denunciato in modo particolarmente chiaro ed espressivo Robert van den Bosch e Jean-Paul Aeschlimann in La minaccia dei pesticidi, Muzzio, 1989). Come l’agroindustria, anche la crescente deforestazione (favorita dall’invenzione di macchinari sempre più potenti per l’abbattimento, il taglio e il trasporto di alberi di qualsiasi dimensione e per la costruzione di ampie strade pressoché in qualsiasi parte del mondo), l’assottigliamento dello strato di ozono che nell’alta atmosfera protegge la vita terrestre da una serie di radiazioni di origine solare (e che viene danneggiato dalla diffusione atmosferica di certe sostanze inquinanti come specialmente i clorofluorocarburi, o Cfc) e la comparsa dell’effetto serra (con le sue crescenti alterazioni climatiche) sono divenuti delle vere e proprie “spade di Damocle” pendenti sul benessere – e non di rado sulla vita stessa – di molte specie viventi, inclusa sempre più anche l’umanità.
Data la crescente violenza con cui si stanno esprimendo tali alterazioni, vale la pena di mettere in risalto che da diversi decenni autori come soprattutto Masanobu Fukuoka e James Lovelock hanno sottolineato un importante aspetto degli ecosistemi che purtroppo rimane ancora scarsamente noto: il fatto che tra le tante “funzioni” degli alberi vi è anche, specialmente quando questi sono raggruppati per lo meno in boschetti di latifoglie, il favorire forme di piovosità diffuse e moderate – particolarmente vantaggiose per l’agricoltura e per gli equilibri idrogeologici – grazie alla capacità di evapotraspirazione degli alberi stessi, che con le radici possono assorbire l’acqua delle falde sotterranee e rilasciarla con continuità nell’atmosfera attraverso le foglie durante la bella stagione, inducendo anche correnti d’aria umida che stimolano ulteriormente quel tipo di piovosità (e che tendono a sfavorire quindi il verificarsi di quelle intensissime piogge torrenziali – oggi spesso definite come “bombe d’acqua” – che possono scatenare molto più facilmente eventi pesantemente dannosi come straripamenti dei corsi d’acqua, smottamenti, ecc.). Parallelamente a questo, ne viene facilitata anche una certa formazione di bianche nubi riflettenti che contribuiscono a mantenere più fresco l’ambiente locale: una cosa che appare fondamentale nelle zone climatiche subtropicali, tropicali ed equatoriali e che può essere comunque molto significativa, durante i mesi estivi più caldi, anche in diverse regioni temperate [93].
Col tempo, anche varie istituzioni scientifiche ufficiali internazionali – come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), diverse agenzie dell’Onu, tra le quali in particolar modo lo United Nations Environmental Programme (UNEP), e a partire dagli anni ’90 anche l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – hanno riconosciuto la correttezza delle principali analisi e proposte sviluppate dai movimenti ambientalisti. Si trova ad esempio in Il nostro pianeta, la nostra salute, un vasto rapporto pubblicato dall’Oms nel 1992 (e apparso in italiano in quello stesso anno per gli Editori del Grifo): «L’industrializzazione ha provocato molti cambiamenti» anche positivi, ma «in troppi casi il rischio ambientale è stato trascurato o è stato individuato con troppo ritardo causando la perdita di vite umane, danni fisici o malattie». In tal modo, «l’industrializzazione ha avuto e continua ad avere un impatto significativo sulla salubrità ambientale in gran parte dei paesi». «Allo stesso tempo essa ha determinato un grande aumento nella domanda di risorse non rinnovabili superando la capacità dei sistemi naturali di assorbire i rifiuti delle industrie e della società industriale», oltre a favorire il rischio di un progressivo esaurimento di tali risorse. Nell’insieme, «in assenza di un’azione governativa che controlli l’inquinamento ambientale, garantisca la salute, la sicurezza sul posto di lavoro e una buona qualità dell’ambiente di vita, la crescita del prodotto industriale può accompagnarsi a un peggioramento della salute pubblica», in particolar modo a causa delle «emissioni di agenti inquinanti». Per quanto riguarda specificamente l’agricoltura, «la risposta più comune al crescente problema degli organismi infestanti delle coltivazioni è l’uso di pesticidi [94]. Il risultato è stato la distruzione degli ecosistemi con la morte di specie innocue, l’accumulo di residui dei pesticidi nell’ambiente e nel cibo e lo sviluppo della resistenza ai pesticidi nelle specie nocive». Inoltre, «diversi pesticidi, particolarmente erbicidi, sono stati ritrovati nell’acqua potabile» [95]. Anche gli ampliamenti generalizzati degli «schemi di irrigazione, particolarmente ai tropici, portano con sé il grande rischio di introdurre o aumentare la diffusione di malattie portate da vettori associati con l’acqua», come per esempio «la schistosomiasi, la malaria, l’oncocercosi e l’encefalite giapponese B». A loro volta, «le foreste hanno [...] una importante funzione protettiva, specialmente ai tropici. Gli alberi proteggono i suoli dall’erosione, migliorano la fertilità [...], proteggono le coltivazioni [...] e sono una fonte importante di cibo animale». Molti «terreni forestali [...] hanno suoli poveri che, una volta denudati della copertura protettiva, si erodono facilmente» [96]. Dal punto di vista agricolo, con la «deforestazione il rilascio dell’acqua piovana diviene più irregolare e le riserve di acqua per le irrigazioni ne vengono minacciate. La deforestazione su vasta scala nei bacini imbriferi dei grandi fiumi è ampiamente riconosciuta come responsabile di grandi inondazioni nelle pianure a valle, causa della perdita di vite umane e coltivazioni e della distruzione delle proprietà». E riguardo al “buco nell’ozono” l’Oms notava con relativa soddisfazione che «le iniziative internazionali vanno nella direzione di una riduzione concordata dell’uso di Cfc e altri componenti con azione simile sull’ozono stratosferico [...]. Questi sforzi devono essere ampiamente sostenuti, dato che il recupero dell’integrità dello strato di ozono eviterà effetti nocivi non soltanto sulla salute umana ma, cosa più importante, su numerosi sistemi [biologici ed ecosistemici, N.d.R.] che sostengono il ciclo vitale e che non possiedono altra protezione dalle radiazioni ultraviolette».
Il rapporto ha anche richiamato le prime conclusioni delle ricerche realizzate dall’IPCC sull’effetto serra (che ha dato luogo a preoccupanti e fosche previsioni climatiche per il futuro ed è risultato associato primariamente all’uso di combustibili fossili e secondariamente ad una serie di altre cause di fondo come specialmente l’uso di Cfc, l’abuso agricolo di fertilizzanti azotati e gli allevamenti intensivi) e pure dal punto di vista socio-economico ha messo in luce delle questioni cruciali: A questo proposito si è sottolineato in particolare che lo status sociale e il reddito disponibile «sono tra i fattori determinanti per la salute, quindi possiamo dire che il ricco vivrà più a lungo e meglio del povero. Differenze maggiori si riscontrano» nei paesi in via di sviluppo, dove in generale «i benestanti vivono almeno 20-30 anni più dei poveri» e «la percentuale di bambini che muoiono prima di raggiungere l’età di cinque anni è 40 volte superiore tra i poveri rispetto ai ceti ricchi. Le stesse disparità sono evidenti anche nei paesi industrializzati, anche se in forma minore; i ceti ricchi hanno sistemi di cura e prevenzione migliori e più avanzati, mangiano meglio, tendono a fumare meno ed hanno l’opportunità di vivere lontano dalle zone industriali e ad alto livello d’inquinamento. [...] È inoltre rilevante il fatto che i paesi con indicatori sanitari superiori alla media, rispetto al loro reddito pro-capite, siano quelli in cui la ripartizione delle entrate è più equa. Nei paesi industrializzati più ricchi influisce molto di più sul livello medio di vita la disparità nella distribuzione dei redditi che non il reddito medio stesso»...
In questo inizio di terzo millennio, nonostante il coagularsi di movimenti – anche politici – che lottano per la tutela dell’ambiente, della salute e della natura [97] e nonostante alcuni miglioramenti normativi ottenuti nelle varie parti del mondo grazie a queste lotte e alle ormai solide consapevolezze scientifiche riguardanti molte tematiche ambientali e climatiche (lotte e consapevolezze cui però in tanti casi le élite politiche continuano a fare il più possibile “orecchie da mercante”, sotto la spinta interessatissima e munifica di una serie di lobby industriali...), stanno letteralmente esplodendo diverse contraddizioni ecosistemiche. Tra queste le più laceranti appaiono essere l’effetto serra (riguardo al quale la lobby dei combustibili fossili continua a fingere palesemente che non esista o che non significhi praticamente nulla...), la progressiva distruzione delle foreste pluviali e boreali – che proteggono in maniera nodale la vitalità degli ecosistemi nelle rispettive fasce climatiche – e l’inquinamento dei mari (nei quali vi è ormai un’enorme e sempre più pericolosa diffusione sia di plastiche e microplastiche sia di sostanze pesantemente tossiche come ad esempio i pesticidi, di modo che attraverso le catene alimentari una grandissima percentuale degli esseri viventi finisce in pratica con l’esserne inquinata più o meno gravemente nel proprio organismo stesso). Oltre tutto, come si sta scoprendo sempre più negli ultimi decenni, le foreste hanno anche una significativa funzione di salvaguardia diretta e indiretta nei confronti dell’effetto serra: diretta perché inglobano dall’aria ampie quantità di anidride carbonica, o CO2 (che attualmente è di gran lunga il più importante dei cosiddetti “gas-serra”); indiretta perché, soprattutto nelle fasce climatiche qui appena ricordate, rinsaldano e stabilizzano appunto in varie maniere gli ecosistemi locali, contribuendo fortemente in tal modo ad evitare il prodursi di “circoli viziosi” climatico-ambientali che espandono ulteriormente la tendenza al riscaldamento globale della Terra [98].
A parte queste contraddizioni operanti in sostanza su scala planetaria, oggi nel mondo gli ambienti naturali che più frequentemente sono oggetto localmente di uno scontro epocale tra i loro difensori e i loro potenziali sfruttatori indiscriminati sono probabilmente – oltre appunto alle foreste – il fondale dei mari non molto profondi e, come è visibile in modo particolarmente facile, le pianure. Le foreste, nonostante il loro ruolo essenziale per temi basilari come la biodiversità, gli equilibri climatici, l’ossigenazione stessa dell’atmosfera e in molti casi la vitalità dei terreni locali, sono bramate da una serie di interessi economici pronti a divorarle (dall’industria del legname a quella mineraria, dall’allevamento estensivo all’agroindustria tropicale, ecc.), molto spesso con lo stesso spirito avido e distruttivo che avevano quei «piantatori spagnoli a Cuba» menzionati da Engels... Il fondale di quei mari è pesantemente colpito da un particolare settore della grande industria coinvolta nella pesca: quello prontissimo a utilizzare grossi e potenti pescherecci con grandi e lunghissime “reti a strascico” allo scopo di accrescere il suo fatturato, e ciò anche se queste reti devastano i fondali e i loro ecosistemi e lasciano dunque dietro di sé anche la tendenza ad un grave impoverimento delle future risorse ittiche locali [99]... Le pianure sono per l’umanità la principale fonte di cibo, grazie all’agricoltura, ma ci sono continui tentativi sia di cementificarle il più possibile (per costruire industrie, quartieri urbanizzati, strade, ecc.), sia di praticare forme di agricoltura che mettono in pericolo la fertilità della terra e inquinano il terreno, le acque e i raccolti stessi (come fanno appunto le monocolture accompagnate da un grande uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici), sia di sostituire le colture alimentari con altre di utilità industriale – per produrre combustibili, oli per macchinari, ecc. – innescando quindi una riduzione della produzione complessiva di derrate alimentari e conseguentemente una tendenza all’aumento del loro prezzo sul mercato internazionale (tendenza che sta mettendo ancor più in difficoltà in molti paesi i ceti sociali più poveri, già estremamente tartassati in generale dal predominio dell’orientamento politico-economico neoliberista). Nel mondo, proprio diverse pianure continuano a essere da decenni anche una sorta di indiscusso reame dello smog atmosferico (con un conseguente profluvio di gravi malattie e con una mortalità seccamente accresciuta rispetto ad altre regioni), perché in pratica da un lato i vertici aziendali di vari settori industriali diffusisi in tali pianure se ne fregano altamente delle cosiddette “esternalità” ambientali e sanitarie collegate correntemente a quei settori e dall’altro lato – cosa ancor più importante – le élite politiche preferiscono di gran lunga seguire e sostenere gli interessi economici immediati dei vertici in questione piuttosto che le esigenze della popolazione locale e dell’ambiente. In tal modo, queste élite cercano tipicamente di evitare – o almeno di rallentare il più possibile – il fatto che le pubbliche istituzioni richiedano con rigore a tali vertici di ricorrere a delle tecnologie più “pulite” (che in gran parte dei casi sono anche più costose, o comunque richiedono dei significativi costi di ristrutturazione degli impianti, e inoltre implicano molto spesso la fine di eventuali “vecchie” rendite di posizione associate a situazioni oligopolistiche, come ad esempio quella dei paesi “produttori di petrolio”, e hanno dunque l’effetto tendenziale di ridurre per un verso o per l’altro i profitti correnti di quei settori) [100]...
In accordo appunto con gli interessi di breve termine delle élite dominanti, l’attuale “cultura di massa” – attraverso ciò che essa mette in risalto e i modelli che propone – spinge indirettamente la gente ad una sostanziale ignoranza su tutta questa tematica ambientale e sanitaria, oltre a spingerla in generale verso il “solito” banale conformismo e la “solita” superficialità, e anche quando in qualche programma televisivo o articolo di stampa loda delle persone che proteggono la natura e i suoi equilibri le tratta comunemente come fenomeni marginali, tipicamente locali e simpaticamente rurali: personaggi pittoreschi, insomma, amabilmente creativi e magari anche utili nel loro specifico luogo di vita, ma pressoché privi di rapporti concreti con la vita quotidiana delle masse urbanizzate, che dovrebbe restare invece sia sostanzialmente governata da un superficiale e conformistico consumismo, sia legata strettamente a un’industrializzazione di fondo sempre “calata dall’alto”...
Questa sostanziale involuzione culturale mira a mantenere appunto le masse superficiali, ignoranti e prive di uno spiccato e fattivo interesse per l’ambiente a dispetto delle grandissime conoscenze oggi esistenti sull’importanza dell’ambiente stesso per il benessere umano, non solo dal punto di vista concreto (inclusa la prevenzione di molte malattie, favorite chiaramente dall’inquinamento o dagli squilibri climatici) ma anche dal punto di vista spirituale ed emozionale (che tende a essere nutrito e positivamente “spinto in alto” da un ricco rapporto tra cultura umana e mondo naturale). Ed è un’involuzione che pare aver avuto un notevole successo pratico, visto che rispetto a 90 o 100 anni fa abbiamo sì molte più consapevolezze scientifiche sulle dinamiche dell’ambiente e degli ecosistemi e molte più risorse disponibili per intervenire nella tutela ambientale, però per tale tutela si finisce spesso col fare parecchio di meno di allora... Basti vedere come sia peggiorata nettamente in Italia e in altri paesi industrializzati la protezione dagli straripamenti fluviali, sotto la continua pressione di un’affaristica e spesso incontrollata “sete di territorio” edilizia, industriale, stradale e agricola (che per poter prendere concretamente piede ha bisogno comunque di avere un esplicito appoggio da parte degli amministratori pubblici, o per lo meno di essere tollerata da questi ultimi in modi generalmente pilateschi, furbeschi e clientelari che di solito si basano sulla “tecnica” delle famose tre scimmiette che si coprono rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca...) [101] e a seguito della scarsa disponibilità di molti politici a investire quantità significative di denaro pubblico per lungimiranti fini ecologici. È una scarsa disponibilità che trae una grande spinta sia dal fatto che questi fini, per le loro caratteristiche, consentono generalmente poco spazio alle forme di corruzione, di affarismo e di clientelismo che costituiscono di fatto per non pochi politici il principale motore della loro attività, sia dagli “ossessionanti” concetti neoliberisti di far pagare meno tasse possibili ai ricchi e di insistere pubblicamente sulla pericolosità economica della spesa pubblica di tipo sociale – o ambientale – condotta in deficit. A tal proposito si tenga conto che in realtà dietro a quest’insistenza non c’è il fatto che tale spesa sia effettivamente così pericolosa per la società nel suo complesso e per i suoi equilibri, dal momento che un funzionamento “normalmente efficace” del cosiddetto “moltiplicatore economico keynesiano” dovrebbe far recuperare rapidamente alla P.A. in modo pressoché automatico gran parte o addirittura la totalità di quel deficit, ma c’è il fatto che è socialmente pericoloso per le élite privilegiate e per i neoliberisti che le classi lavoratrici si rendano ampiamente e lucidamente conto di due questioni che sono divenute politicamente cruciali durante l’ultimo mezzo secolo: la prima, dunque, è che non è affatto vero che secondo le leggi fondamentali dell’economia le spese sociali o ambientali della P.A. debbano essere limitate rigidamente in base a delle inflessibili regole di bilancio pubblico; e la seconda è che, quindi, gran parte delle politiche di “austerità” che nei vari paesi sono state spacciate per necessarie in questi decenni dai politici destrorsi o centristi non aveva niente di realmente necessario, ma era semplicemente una scusa per porre maggiormente sotto il tallone di quelle élite le classi popolari (ci sono state anche alcune situazioni in cui un po’ di austerità poteva avere un senso effettivo, ad esempio quando nel commercio internazionale di certe materie prime i “paesi produttori” hanno voluto avviare un “braccio di ferro” sul piano economico con i “paesi consumatori” e hanno innalzato clamorosamente i prezzi di vendita di quelle materie, ma in linea di massima le altre “politiche di austerità” erano soltanto una costruzione artificiosa e fasulla a favore delle “solite” élite, nazionali e/o internazionali a seconda dei casi). Per questo l’esistenza di quel moltiplicatore – normalissima e per gli economisti quanto mai evidente e ormai scontata – viene ignorata pubblicamente e fatta passata sotto rigoroso silenzio dai neoliberisti [102]...
A ulteriore conferma di quel successo pratico, basti vedere parallelamente come sino a ora non si sia adeguatamente evoluto e sviluppato col tempo l’impegno dei governi contro i drammi ambientali esplosi negli ultimi decenni, come appunto l’effetto serra, l’inquinamento dei mari e l’abbattimento delle foreste pluviali e boreali, un abbattimento che di primo acchito potrebbe forse sembrare una questione limitata in sostanza a certi paesi specifici, ma invece riguarda fortemente l’intero pianeta, attraverso la biodiversità, gli squilibri climatici e la ricchezza culturale stessa delle popolazioni forestali in questione (incluse le loro interessantissime e vitali forme tradizionali di conoscenza dell’ambiente locale e delle sue potenzialità dal punto di vista umano, tra le quali emergono spesso anche delle valenze terapeutiche attraverso generalmente l’impiego di particolari piante del luogo).
Una vera e propria guerra di una parte dei “grandi ricchi” contro tutti gli altri esseri umani (e contro l’attuale ecosistema planetario).
1. Al cuore del “problema”
L’attuale precipitare dell’effetto serra – e degli sconvolgenti cambiamenti climatici a esso associati – è particolarmente emblematico per quanto riguarda i significati profondi acquisiti dal neoliberismo. Un testo molto documentato come Insieme per salvare il pianeta - Obiettivi comuni contro il cambiamento climatico (Baldini+Castoldi, 2022) – realizzato dal Dalai Lama Tenzin Gyatso e da Greta Thunberg con la diretta partecipazione anche di diversi scienziati e attivisti – cita tra le altre cose la seguente osservazione di Kerry Emmanuel, del celebre Massachusetts Institute of Technology (MIT): «In pratica, l’emissione di gas serra è un esempio di fallimento del mercato. Perché le aziende trasferiscono i costi effettivi delle loro attività sulle persone che non sono coinvolte in quelle attività, il che significa la maggior parte di noi» [103]. E si commenta nel libro: «Questo fallimento del mercato è ancor più inutile sapendo che, in quasi tutti i settori della nostra economia, disponiamo già della tecnologia e delle conoscenze necessarie a convertirci a fonti di energia alternative che non producono gas serra. Dobbiamo solo avere la volontà di farlo»...
A margine di questo commento si potrebbe aggiungere che da svariati punti di vista (prospettico, progettuale, filosofico, sociale, oltre che ovviamente ambientale) si tratta di un’inutilità effettivamente non solo palese ma anche estrema e controproducente, però da un punto di vista strettamente incentrato sulla gestione del potere decisionale nell’ambito della società e sulla distribuzione dei redditi è un atteggiamento che appare in effetti difficilmente definibile come “inutile”, dal momento che consente alla categoria dei “petrolieri e simili” di continuare ad accumulare intensamente ricchezze e potere senza doversi neanche sforzare di inventare qualche nuova e innovativa tipologia di investimento (e senza neppure dover cercare di smettere di fare cose come inquinare il mondo intero e stravolgere con questo inquinamento gli equilibri ambientali e climatici del pianeta e la vita di innumerevoli popolazioni...). Ed è un discorso che, tra l’altro, potrebbe essere fatto anche per parecchie altre delle problematiche concrete che in vari tempi e luoghi risultano associate ai “fallimenti del mercato”: più che segnali di ignoranza, di banale incompetenza o di mera e miope superficialità, in molti casi sono delle scelte sostanzialmente deliberate con cui degli esponenti delle classi privilegiate mirano a sfruttare il più possibile certe situazioni per ricavarne ricchezze e/o forme di predominio e di potere...
Più in generale, le problematiche concrete collegabili all’uno o all’altro dei “fallimenti del mercato” sono in molte circostanze – e specialmente da quando si è cominciato a studiare e analizzare in modo ampio tali fallimenti e a parlarne pubblicamente – il frutto di una volontà deliberata delle forze sociali dominanti, che preferiscono che di certe problematiche emerse nella vita sociale non ci sia nessuno a occuparsene in modo strutturale e profondamente efficace, perché dall’esistenza di quelle problematiche riescono appunto a trarre in una maniera o nell’altra vantaggi, guadagni, facilitazioni, ecc… In breve, poiché i “fallimenti del mercato” costituiscono ormai da tempo un argomento ben noto agli economisti e nell’insieme sono ampiamente studiati, analizzati e discussi da almeno un secolo [104], in realtà se i loro effetti sussistono ancora nella vita sociale concreta è solo perché le forze sociali dominanti non vogliono che si trovino soluzioni a quei fallimenti e ai loro effetti – soluzioni che, non essendo appunto il mercato in grado di costruirle, dovrebbero ovviamente aver luogo attraverso iniziative sostanzialmente esterne al mercato stesso e collegate a dimensioni della società come la P.A. o qualche forma di economia comunitaria – e quindi pretendono (solitamente sapendo benissimo di mentire, a meno che non si tratti di qualcuno che è estremamente ignorante in campo economico) che continui a essere il mercato il “luogo” dove cercare una soluzione a tali effetti... È proprio questo in pratica il modo di agire del neoliberismo: finge che nella sfera sociale e in quella ambientale il mercato possa risolvere questa o quella questione che in realtà fa notoriamente parte dei “fallimenti del mercato” e insiste pubblicamente e ripetutamente sul fatto che per tutto quello che ha a che fare con tali sfere il mercato sia una sorta di meravigliosa panacea, pur sapendo benissimo che non è affatto così (ma l’importante è che l’opinione pubblica ci creda quel tanto che basta da non mettersi a ostacolare intensamente i propositi dei neoliberisti, che nel “guanto di velluto” del consumismo e del mercato incensato pubblicamente come grandissimo amico di tutti nascondono il “pugno di ferro” della precarietà lavorativa, della catena di montaggio, delle varie “esternalità”, delle delocalizzazioni, dell’austerità, ecc...). Oltre tutto, l’efficacia ottenibile da quelle soluzioni esterne al mercato non farebbe che dimostrare all’intera opinione pubblica – anche nel presente – sia il valore intrinseco che può esserci nell’azione anche economica della P.A. e/o nell’economia comunitaria [105], sia il potere positivo che possono avere la vita politica democratica e l’azione collettiva specialmente quando vi è una spiccata, attenta e ben informata partecipazione popolare: tutte cose che il neoliberismo aborre in quanto mira a una società impostata in modo elitario, estremamente classista e tendenzialmente gerarchico...
Nel contempo, su un piano più specifico, ci si può certo chiedere anche quanto serva in realtà agli attuali petrolieri accumulare ulteriori ricchezze e potere quando ne hanno accumulati già in così grande quantità durante l’ultimo secolo (e tanto più in un mondo che stanno pesantemente contribuendo a inquinare e devastare in maniera costantemente crescente e ormai esplosiva, proprio a seguito dell’esasperata insistenza mondiale sui combustibili fossili che essi continuano a promuovere sottobanco in vari modi molto pressanti) [106]... In effetti, a quanto suggerisce con molta forza l’esperienza storica, uno dei drammi umani che sono tipici delle società fortemente diseguali e/o gerarchiche è che col tempo molti di coloro che nella scala sociale di tali società stanno in alto perdono letteralmente il senso del discernimento e dell’intelligenza e diventano preda di una vera e propria ossessione patologica per la loro posizione sociale privilegiata ed eventualmente per il potere che possono – o potrebbero – ricavarne, al punto che quella posizione, i suoi vantaggi materiali e spesso anche una continua espansione di questi ultimi finiscono in pratica col diventare l’unica cosa che veramente conti per quelle persone, con effetti complessivi che finiscono spesso col rivelarsi dapprima distruttivi (per altre persone e per diversi aspetti della natura e dell’ambiente) e poi anche autodistruttivi.
Uno dei tanti paragrafi di Insieme per salvare il pianeta si concentra sul Giappone, dove l’anticipo con cui stanno fiorendo rispetto al passato i suoi famosi ciliegi è diventato uno dei simboli delle sempre più colossali perturbazioni che l’effetto serra sta portando con sé. Altri simboli – molto più concreti e palesemente dolorosi – ne sono l’innalzamento dei mari che procede man mano che si sciolgono le calotte polari (con l’acqua salata che in modo crescente ricopre coste e territori e s’infiltra nelle falde sotterranee di acqua dolce), gli uragani tropicali che devastano regioni che mai li avevano visti prima e gli altri estremi climatici che ogni anno si abbattono con tragica intensità su aree del mondo sempre più vaste (tra siccità e incendi boschivi, tempeste e inondazioni, ondate di caldo e di freddo, ecc.) e la presenza di specie animali oramai in pericolo nelle regioni artiche, come le renne che muoiono affondando nel fango dove prima c’era il ghiaccio o gli orsi bianchi che vedono il loro habitat restringersi sempre più... In particolare, nel libro si sottolinea che, «nel 2019, il Giappone ha vissuto la sua stagione di tifoni più costosa [...]. Inoltre, ci sono ondate di caldo estremo con gravi conseguenze per la salute delle persone e continue piogge da record, in cui le autorità devono evacuare intere regioni, e che continuano a causare vittime. Le tempeste che danneggiano le infrastrutture in Giappone nuocciono in particolare alle aziende giapponesi e ai loro dipendenti. Anche l’agricoltura soffre di queste condizioni meteorologiche. Le piogge estreme e i tifoni causano danni sempre più gravi anno dopo anno». Come effetto di tutto questo, ormai «i giapponesi prendono quindi molto sul serio i cambiamenti climatici. Hanno capito che coinvolgono le loro vite, la loro esistenza e il loro futuro». Tra le nazioni molto popolate e fortemente industrializzate, l’arcipelago giapponese per la sua posizione geografica è probabilmente il luogo dove i cambiamenti climatici associati all’effetto serra sono più spiccati e più facilmente identificabili come tali, ma anche in molte altre parti del mondo la gente vive molto intensamente delle problematiche simili, a seguito soprattutto dei crescenti estremi climatici. Per di più, le prospettive scientifiche per il futuro sono sempre più spiacevoli, considerato anche che recentemente si sono scoperti numerosi meccanismi della biosfera che si autoalimentano e che influenzano il clima in senso equilibrante o squilibrante a seconda dei casi (si tratta dei meccanismi noti come “cicli di feedback climatico”, i principali dei quali riguardano il permafrost artico, le foreste, l’albedo, le correnti atmosferiche e oceaniche e il vapore acqueo disperso nell’atmosfera, come si illustra ampiamente nel libro in questione): ora, il fatto è che i più rilevanti di questi cicli stanno attualmente funzionando tutti nel senso dello squilibrio, il che significa una marcata tendenza all’accelerazione delle distorsioni climatiche rispetto alle previsioni di una decina d’anni fa.
Nonostante l’evidente drammaticità della situazione – evidente ormai praticamente in qualsiasi paese del mondo – i neoliberisti continuano a insistere su posizioni attendiste e incentrate sul mercato, secondo le quali si dovrebbe continuare a lasciare in gran parte a quest’ultimo le scelte concrete sull’interazione tra umanità e clima planetario. È in sostanza la stessa posizione che i neoliberisti hanno nei confronti anche di quasi tutti gli altri “fallimenti del mercato” (con l’eccezione dei rari casi in cui essi vanno a pesare molto ampiamente anche sui “grandi ricchi”, o addirittura principalmente su di essi): far finta che quei fallimenti non esistano e che il mercato sappia rispondere efficacemente alle esigenze umane e naturali anche nei campi collegati alla sfera economico-tecnologica che sono caratterizzati invece da tali fallimenti (in quei rari casi, invece, anche i neoliberisti chiedono generalmente corposi interventi statali asserendo che sono in ballo problematiche talmente grosse che è giusto che eccezionalmente se ne occupi anche la P.A....) [107].
Se all’inizio del concreto fenomeno neoliberista, negli scorsi anni ’80, poteva trattarsi semplicemente di una nuova fase della plurisecolare “lotta di classe” condotta contro i lavoratori da un’ampia parte della borghesia (e specialmente della sua frazione più ricca), allo scopo di conservare ed espandere i propri privilegi e il proprio comando sulla società dopo i possenti risultati ottenuti dai movimenti dei lavoratori in molte parti del mondo negli anni intorno al ’68, oggi la questione ha acquisito significati molto più complessi, vasti, dirompenti, tragici e generali. Non si tratta più di un “semplice” attrito tra classi per spartirsi in una certa maniera o in un’altra piuttosto diversa il reddito prodotto nel pianeta, le risorse disponibili e le “posizioni di potere” esistenti nella società. Oggi questo “attrito” ha innescato e prodotto conseguenze sempre più distruttive e devastanti. E forse all’inizio i neoliberisti hanno messo in moto queste conseguenze senza neanche rendersene pienamente conto, ma – ora che esse sono intensamente in atto e a loro volta generano ulteriori conseguenze spesso estremamente spiacevoli e dolorose – il rifiuto neoliberista di cambiare strada, di riconoscere la necessità di correggere radicalmente la propria rotta e di ammettere l’inadeguatezza complessiva dell’approccio liberista alla società (e tanto più alla società tecnologicamente e scientificamente avanzata che ha avuto inizio in pratica nei primi decenni del ’900, con l’approfondirsi della chimica e della biologia, con la rivoluzione portata nella fisica dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica, con l’avvio di industrie come quelle aeronautica e automobilistica e di discipline come la dietologia e la psicoanalisi, ecc. ecc. ecc.) sta diventando una deliberata forma di brutale distruzione del tessuto sociale ed ecosistemico planetario. Non a caso, le due guerre mondiali che hanno avuto luogo tra il 1914 e il 1945 hanno avuto stretti legami con l’intensa concorrenza economica internazionale favorita dal liberismo, essendo anche fortemente collegate tra loro attraverso il meccanismo economico dei “danni di guerra” richiesti all’intera nazione tedesca dai principali governi che avevano vinto nel 1918, cioè quelli di Francia, Gran Bretagna e Usa, mentre negli ultimi decenni il ritorno di una predominante – e socialmente asperrima – ideologia liberista ha letteralmente impedito che la fine della “guerra fredda” portasse finalmente con sé la tendenza a una collaborazione pacifica e universalmente proficua tra le popolazioni delle varie parti del mondo, spingendole invece a innumerevoli conflitti locali tra varie élite (o aspiranti tali) per il controllo sulle risorse, sulle rotte commerciali mondiali e sullo sfruttamento della manodopera lavoratrice [108]... A sua volta, la distruzione in atto appare intimamente motivata e giustificata da una sorta di “delirio di onnipotenza” dei “grandi ricchi”, gran parte dei quali a quanto pare si ritiene praticamente intoccabile e al di sopra di tutto – grazie alle proprie ricchezze, a una grande fiducia nelle moderne tecnologie cui si può fare ricorso con la ricchezza e all’acume che molti di essi attribuiscono a se stessi e che, però, appare solitamente essere molto più un effetto dell’attuale sistema economico (che tende ad associare un grande e roboante valore alle capacità che risultano pienamente compatibili con le caratteristiche principali del sistema stesso) e soprattutto delle possibilità pratiche derivanti dalle loro ricchezze... – e considera i propri colossali privilegi la cosa di gran lunga più importante al mondo [109].
Tra l’altro, l’aspetto di questo atteggiamento che appare probabilmente il più eclatante è l’estrema mancanza d’amore per gran parte degli altri esseri umani e per la natura nel suo insieme. E colpisce che questa egocentrica – e alla fin fine sostanzialmente patologica – anaffettività e questo miope e superficiale antropocentrismo stiano in pratica dirigendo e governando l’andamento del mondo senza che, sino ad ora, quella grandissima parte dell’umanità che ne è ferita e danneggiata riesca effettivamente a opporsi e a incidere con forza su tale andamento [110].
2. Ulteriori particolari
Una delle cose principali che i neoliberisti tacciono riguardo al funzionamento concreto del mercato capitalistico lasciato tendenzialmente a se stesso – secondo appunto le loro indicazioni – è che in esso vige una sorta di legge darwiniana della sopravvivenza, ma non del “più adatto” (come si è compreso scientificamente che avviene in natura), né del “più forte” (come parecchi pensavano superficialmente 100 o 150 anni fa a proposito delle medesime “leggi di natura” o come poteva forse avvenire a volte nella società umana secoli fa nel periodo in cui in essa predominavano ampiamente le guerre all’arma bianca, le invasioni armate, ecc.), né del “più intelligente” (come alcuni sostenitori del mercato tendono fantasiosamente ad accreditare, sulla base di rari casi collegati ad esempio ai brevetti o alle particolari capacità gestionali mostrate effettivamente da certi dirigenti d’azienda), bensì in linea di massima semplicemente del “più ricco”, a patto che non sia proprio scriteriato... Ciò anche perché grazie a una massiva ricchezza si può comprare tutto quello che è vendibile (inclusi molti brevetti e l’opera non solo di lavoratori non particolarmente qualificati ma anche di lavoratori specializzati, di tecnici, di cosiddetti “esperti” che agiscano nel ruolo di avveduti consulenti, ecc. ecc.), così come si può guadagnare sulle difficoltà economiche di chi è meno ricco (ad esempio comprandone i beni – o il lavoro stesso – a prezzi che a causa di tali difficoltà saranno di fatto più o meno stracciati...), e via dicendo [111]. In altri termini, il mercato capitalistico lasciato tendenzialmente a se stesso non è affatto un luogo ricco di profondità intellettuale, di saviezza umana ed esistenziale, di lungimiranza, di capacità razionali, di equilibrio di fondo, ma è semplicemente il luogo dove ciò che tende a trionfare è la ricchezza, anche quando è gestita in modo becero, egocentrico, superficiale, affrettato e relativamente – ma non troppo – miope... I “fallimenti del mercato” sono proprio una delle migliori dimostrazioni di questo. Ed è vero che si tratta di un tipo di mercato che nel lungo periodo, attraverso le estreme oscillazioni e le giravolte concrete che conseguono da questa situazione, può portare con sé alcuni frutti positivi, ma il prezzo che si paga per questi frutti è non solo umanamente esagerato ed esasperato (come è stato notato da tantissime voci sin dagli albori del capitalismo, nei secoli ’700 e ’800), ma anche tendenzialmente insostenibile da quando le tecnologie disponibili all’umanità sono giunte ad avere potenzialità distruttive particolarmente grandi dal punto di vista ambientale (cioè da poco più di un secolo: basti vedere ad esempio le devastanti armi chimiche impiegate saltuariamente durante la prima guerra mondiale, per non parlare poi delle bombe atomiche utilizzate nella seconda, del brutale inquinamento chimico denunciato già più di 60 anni fa da autori come Rachel Carson, del diffuso smog, dell’effetto serra, ecc.). In altre parole, poiché tali frutti positivi non dipendono da quel particolare tipo di mercato ma semplicemente dalla presenza di un mercato capace di una certa efficacia e funzionalità, ciò significa che è quest’ultimo ciò che serve attualmente all’umanità, non il tipo specifico di mercato propagandato e raccomandato dai neoliberisti [112]...
Tornando all’effetto serra, si può aggiungere che la “popolazione comune” di molti paesi – sulla base sia della propria dolorosa esperienza di questi anni in merito ai mutamenti del clima, sia dei ben documentati appelli espressi da molti scienziati e poi rilanciati e divulgati da molteplici movimenti e associazioni ambientalisti – tenderebbe a prendere sul serio l’attuale emergenza climatica e a considerarla ormai decisamente impellente. Ma la grave e insensibile lentezza – o lo scarso senso sociale – con cui i governi e le élite economiche continuano a rispondere a tale emergenza fa sì che nei fatti la situazione del clima planetario peggiori sempre più anno dopo anno, e persino mese dopo mese, come registrano i centri studi che si occupano di meteorologia e di climatologia e come viene poi “ufficializzato” da strutture istituzionali internazionali come l’IPCC. In questo è cruciale il fatto, quanto mai palese e ovvio, che le vive preoccupazioni attuali della gente sono manifestamente e diffusamente inerenti non solo alla sfera climatico-ambientale, ma anche – e ancor più – a quella sociale, tra precarietà lavorativa, disoccupazione, basse retribuzioni, spesso servizi pubblici sempre più limitati, diffusi malesseri economici che poi sfociano frequentemente in pericolose forme di criminalità, ecc… Invece, i pochi governi che oggi danno l’impressione di cercare effettivamente di inserire tra i loro principali obiettivi il contribuire in modo rilevante al riequilibrio climatico lo fanno tipicamente senza voler incidere in modo sostanziale sulle dirompenti diseguaglianze sociali tipiche della società attuale (mostrando così un atteggiamento estremamente subalterno alle attuali élite economiche...): in tal modo, si tratta di tentativi governativi che stanno provocando paradossalmente – ma comprensibilmente – reazioni contrarie e spesso rabbiose in ampie parti delle classi popolari, visto che alla fin fine è principalmente su queste ultime che vanno a pesare i costi economici associati a tali tentativi. Alcuni evidenti esempi ne sono stati negli ultimi anni le proteste dei “gilè gialli” in Francia contro il presidente Macron, le proteste degli agricoltori in gran parte dell’UE contro i progetti della Commissione Europea in campo agricolo e le pesanti sconfitte registrate nelle recenti elezioni europee dai partiti governativi di diversi paesi (specialmente Francia e Germania, con un rilevante spostamento del loro elettorato verso destra).
Il neoliberismo sfrutta la globalizzazione neoliberista per ricattare sul piano nazionale, in ciascun paese, le classi popolari: se sotto la spinta di queste ultime il governo e/o il Parlamento del paese dovessero prendere provvedimenti considerevolmente spiacevoli per le élite economiche o se le rivendicazioni e le lotte sindacali dei lavoratori del paese dovessero raggiungere livelli ampiamente spiacevoli per le medesime élite, queste semplicemente – facilitate appunto dall’imperante deregolamentazione internazionale che caratterizza attualmente la sfera economico-finanziaria – non solo ridurranno drasticamente i loro investimenti nel paese, ma delocalizzeranno anche il più possibile le loro attività verso nazioni più prone agli interessi immediati di tali élite. In tal modo il paese in questione rischierà di fatto una pesante crisi economica e i lavoratori si ritroveranno molto più a rischio di disoccupazione, ecc. ecc… Dal punto di vista dei lavoratori è una sorta di pesante circolo vizioso, che si è stabilito in pratica quando a una crescente impostazione economica liberista che a partire dagli scorsi anni ’80 ha ridotto sempre più in quella sfera i controlli e le discrezionalità degli Stati (sia nell’ambito nazionale che nei rapporti tra i vari paesi) si è affiancata negli anni ’90 una nuova tendenza storica, praticamente inevitabile in quanto effetto degli enormi sviluppi tecnologici registratisi in settori come l’informatica, le comunicazioni e i trasporti, cioè la tendenza mondiale al costituirsi di un “mercato unico”. La facilità che ne è derivata per lo spostamento di attività produttive e di investimenti finanziari da un paese del mondo ad un altro ha portato con sé – per il principio dei “vasi comunicanti” oppure per la ben nota caratteristica storica secondo cui uno degli effetti della concorrenza priva di limiti efficacemente definiti è che “la moneta cattiva scaccia quella buona” – la tendenza a una “progressiva parificazione mondiale al ribasso” delle condizioni di vita dei lavoratori... E, assieme al piano sociale, l’altro piano che più brutalmente viene colpito da questa tendenza è generalmente per l’appunto quello ambientale.
Come si è già messo in evidenza nel 2018 in Quale economia oggi per il bene comune?, il passaggio-chiave per affrontare questa situazione in una maniera che risulti ampiamente positiva per le classi popolari e per l’ambiente planetario appare essere la disponibilità degli Stati sia a riprendere in mano degli spazi d’iniziativa dal punto di vista economico-produttivo, ad esempio nazionalizzando gli impianti economicamente funzionali che i proprietari vorrebbero delocalizzare o chiudere o che appaiono in crisi per una scarsa creatività gestionale dei dirigenti dell’azienda (una nazionalizzazione da attuare «di solito in via provvisoria, in attesa di trovare imprese cooperative o private interessate a gestirli», e «indennizzando la proprietà solamente all’osso»), sia a ripristinare un ruolo significativo degli Stati stessi nei rapporti economico-produttivi e finanziari tra i vari paesi (incluse le norme che regolano tali rapporti), sia a fornire una serie di servizi, di sostegni creativi e di forme di collaborazione alle imprese del proprio paese, uscendo dunque dall’elitaria e brutale deregulation che domina da decenni nell’economia mondiale in base all’impostazione neoliberista [113]. Più in generale, occorrerebbe la consapevolezza che in un’economia di mercato non esiste necessariamente una frattura tra vivacità economica e senso sociale, né esiste necessariamente una reciproca esclusione tra le forme imprenditoriali di tipo capitalistico e altre forme produttive come quelle collegate all’iniziativa pubblica, alle cooperative effettivamente tali (cioè quelle in cui sono consentiti soltanto “soci alla pari”), all’economia comunitaria e – ovviamente – al lavoro autonomo e artigianale. In sintesi, occorrerebbe la consapevolezza dell’esistente possibilità di «un’economia pluralistica che includa la presenza del mercato, ma vada culturalmente oltre di esso e lo integri profondamente in vari modi».
Come mi ha accennato pochissimi anni fa un’amica per niente interessata alle ideologie politiche (e forse proprio per questo più acuta nel percepire varie sfumature psicologico-culturali della vita sociale), oggi pressoché certamente non basta più l’atteggiamento molto “morbido”, un po’ ingenuo e soprattutto incentrato sul “chiedere cortesemente di procedere gentilmente a una regolamentazione dell’economia internazionale in senso attento al piano sociale e a quello ambientale” che l’amplissimo “movimento di Seattle” ebbe intorno al 2000: è ormai chiaro che l’insensibilità sociale e ambientale delle attuali élite dominanti del pianeta non è una questione di semplice disinformazione, di banale, irriflessiva e incompetente superficialità e/o di momentaneo egocentrismo un po’ infantile, come tanti tendevano a pensare 20-25 anni fa. Probabilmente non era una tale questione neanche allora (e le modalità dell’insuccesso registrato da quel movimento lo suggeriscono molto fortemente) [114], ma adesso è una cosa evidente, manifesta, inequivocabile: è un atteggiamento quanto mai menefreghista che non solo è consapevole, deliberato e voluto, ma è anche pronto a concretizzarsi in modi estremamente cinici e pure drammaticamente brutali. Di fronte a un atteggiamento del genere, non può che servire a poco “chiedere” a quelle élite dominanti di fare quello che sanno già benissimo che esse dovrebbero fare se avessero a cuore l’umanità intera e l’ecosistema planetario: proprio perché lo sanno già benissimo, dunque se non lo fanno è perché non vogliono farlo, e se per caso accetteranno di fare qualcosa per evitare l’addensarsi di eccessive contestazioni e proteste e il rischio di sconfitte elettorali e di scomodi inconvenienti politico-economici lo faranno controvoglia e poi smetteranno di farlo il più presto possibile (a meno che non riescano a trovare il modo di guadagnarci corposamente sopra ancora una volta).... In tal modo, anche se faranno qualcosa sarà sempre troppo poco di fronte al doloroso complesso delle tragedie umane e dei dissesti ambientali e meteorologici che miliardi di persone stanno vivendo già da tempo, con conseguenze addirittura fatali per molti tra guerre, violenze diffuse, desertificazioni, estremi climatici, carestie, epidemie, pericolose migrazioni clandestine, ecc..... In breve, dovremmo essere ormai consapevoli dell’orientamento strutturalmente cinico ed egoista e pesantemente classista di tali élite e dei suoi significati concreti, che in pratica implicano come risultato la sostanziale necessità popolare di rimboccarsi maggiormente le maniche in prima persona, nel nostro trovarci alle prese con i crescenti sconvolgimenti sociali e climatico-ambientali che stanno affliggendo il nostro intero pianeta e che quelle élite preferiscono evidentemente lasciare per lo più proseguire.
In altre parole, le persone che rispetto al neoliberismo hanno una visione alternativa e vitale della società umana e del nostro rapporto con la natura e con l’ambiente dovrebbero accettare l’idea di impegnarsi in modo significativo nella sfera socio-politica, portando però con sé sia la consapevolezza della complessità di tale impegno – che non è riducibile a estremi miopi e sostanzialmente fasulli come in particolar modo quello rappresentato da modalità semplicistiche, sbrigative, poco sensibili alla diversità umana, poco attente alla natura, fortemente influenzate da degli interessi personali e/o imposte autoritariamente (un’imposizione che di solito proviene o dall’alto, cioè da chi occupa i vertici istituzionali della società, o da una maggioranza che schiaccia in un modo o nell’altro qualche minoranza emarginata e umanamente non rispettata) e come quello opposto costituito da modalità parolaie, prive di praticità e interessate più all’oratoria, alle teorie e ai sofismi che alla concreta vita della gente e all’insieme degli equilibri ecosistemici [115] – sia, più specificamente, la scelta profonda e determinata di non ripetere le scelte gerarchiche ed elitarie compiute in maniera quasi sistematica dai vertici politici delle varie nazioni durante il Novecento e i primi decenni di questo secolo. Si tratta insomma di recuperare il senso della “democrazia dal basso” che è stato sviluppato in special modo nella seconda metà dell’Ottocento dalla Comune di Parigi e da Marx ed Engels (ma in modo un po’ più generico anche da tanti altri socialisti, democratici, anarchici e utopisti nel corso di ’700 e ’800) e nell’ultima novantina d’anni da attivisti impegnati come il Mahatma Gandhi, Léopold Sédar Senghor, Aldo Capitini, Murray Bookchin, Vandana Shiva e Riane Eisler, da vari movimenti di base collegati a delle popolazioni tribali o ad altre comunità locali (movimenti che negli ultimi decenni si sono espressi con particolare intensità in varie parti dell’Amazzonia, in alcune zone dell’Indonesia, nella regione messicana del Chiapas, nella regione canadese del Nunavut e nei territori mediorientali abitati tradizionalmente dalle popolazioni curde) e dalla “democrazia partecipativa” sviluppata localmente in varie parti del mondo [116]. E non si dimentichi che per essere autentico e veritiero un tale senso va accompagnato strutturalmente col rispetto – o meglio ancora con l’affetto – dell’umanità per il resto della natura e delle maggioranze per le minoranze. In sostanza, chi ha a cuore gli altri esseri umani e le altre specie viventi dovrebbe assumersi una certa responsabilità non solo nel sentire e pensare in modo sensibile e retto, ma anche nell’agire in modo sensibile e retto sia nella dimensione individuale e famigliare che in quella sociale [117]. Si tratta, tra l’altro, di qualcosa di molto simile a quanto si sottolineava con particolare attenzione e chiarezza negli scritti che stanno all’origine del buddhismo e che – vale la pena di ricordarlo qui espressamente – sono nati esplicitamente come profonda riflessione esistenziale e come filosofia, non come religione (solo durante le generazioni successive si è imposta sempre più una diffusa trasformazione di quella filosofia in religione, una trasformazione che ha messo in evidenza – così come è avvenuto in seguito anche in vari altri casi nel corso della storia – la tendenza dell’umanità a travisare, distorcere o addirittura ribaltare le forme culturali più profonde e complesse che nascono nel suo seno...) [118].
Va aggiunto che quel senso della “democrazia dal basso” appare in sostanziale sintonia anche con lo spirito che traspare dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948. In quest’ultima venne trasfuso non solo l’orrore appena vissuto dall’umanità in occasione della seconda guerra mondiale e delle aggressioni internazionali attuate poco prima dall’impero giapponese in Asia e dai nazisti in Europa – un orrore collegato in modo particolare all’impostazione culturale razzista, brutalmente nazionalista e per certi versi schiavista e genocida che stava dietro a tali aggressioni e poi a quell’intera guerra (non si dimentichino i “campi di sterminio” attuati e fatti funzionare a pieno regime dai nazisti contro ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, ecc.) – ma anche la profondissima e consapevole speranza di riuscire a evitare in futuro il ripresentarsi di simili circostanze. Nella “Dichiarazione universale”, vista a posteriori, appaiono un po’ carenti alcuni particolari come la salvaguardia della natura e dell’ambiente e i diritti delle comunità locali, ma a uno sguardo molto attento tali particolari si direbbero in realtà comunque impliciti in diritti pienamente riconosciuti come in special modo quelli alla vita, alla libertà, alla sicurezza personale, alla personalità giuridica, all’avere una proprietà – personale e/o «in comune con altri» (art. 17) – e alla partecipazione alla vita politica, oltre che nei diritti di tipo economico che costituiscono una sorta di “garanzia di fondo” della effettiva concretizzabilità sociale dei diritti di tipo civile e giuridico e nel riconoscimento che ogni individuo ha anche dei «doveri verso la comunità», in particolare a seguito di una giusta esigenza come quella del «benessere generale in una società democratica» (art. 29).
In sintesi, dovremmo avere ormai la consapevolezza, come classi popolari, di trovarci nel pieno di una vera e propria guerra condotta senza mezze misure ai nostri danni e indirettamente ai danni dell’ambiente. Ovviamente, è del tutto controvoglia e decisamente di sorpresa che ci siamo ritrovati immersi in una tale guerra (avviatasi in pratica negli ultimi due decenni del ’900), anche perché l’intensità sessantottina delle rivendicazioni operaie si era smorzata notevolmente già una decina d’anni più tardi, quando invece stavano ancora sviluppandosi le rivendicazioni terzomondiste indirizzate ad una maggiore equità economica internazionale tra Nord e Sud del mondo, dal che si può comprendere che questa guerra – più che essere rivolta direttamente contro i lavoratori dei paesi “sviluppati” – appare rivolta soprattutto contro le classi lavoratrici del Terzo mondo e contro le politiche keynesiane che stavano incoraggiando i lavoratori di tutto il mondo a economia di mercato a prendere coscienza del loro diritto a una piena dignità umana e a un ruolo non trascurabile nella gestione politico-economica della società moderna [119]. In tal modo, nei paesi “sviluppati” appare essere una guerra principalmente contro questa presa di coscienza da parte dei lavoratori (presa di coscienza che quando si sviluppa in maniera diffusa ha chiaramente l’effetto di mettere apertamente in discussione il ruolo economicamente e politicamente dominante dei “grandi ricchi”): infatti, dove i lavoratori appaiono intensamente subalterni alle élite economiche, queste ultime – anche se complessivamente orientate in senso neoliberista – tendono spesso a non opporsi a una certa inclusione di una parte consistente delle classi popolari nel consumismo e quindi in un tenore di vita relativamente soddisfacente che possa consentire appunto un livello di consumi considerevole (ciò in considerazione anche del fatto che consumi popolari di un certo livello inducono palesemente un incremento dei profitti sia nelle industrie produttrici di beni di ampio consumo sia indirettamente anche in altri settori dell’attività economica...) [120].
Ma – va ribadito – quella consapevolezza che dovremmo esserci ormai conquistati non dovrebbe trascinarci in una dimensione elitaria, autoritaria e facilmente violenta, oltre che psicologicamente quanto mai frustrata, come è purtroppo accaduto a gran parte della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” novecentesca, che consapevole della guerra che il capitalismo stava sostanzialmente facendo alle classi popolari ha finito con l’assorbire quel dualistico “spirito della guerra” e col farsi conquistare interiormente da esso, diventando col tempo psicologicamente sempre più simile ai peggiori tra i capitalisti stessi in un numero sempre più grande di aspetti.... Dovremmo invece riuscire ad essere genuinamente e appassionatamente democratici e nel contempo intrinsecamente dialettici, empatici, aperti alla solidarietà umana e all’esercizio dell’intelligenza a 360 gradi, dello spirito creativo di fondo e del lucido senso critico che fanno indiscutibilmente parte delle nostre potenzialità.
Un approfondimento prospettico: ambiente, economia, “socialismo reale” e forme di democrazia, anche alla luce di un attuale contesto scientifico-filosofico complessivo di “armonia possibile” e di deciso rifiuto di questa da parte delle élite dominanti.
A proposito dell’attualmente diffusissima tendenza economica alla semplificazione produttiva calata dall’alto – semplificazione che, come si è già notato in precedenza [121], durante il ’900 è divenuta una stabile caratteristica non solo del capitalismo dirigista che ha comunemente preceduto e seguito il breve periodo che intorno al ’68 ha visto fiorire la controcultura studentesca e operaia specialmente in Occidente, ma anche dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” – uno degli aspetti della questione palesemente più delicati appare stare proprio nei rapporti tra economia, ambiente e salute. Molte attività economiche possono avere infatti degli impatti molto pesanti sull’ambiente circostante e/o sulla salute dei lavoratori coinvolti in tali attività ed eventualmente – più in generale – degli abitanti della regione (in certi casi, possono esserci impatti che direttamente o indirettamente colpiscono in modo significativo il mondo intero).
Tra quei regimi, ad esempio, tanto nella storia dell’Urss quanto in quella della Cina maoista e post-maoista si sono fatti danni profondissimi all’ambiente e si sono scatenati gravi impatti sulla salute della gente in molte località, e ciò attraverso scelte produttive semplicistiche in cui gli effetti inquinanti e dannosi per la salute sono stati a lungo enormemente sottovalutati – o volutamente trascurati – dalle gerarchie dominanti. Questo è avvenuto un po’ di meno nei paesi in cui vi sono pubbliche istituzioni basate su una democrazia rappresentativa almeno considerevolmente efficace, e ciò soprattutto in quanto in questi paesi la gente – grazie alle varie tornate elettorali ed eventualmente al ricorso a dei referendum popolari – può far pesare decisamente di più le proprie opinioni, per lo meno riguardo agli argomenti principali della vita politico-sociale locale e nazionale [122]. In altre parole, il merito di questa situazione ambientale meno pesante non appare appartenere tanto alla classe politica formatasi nei paesi a democrazia rappresentativa (nei quali le élite politiche non appaiono generalmente molto diverse, come qualità complessiva, dalle élite politiche del “socialismo reale”...) [123], quanto al grado effettivo di democraticità che è stato raggiunto nelle istituzioni di tali paesi: più queste facilitano una marcata incisività sociale dei “cittadini comuni”, più ne consegue in sostanza una maggiore salvaguardia delle esigenze e degli interessi di fondo della popolazione nel suo insieme.
In breve, la qualità ambientale e sanitaria delle attività produttive risulta essere un aspetto cruciale ed essenziale della vita economica (o meglio, un suo aspetto che dovrebbe essere cruciale ed essenziale), ed è anche per questo che si tratta di un argomento estremamente significativo non solo dal punto di vista dell’analisi della società contemporanea, ma anche da quello delle prospettive con cui prefigurare in un futuro più o meno prossimo – possibilmente molto prossimo – una società molto più attenta e sensibile di quella contemporanea alla qualità della vita della gente, il che include palesemente lo svilupparsi di un sano e bel rapporto con natura ed ambiente. Non si dimentichi, a questo proposito, che noi stessi siamo parte della natura (e che quindi un sano e bel rapporto con la natura è necessario in pratica anche per poter avere un sano e bel rapporto con noi stessi...) e siamo in una sorta di simbiosi con l’ambiente, in quanto ci nutriamo di ciò che esso ci fornisce, respiriamo l’ossigeno prodotto sostanzialmente dal “regno vegetale” e assorbiamo anche noi eventuali sostanze inquinanti che come umanità abbiamo disperso nell’ambiente stesso [124].
Più specificamente, in qualsiasi economia che usi tecnologie “non primitive” [125], che voglia risultare effettivamente soddisfacente, valida e apprezzabile dal punto di vista complessivo e che voglia mantenere a lungo questa sua qualità intrinseca appaiono fondamentali due caratteristiche strettamente coordinate: da un lato, la presenza di tecnici di elevato livello (elevato, ovviamente, rispetto alle conoscenze e alle esperienze disponibili nel momento storico corrente), capaci sia di analizzare in maniera accurata, esauriente, onesta e imparziale la relazione concreta tra la sfera produttiva e quella ambientale e medico-sanitaria, sia – nel caso in cui in tale relazione emergano delle problematiche, delle rilevanti lacune e/o delle consistenti difficoltà per effetto di qualche tecnologia inadeguata strutturalmente o impiegata in modo inadeguato – di avanzare risposte e proposte pienamente consapevoli e tendenzialmente risolutive che siano in accordo tanto col fondamentale “principio di precauzione” quanto col generale incoraggiamento per un’affidabile e rigorosa ricerca tecnico-scientifica; dall’altro lato, la continuità del lavoro apportato a tali sfere da questa categoria di tecnici. In questo senso la risolutività, naturalmente, non potrà essere sempre costituita da delle “prescrizioni affermative e innovative” rivolte al futuro, ma potrà anche essere semplicemente il riconoscimento – in base appunto al “principio di precauzione” – che una particolare tecnologia ha dei significativi “effetti collaterali” negativi e che quindi è ancora immatura e incompleta, almeno per il momento: in una tale situazione, in attesa che possa eventualmente avvenire per quella tecnologia un effettivo processo di maturazione e di sostanziale “completamento” (che ovviamente non escluderebbe la possibilità di ulteriori miglioramenti successivi), nel frattempo bisognerebbe ricorrere nella vita produttiva a tecnologie più sicure ed affidabili dal punto di vista sanitario e ambientale e, quindi, la tecnologia in questione andrebbe limitata correntemente all’ambito rappresentato in pratica dalla ricerca – e sperimentazione – di laboratorio.
Le due caratteristiche in questione sono ovviamente tanto più basilari quanto più una società utilizza tecnologie complesse ed elaborate e, nel contempo, sono particolarmente importanti proprio per le classi popolari, le cui possibilità generali d’azione come individui sono tipicamente molto minori – e molto più facilmente irte di ostacoli – di quelle dei gruppi sociali privilegiati che si sono formati in vari modi in gran parte del mondo. A proposito di questa differenza di possibilità è infatti evidente che – qualora si verifichino dei consistenti fenomeni locali di inquinamento, oppure di riduzione generale della vivibilità a seguito di eventi come degli “estremi climatico-ambientali” (siccità, inondazioni, ondate di caldo o di freddo, forme di desertificazione, incendi boschivi diffusi, ecc.), dei disastri naturali (eruzioni vulcaniche, gravi terremoti, tsunami, ecc.) o delle specifiche vicende umane socialmente negative (guerre, epidemie, situazioni di spopolamento o di sovrappopolazione, moltiplicazione di episodi di criminalità e violenza, ecc.) – per le persone ricche e/o potenti è solitamente molto più facile spostarsi altrove oppure procurarsi alimenti o altre risorse da altri luoghi. Inoltre, un elevato status personale (di origine solitamente economica, politica, militare o – in certe parti del mondo – connessa alle locali istituzioni religiose) consente in generale un più facile accesso a molte possibilità concrete, fra le quali sono inclusi – in caso di problemi di salute – molti trattamenti di tipo medico, e tanto più se si tratta di esami o cure particolarmente impegnativi e costosi. Dato che le società caratterizzate da diseguaglianze economiche molto intense (come i paesi ad economia capitalistica indirizzata in senso liberista) e/o da gerarchie politiche fortemente strutturate (come le oligarchie militari, le dittature in stile fascista, i regimi del cosiddetto “socialismo reale” e certi sistemi populistici di governo apparentemente e formalmente democratici ma accompagnati da un uso delle istituzioni tipicamente decisionista, autoritario, incline alla repressione e indirizzato verso il concreto stabilirsi di un’oligarchia politica) tendono ad accentuare molto pesantemente le differenze di possibilità tra “cittadini comuni” ed élite, in tali società le classi popolari avrebbero ancor più bisogno di attenzione alla qualità ambientale e sanitaria delle attività produttive, ma comunemente avviene invece il contrario perché tipicamente le élite in questione ne approfittano lucrando pesantemente sul mantenere bassa quella qualità (e sul produrre in tal modo corpose “esternalità” che vanno a ricadere sulla popolazione generale, o meglio soprattutto sui ceti popolari, che – come si notava ad esempio nel rapporto già citato dell’Oms – hanno tipicamente molte meno opportunità di abitare e vivere «lontano dalle zone industriali e ad alto livello d’inquinamento»...).
Dal persistere di queste dinamiche, tipicamente collegate ad assetti sociali fortemente diseguali e/o gerarchici, consegue molto spesso anche la tendenza popolare ad un senso generale d’impotenza nei confronti sia di eventi ambientali dannosi quali inondazioni, smottamenti, siccità, uragani, ecc. (che sarebbero in buona parte prevenibili preservando i naturali equilibri climatici planetari e mantenendo in atto nel territorio un’appropriata presenza di alberi e un ben impostato assetto idrogeologico, incluso un adeguato e ben mantenuto complesso di argini e di zone golenali d’emergenza – o di canalizzazioni di sfogo – attorno ai fiumi), sia di una serie di gravi malattie (che in realtà sarebbero anch’esse in linea di massima prevenibili se l’ambiente venisse mantenuto salubre e vitale, e ancor più se le persone potessero anche senza troppe difficoltà seguire degli stili di vita salutari ed esistenzialmente soddisfacenti) [126]: un senso d’impotenza che tende ad affiancarsi, ovviamente, ad un senso generale di passività nei confronti delle problematiche economiche che possono generare disagi e sofferenze tra la “popolazione comune” (passività collegata inevitabilmente all’insistente e persistente dirigismo con cui in quegli assetti sociali le élite dominanti trattano dal chiuso delle loro “stanze dei bottoni” gli aspetti principali della sfera politico-economica).
Da questo senso d’impotenza si può passare poi non molto difficilmente a una tendenza passiva anche socialmente, piuttosto fatalista e culturalmente amante di una marcata superficialità (che serve soprattutto a cercare di evitare il rischio di precipitare in gravi fenomeni psicologici depressivi o fortemente ansiosi e a riuscire a mantenere una certa vitale leggerezza anche trovandosi forzosamente immersi in assetti sociali alquanto spiacevoli...), una tendenza che in generale fa molto comodo alle élite dominanti. Per le classi popolari stesse, però, questa tendenza nel suo essere proiettata tipicamente su una parte molto ampia del vivere finisce con l’essere per molti versi fortemente controproducente (anche se “utile” a tanti dal punto di vista psicologico-esistenziale), oltre ad apparire nel complesso filosoficamente assurda – e in fondo in fondo un po’ ridicola – in un mondo in cui gli scienziati, attraverso il loro impegno, hanno scoperto non solo una parte molto ampia delle dinamiche fisiologiche che avvengono negli organismi viventi e dei meccanismi che hanno luogo nella superficie terrestre, nell’atmosfera e negli ecosistemi del nostro pianeta, ma anche varie maniere per prevenire in un modo o nell’altro moltissimi degli impatti dannosi che questi meccanismi possono avere sull’umanità [127] e per evitare o affrontare moltissime delle problematiche che possono insorgere nella nostra fisiologia e nella nostra salute. Naturalmente, per trovare – negli assetti sociali in questione – una soluzione a quelle dinamiche controproducenti (e quindi per evitare in modo proficuo e positivo la tendenza di cui si sta parlando in queste righe) bisognerebbe riuscire a trovare anche un’efficace soluzione alternativa di fronte a quel rischio di fenomeni depressivi o ansiosi. In altre parole, bisognerebbe saper sfuggire contemporaneamente sia alla superficialità culturale come schema di base della propria vita sociale, sia ai rischi di pesantezza psicologico-esistenziale: tutto questo però richiede tendenzialmente intensi sforzi interiori e non appare certamente facile in società in cui le élite fanno di tutto per mantenere sottomesse a sé le masse, per farle rimanere nell’ignoranza di tanti aspetti della storia culturale e sociale dell’umanità e spesso anche per manipolarle pesantemente dal punto di vista psicologico, oltre che per emarginare – o addirittura reprimere violentemente – eventuali “contestatori del sistema”....
Dunque, non è certo casuale l’intensa divaricazione culturale ed esistenziale che tende a prodursi in molte parti del globo tra il mondo degli scienziati e il mondo della “popolazione comune”: quest’ultima viene tenuta – dalle élite dominanti e dalla “cultura di massa” che esse propinano alle classi popolari per via mediatica – il più possibile all’oscuro sia di gran parte delle osservazioni, scoperte ed invenzioni più positivamente rivoluzionarie fatte dagli scienziati (tra i quali si possono includere non solo quelli che si occupano di scienze di tipo concreto come fisica, chimica, biologia, fisiologia medica, ecologia, agricoltura, climatologia, geologia, ecc., ma anche quelli che si occupano di scienze di tipo sociale o umanistico come psicologia, sociologia, economia, storia, e così via), sia soprattutto del liberatorio senso di benessere e di tendenziale “armonia possibile” che nasce dalla capacità di scienziati e ricercatori di risolvere appunto le eventuali problematiche che possono insorgere in un modo o nell’altro nella nostra vita, una capacità che durante l’ultimo centinaio d’anni si è letteralmente moltiplicata in modo grandissimo e soprattutto multidirezionale. A proposito di tale divaricazione basti vedere, ad esempio, come molti medici (specialmente gerontologi, immunologi e psicoanalisti) abbiano ampiamente compreso e diffusamente spiegato che un’elevata qualità della vita ha un grandissimo significato anche dal punto di vista specifico della prevenzione e cura delle malattie [128], ma le élite dominanti fanno ugualmente di tutto per mantenere gran parte della popolazione mondiale in una situazione di qualità molto bassa della vita e contemporaneamente nell’ignoranza delle ricerche compiute da quei medici e soprattutto dei significati concreti che tali ricerche hanno dal punto di vista sociale.... L’estrema battaglia di queste élite contro le politiche keynesiane e più in generale contro le idee di solidarietà e di collaborazione tra esseri umani – incluse naturalmente le idee socialiste di tipo umanistico e apertamente democratico (che sono in realtà le uniche degne di essere chiamate socialiste, come già si è sottolineato in varie occasioni) [129] – si è in tal modo allargata a combattere anche le principali scoperte scientifiche ed invenzioni che possono da un lato suffragare e sostenere tali idee e dall’altro mettere in evidenza le lacune e gli effetti controproducenti del neoliberismo e delle altre mentalità che esaltano e glorificano l’egocentrismo, l’antropocentrismo, l’esasperata competitività tra esseri umani e lo sfruttamento degli uni sugli altri: lacune ed effetti tanto più evidenti, miopi e tragici in un mondo altamente tecnologico e ricco di risorse disponibili come quello attuale.
Tra l’altro, anche gli scienziati e i ricercatori stessi sono comunemente scoraggiati con forza – ad opera di tali élite – dall’uscire dai limitati e angusti confini in cui esse cercano di ingabbiare ciascuno di essi e, tanto più, dal rivolgersi direttamente alla “popolazione comune” incoraggiandola a godere anche lei, prima intellettualmente e poi anche concretamente, dei frutti dei vari rami della scienza vissuta in senso inclusivo, universale e quindi tendenzialmente olistico: se essi dovessero perseverare in questo atteggiamento aperto, divulgativo e pronto a stimolare le rivendicazioni di tutti, il rischio che essi stessi correrebbero sarebbe di venire anche loro emarginati pesantemente negli istituti scientifici in cui operano, o addirittura licenziati da questi ultimi, o persino repressi violentemente in un modo o nell’altro [130].... Per fortuna non è sempre così, ma lo è spesso (e tanto più dove la democrazia è sostanzialmente assente o le sue forme istituzionali correnti sono più formali ed elitarie che sostanziali e trasparenti: motivo in più, dunque, per avere a cuore la qualità e la trasparenza delle procedure democratiche nelle istituzioni pubbliche).
Tutta questa situazione si è trasformata in pratica in un’altra delle maggiori differenze esistenti tra l’originario liberismo ottocentesco e il neoliberismo affermatosi negli ultimi decenni. Quella ottocentesca era un’epoca ancora di scarso sviluppo tecnologico e soprattutto scientifico [131], di grande limitatezza economico-produttiva, di scarsità di risorse disponibili, un’epoca in cui la presenza di una continua litigiosità e di un’esasperata concorrenza (sfocianti solitamente anche in un intenso classismo) tra gli esseri umani per la conquista delle poche risorse disponibili poteva essere comprensibile – anche se estremamente sgradevole e da molti punti di vista controproducente [132] – e in cui questa concorrenza contribuiva effettivamente a dare forti stimoli allo sviluppo tecnico-scientifico. Nell’epoca odierna, in cui tutti quei limiti sono in gran parte scomparsi, il neoliberismo è invece diventato in molti casi una vera e propria “palla al piede” per lo sviluppo tecnico-scientifico e quindi alla fin fine per il progresso dell’umanità, progresso che poggia sostanzialmente su due basi: da un lato appunto lo sviluppo tecnico-scientifico; dall’altro la qualità dell’interiorità umana, dei rapporti tra le persone e della vita sociale. Il liberismo, in quell’epoca e in quel mondo, non favoriva certo questa qualità ma almeno favoriva lo sviluppo in questione; il neoliberismo non favorisce né l’una né l’altro: per questo è qualcosa di estremamente malato, qualcosa di fatale, mortale, distruttivo e, un passo dopo l’altro, sempre più anche autodistruttivo.... Quando alla fine degli scorsi anni ’70 i neoliberisti hanno cominciato ad organizzarsi ampiamente e ad ottenere dei successi nell’arena politica, probabilmente credevano semplicemente di sostenere la causa dell’individualismo e dei ricchi contro la causa dei lavoratori e del collettivismo nelle sue varie forme, recuperando in ciò l’atteggiamento apertamente classista – e filosoficamente quanto mai dualista – che era caratteristico del “vecchio” liberismo e nel contempo mettendo da parte l’interclassismo keynesiano che aveva portato ad esperienze di trasformazione sociale ed economica da loro vissute in modo molto spiacevole: esperienze come le vaste lotte operaie degli anni attorno al ’68 e come lo sviluppo di forme di economia mista o fortemente regolamentata in cui il predominio imprenditoriale tipico dell’epoca liberista era sempre più irregimentato e limitato dal ruolo crescente delle istituzioni pubbliche (dentro le quali si era anche formata in non pochi casi, approfittando di tale ruolo, una burocrazia arrogante ed economicamente controproducente). Ma i neoliberisti non si rendevano pienamente conto né dei radicali cambiamenti epocali che in parte erano già avvenuti e in parte stavano ancora avvenendo nel progresso tecnico-scientifico dell’umanità, né soprattutto del fatto che questi cambiamenti richiedevano – e ovviamente continuano a richiedere, e in maniera sempre più pressante – risposte e comportamenti collettivi (comportamenti che rimandano in pratica agli orientamenti culturali socialmente rilevanti e alla politica) estremamente diversi da quelli che contraddistinguevano il liberismo e che si basavano per lo più sull’individualismo. Quest’ultimo nell’epoca del liberismo pre-keynesiano era infatti praticamente santificato dalla teoria della “mano invisibile del mercato”, teoria che – col tempo – in gran parte è stata però ribaltata scientificamente dalla progressiva scoperta dei “fallimenti del mercato” [133]. E questo ribaltamento è divenuto tanto più intenso man mano che si sono moltiplicate le capacità tecnologiche dell’umanità, le quali – se usate in modo poco avveduto e consapevole (come tende ad avvenire piuttosto facilmente quando vi è un esasperato individualismo) – sono sempre più in grado di infliggere danni gravi, e persino estremi, all’ecosistema planetario e ovviamente alla nostra esistenza di esseri umani.
Si potrebbe dire che la sacralizzazione neoliberista del “vecchio” atteggiamento liberista ottocentesco è, in sostanza, come quando qualcuno che si trova di fronte a interessantissime e per certi versi meravigliose e ricchissime possibilità culturali prova invece una radicale nostalgia per un periodo passato in cui quelle possibilità non c’erano e si viveva in un mondo molto più povero, ruvido, scientificamente ignorante e – come Freud e tanti altri psicoanalisti dopo di lui hanno contribuito a spiegare – tendenzialmente quanto mai frustrato. In altre parole, i neoliberisti appaiono essere sostanzialmente degli ignoranti – arretrati culturalmente e abituati ad un pensiero profondamente frustrato e irrimediabilmente dualista – che credono ancora di vivere nel mondo ruvidissimo ed economicamente povero del periodo compreso tra il tardo ’700 e il primo ’900 e non si sono ancora resi conto di quanto quel mondo sia strutturalmente cambiato e, soprattutto, di quanto per gli esseri umani si siano aperte nella società nuove strade feconde e creative che a quell’epoca nemmeno si potevano immaginare.... E quel loro dualismo contribuisce a mantenerli prigionieri di una visione del mondo forzata e fasulla in cui c’è posto solamente per gli estremi e per la mancanza di qualsiasi consistente armonia: nella società moderna, il capitalismo o il cosiddetto “socialismo reale” autoritario e gerarchico; nel capitalismo, il liberismo o la peggior burocratizzazione clientelare che può essere associata a un’economia di tipo keynesiano mal diretta; nei rapporti tra persone, usare o essere usati (in modo simile a quanto hanno espresso in maniera particolarmente esplicita e ironica gli Eurythmics nella loro canzone di successo Sweet dreams (are made of this), tratta dall’omonimo album del 1983); nel rapporto tra umanità e resto della natura, il predominio sfacciato e brutale dell’umanità o una nostra sostanziale dipendenza (vista come segno di una grave debolezza) nei confronti del mondo naturale; e via dicendo.
Ma quel che è peggio è che, sfruttando la loro posizione privilegiata, le élite economiche che propongono e sostengono il neoliberismo cercano di imporre a tutta la società umana e a tutto il mondo vivente modi di essere e di vivere basati su caratteristiche come l’ignoranza, l’arretratezza culturale e l’abitudine ad un pensiero dualista e frustrato [134], oltre che indirizzati dall’alto molto più verso un’insensibile distruttività che verso un’empatica creatività [135].
La beneficenza, il volontariato e l’elemosina come sostituti di gran parte della spesa pubblica di tipo sociale e la povertà di massa come fatto in gran parte voluto.
Nel contempo, l’attuale “cultura di massa” indirizza con insistenza le persone umanamente più sensibili verso l’occuparsi privatamente del campo dell’assistenza sociale, che è stato in gran parte abbandonato dalla politica e dalla P.A.: occupandosene, in altre parole, non attraverso la politica ufficiale, né attraverso quella informale posta in atto da gruppi spontanei come ad esempio i “comitati locali di solidarietà popolare” sorti nel pieno delle crisi economiche argentina e greca durante gli scorsi decenni, ma per mezzo di istituti caritatevoli, i quali per vari motivi – inclusa la loro evidente esigenza di consistenti “raccolte fondi” – tendono a non fare direttamente politica e a non disturbare esplicitamente il potere. In vari paesi, l’esprimere pubblicamente il proprio appoggio a tali raccolte finisce addirittura col diventare paradossalmente un “fiore all’occhiello” per non pochi esponenti delle élite neoliberiste e del ceto politico ad esse legato...
Oggi, gli istituti in questione sono anche collegati spesso ad ampie ed efficaci associazioni di volontariato degne di un enorme rispetto per la loro encomiabile opera concreta a favore dei ceti sociali più svantaggiati, per lo più dimenticati appunto dalla P.A.. Nonostante i risultati di grandissimo significato umano spesso ottenuti da queste associazioni, non si può tacere dunque il fatto che si tratti di una sostanziale “privatizzazione” dell’assistenza sociale: un fenomeno che – senza alcuna volontà specifica da parte dei molti volontari che partecipano a quell’opera encomiabile e per certi versi ormai indispensabile – si inserisce in una prospettiva complessiva che tende a ridurre enormemente gli spazi e le funzioni della politica, riducendola da un lato a serva dell’economia (o meglio delle élite economiche e, più in generale, delle imprese private) e dall’altro lato a inutile fantasma che sul piano sociale può essere sostituito sempre più dall’elemosina e dalle charities [136]....
Anche in questo si torna, in breve, a quel laissez faire che prima di Keynes era il principale – e pressoché unico – “verbo” politico dei partiti di ispirazione borghese.
In Italia ad esempio, dopo decenni in cui tutti i governi hanno comunque seguito la strada del rinunciare radicalmente alla prospettiva della “piena occupazione” e del lasciare agli istituti caritatevoli una parte crescente della problematica sociale rappresentata dalla diffusa presenza della povertà, l’attuale governo di destra sta palesemente cercando di smontare progressivamente quasi del tutto l’assistenza sociale pubblica, facendola passare il più possibile come uno spreco e come un inutile e controproducente sostegno alla pigrizia. Tra l’altro, se a ciò si affiancano il progressivo avvicinamento che questo governo sta cercando di compiere verso la flat tax (che, basandosi su un’unica aliquota nel calcolo delle imposte sul reddito, cancellerebbe in pratica la progressività fiscale prevista dall’art. 53 della Costituzione) e soprattutto le battaglie di questo stesso governo contro la proposta di legge che prevederebbe l’istituzione di un “salario minimo” dignitoso, l’insieme suggerisce che la prospettiva economica verso cui stanno procedendo gli attuali partiti al governo è quella di spingere la “gente comune” a dover accettare qualsiasi condizione di lavoro e di retribuzione per poter sopravvivere, mentre si incoraggia e si supporta sempre più l’allargarsi delle diseguaglianze socio-economiche a favore dei “grandi ricchi” (più o meno come succedeva col liberismo di uno o due secoli fa).... Ed è una prospettiva che di fatto – considerando anche le difficoltà che possono colpire gli individui e le famiglie attraverso le malattie, la vecchiaia e ulteriori eventualità come le situazioni di sostanziale solitudine, gli incidenti imprevedibili e le situazioni locali di diffuso degrado socio-economico – apre appunto spazi sempre più vasti agli istituti caritatevoli, alle loro sempre più frequenti “raccolte fondi” (che sono spesso supportate anche da dei grandi mass-media, specialmente televisivi) e alla sottile e crescente beatificazione mediatica del volontariato e della beneficenza come principali espressioni del senso sociale umano (al posto dell’impegno socio-politico, che secondo l’odierna “cultura di massa” è ormai qualcosa di pienamente in disuso...).
Come già si è accennato [137], è una direzione che favorisce anche – e in modo evidente – la diffusione della criminalità, ma la questione non appare turbare minimamente la destra al governo (per motivi che ciascuno potrà cercare di comprendere per proprio conto: ad esempio, il presumibile aumento di reati, delitti, ecc. potrebbe facilitare da parte dello Stato un aumento del militarismo e dell’uso repressivo delle forze di polizia, orientamenti che – come è ben noto – la destra di solito apprezza; oppure, potrebbero esserci collusioni tra politici e criminalità organizzata, come la magistratura continua a scoprire ampiamente un po’ in tutta Italia; e via dicendo...).
Può essere interessante anche quanto ha osservato recentemente – alcune settimane prima delle elezioni anticipate britanniche di luglio – Maurizio Salvi in Check up Gran Bretagna (Rocca, 15 giugno 2024): «Dopo 14 anni di incontrastata permanenza» dei conservatori «a Downing Street» (la via di Londra dove risiede tradizionalmente il primo ministro del paese), la realtà attuale è quella di «un duro scenario sociale nazionale, registrato nei sondaggi di opinione e nelle statistiche ufficiali», del quale «è responsabile in gran parte la lunga permanenza al potere del Partito conservatore, che ha ‘dimenticato’ le fasce più sfavorite. [...] Il rapporto ‘UK Poverty 2024’, pubblicato a Londra dalla Joseph Rowntree Foundation, ci permette facilmente di capire come questo si traduce in condizioni di vita davvero difficili. La povertà, si dice, “è aumentata, avvicinandosi ai livelli pre-pandemia”, quando più di un abitante su cinque (14,4 milioni, ossia il 22%) nel Regno Unito era in carenza di risorse. [...] Questo peggioramento è dovuto in gran parte alla revoca di aiuti temporanei legati al coronavirus che erano stati stanziati a sostegno delle famiglie bisognose. [...] La situazione, pur drammatica, è in qualche misura sotto controllo perché ad assistere le legioni di meno abbienti operano centinaia di migliaia di ‘Charities’ (organizzazioni di beneficenza private), senza l’intervento delle quali il panorama sarebbe catastrofico».... Rapporti e valutazioni sul settore stimano attualmente in 200-300.000 gli «enti di beneficenza» britannici, una cifra alquanto impressionante che contribuisce ad attestare sia l’entità del disagio sociale nel paese e della sofferenza collegata a tale disagio, sia l’estremo disinteresse degli ultimi governi per questa sofferenza, sia l’impegno del volontariato per sostituire il vuoto lasciato dal governo.
A dispetto di questa situazione sociale estremamente gravosa, si può rammentare che per quanto riguarda la Gran Bretagna il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha stimato il “Pil pro-capite a parità di potere d’acquisto” – corrispondente in pratica al reddito medio annuo riscontrabile tra gli abitanti del paese, inclusi i neonati, e valutato sulla base di un costo medio della vita planetario – in circa 55.700 dollari internazionali nel 2022, un importo superiore ad esempio di circa il 6% rispetto a quello italiano, stimato in circa 52.600 dollari internazionali (per avere un’idea del valore effettivo di questi importi si tenga presente che il concomitante “Pil nominale pro-capite” espresso in concreti dollari Usa era approssimativamente di 45.700 per la Gran Bretagna e di 35.000 per l’Italia, ammontare quest’ultimo corrispondente a circa 33.300 euro annui). In altre parole, il reddito medio annuo pro-capite britannico in termini reali, visto con gli occhi di un italiano, era valutabile nel 2022 in 33.300 euro + il 6%, cioè in 35.300 euro. Si tratta di cifre che se distribuite con un po’ di equità sarebbero state ampiamente sufficienti a portare in una condizione di elevato benessere economico tutti gli abitanti dei due paesi in questione, così come sarebbe potuto avvenire in tutti gli altri paesi “sviluppati” e in molti altri paesi ancora. Persino una nazione come il Brasile, dove ci sono enormi favelas – cioè baraccopoli – di gente estremamente povera, aveva nel 2022 un “Pil pro-capite a parità di potere d’acquisto” stimato in circa 18.900 dollari internazionali annui, cioè quasi 1.600 dollari internazionali mensili, un importo corrispondente in pratica nell’esperienza degli italiani a 1.000 euro al mese, cioè una valutazione che – trattandosi di dati pro-capite (che ad esempio per una famiglia di 5 persone implicherebbero un reddito famigliare complessivo intorno ai 5.000 euro mensili) – andrebbe notevolmente oltre qualsiasi “soglia di povertà” [138].... In altre parole, si conferma in modo evidente che il “problema” sociale del mondo di oggi non è in realtà quello di un’economia effettivamente in crisi perché autenticamente e sofferentemente asfittica, ma l’esistenza di estreme e brutali diseguaglianze socio-economiche di fondo, volute in pratica da chi ha in mano nei vari paesi e nell’ambito internazionale i timoni economici e politici: diseguaglianze che si articolano tendenzialmente su tassi di disoccupazione e sottoccupazione mantenuti deliberatamente elevati per scoraggiare le rivendicazioni salariali dei lavoratori e – in parallelo – su orari di lavoro forzosamente prolungati per i lavoratori pienamente occupati [139]....
Tornando brevemente alla Gran Bretagna, si può aggiungere che – come avevano previsto i sondaggi – le elezioni svolte da poco hanno visto un crollo epocale del Partito conservatore, surclassato dai laburisti. A questo proposito non si dimentichi però che il sistema elettorale britannico – il “maggioritario a turno unico” – favorisce enormemente i partiti maggiori rispetto agli altri, di modo che il colossale successo laburista potrebbe essere in realtà molto più una sconfitta dei conservatori che il segnale di un ampio, profondo e diffuso gradimento effettivo per i laburisti. Anche questi ultimi, in effetti, durante lo scorso quindicennio hanno continuato a mostrare una grande quantità di contraddizioni, incongruenze, debolezze propositive, cambiamenti ondivaghi di linea, tendenze ad accettare nella sostanza un’ampia parte dell’orientamento neoliberista (tanto più sul piano internazionale), ecc. ecc. ecc. [140]....
Dietro la facciata: liberisti contro il “laissez faire”.
Nonostante tutte queste spinte indirizzate verso la deregolamentazione dei mercati vista come base sostanziale dell’intera società, vi sono però alcuni campi in cui i liberisti – di ieri e di oggi – tradivano e tradiscono clamorosamente il laissez faire: eminentemente, gli armamenti, le guerre, l’ordine pubblico e il gradito sfruttamento sotterraneo delle possibilità di corruzione riguardanti la P.A.. A tali campi si è aggiunta nell’epoca neoliberista – sull’onda paradossalmente proprio delle varie esperienze economiche di tipo keynesiano – l’eventualità rappresentata dalle crisi di grandi aziende (specialmente se si tratta di banche, giacché la finanza è diventata ormai l’attività economica preponderante dei “grandi ricchi”), crisi nelle quali proprio i neoliberisti sono divenuti comunemente i più attivi nell’invocare l’intervento di corposi aiuti statali, ufficialmente per evitare “gravi danni all’economia” e per “non mettere direttamente o indirettamente a rischio tanti posti di lavoro”, ma in realtà soprattutto per evitare gravi danni ai ricchi proprietari e dirigenti di quelle aziende: un eccellente esempio ne sono stati gli sviluppi delle relazioni finanziarie tra P.A. e settore privato nei paesi “sviluppati” dopo la “crisi dei mutui” esplosa nel 2008 (e nata proprio da comportamenti aziendali estremamente incauti e speculativi nel settore creditizio). Come si è già messo ampiamente in rilievo in precedenti occasioni [141], in tutti questi campi emerge da sempre il vero spirito politico del liberismo: comportarsi in politica in base a ciò che serve al potere economico (cioè ai “potenti” dell’economia, alle élite economiche, ai “grandi ricchi”...), non in base a delle vere e proprie idee economiche intrinsecamente e universalmente coerenti.
In altri termini, dove e quando il laissez faire non è conveniente per tale potere, i politici e gli economisti apparentemente adoratori del laissez faire lo gettano di colpo da parte e diventano accaniti sostenitori di un estremo interventismo pubblico: comprare il più possibile, per le varie forze armate della nazione, le armi prodotte dall’industria privata, anche se potrebbe essere molto più saggio e umanamente significativo investire i soldi pubblici in tutt’altri campi come la sanità, la scuola, l’ambiente, ecc.; promuovere ed avviare – o per lo meno non contrastare con efficacia – le situazioni belliche che appaiono vantaggiose per le élite economiche nazionali o anche internazionali (élite tra le quali possono benissimo esserci appunto anche degli “industriali delle armi”); usare violentemente l’ordine pubblico (cioè in pratica la polizia ed eventualmente anche la magistratura, le carceri e l’esercito) per impedire che il mercato del lavoro possa diventare troppo favorevole ai lavoratori attraverso un loro organizzarsi particolarmente ampio, il loro manifestare liberamente in pubblico le proprie rivendicazioni e il loro far ricorso a forme di lotta e di pressione particolarmente incisive; appropriarsi legalmente o indebitamente di fondi pubblici grazie alla compiacenza degli altri politici e dei burocrati della P.A., al clientelismo, al frequente silenzio mediatico, ecc.; e più in particolare – specialmente appunto nell’ambito finanziario, quello dei “grandi paperoni” – usare i fondi pubblici per salvare delle grandi aziende cadute in crisi perché mal gestite dai suoi proprietari e/o dirigenti, mentre in base a qualsiasi normale (e tendenzialmente sana) “logica del mercato” le si sarebbe dovute abbandonare il più possibile alle conseguenze degli errori compiuti dalle rispettive dirigenze, eventualmente con degli interventi riparatori della magistratura nel caso in cui quegli errori avessero anche una valenza scorretta e approfittatrice (come ad esempio nell’eventualità di investitori ingannati fraudolentemente da dirigenti o funzionari di quelle aziende) [142]....
Da queste evidenti realtà si comprende che, dietro la facciata mostrata pubblicamente, la “mitologia del mercato” sventolata abitualmente dai neoliberisti è solo uno specchietto per le allodole, mirante a far credere alle classi popolari che dietro alle politiche neoliberiste esista un disegno congruo, coerente e – soprattutto – efficace economicamente per tutti. In realtà i neoliberisti – come già facevano comunemente i liberisti di 100-150 anni fa – sono in generale i primi a non credere a tale mitologia, dal momento che la buttano a mare appena ci sono corposi interventi pubblici che possono dare grossi vantaggi alle élite economiche....
In anni molto recenti è emerso anche un ulteriore caso particolare in cui i neoliberisti hanno fatto eccezione alla loro abituale rivendicazione del disimpegno pubblico dall’ambito economico, benché per certi versi si sia trattato di un’eccezione parziale e relativa: la pandemia da Covid-19 e la ramificatissima crisi economica che ne è seguita hanno spinto anche i sostenitori del neoliberismo a riconoscere pubblicamente che in circostanze particolarmente gravi è normale e vantaggioso ricorrere a una corposa e diffusa espansione dell’azione economica pubblica (attraverso investimenti, sussidi e/o prestiti erogati dalla P.A.). Appena si è usciti dalla fase più pesante in cui si è articolata tale crisi, tuttavia, i neoliberisti sono tornati al loro usuale atteggiamento, pubblicamente focalizzato su concetti come predominio generale dei mercati, deregolamentazione, servizi pubblici ridotti all’osso, austerità (cioè sacrifici da parte delle classi popolari), ecc., così da evitare accuratamente il rischio di suffragare le politiche keynesiane – che nell’economia di mercato costituiscono la principale difesa economica dei lavoratori dalle feroci diseguaglianze portate tipicamente con sé dagli orientamenti liberisti – come qualcosa che possa essere utile e proficuo anche in altre circostanze economiche, non estremamente gravi e recessive.... È impressionante come i neoliberisti neghino semplicemente, aprioristicamente, assolutisticamente e sistematicamente che in circostanze non estremamente recessive possa esistere una “economia keynesiana” notevolmente efficace e non soffocata dalla burocratizzazione e dal malgoverno, e ciò a dispetto delle prolungate e palesi esperienze di diversi paesi in tal senso (specialmente nella regione scandinava e nei suoi dintorni, ma non soltanto). E, grazie a questa pervicace insistenza dei sostenitori del neoliberismo e ai moltissimi mass-media che danno loro un ampio spazio, tra le classi popolari di molte parti del mondo parecchi finiscono comunemente col crederci, incastrati dalla propria scarsità di comprovate cognizioni economiche e dalla propria piuttosto ingenua credulità nei confronti appunto dei maggiori mass-media....
Nel complesso, non c’è dunque alcun bisogno oggi di “convincere” a proposito delle pesanti incongruenze presenti nelle politiche neoliberiste e dell’erroneità del mito del mercato i sostenitori del neoliberismo che si muovono nel mondo intellettuale (economisti, altri accademici, giornalisti, ecc.) o nel mondo politico: quasi tutti ne sono evidentemente ben consapevoli, ma fingono di non esserlo perché è quello il ruolo – ben ricompensato – che è stato loro affidato dalle più potenti élite economiche....
In sintesi, il neoliberismo – ingannando clamorosamente le classi lavoratrici, grazie anche alla loro ignoranza in campo economico e istituzionale e alle impostazioni superficiali e fuorvianti che sin dal primo ’900 hanno predominato sistematicamente nei partiti che hanno cercato di porsi come rappresentanti di tali classi [143] – è una delle armi più sofisticate inventate dalle classi privilegiate per svuotare radicalmente di significato le basi politiche della democrazia che erano state conquistate, solitamente generazioni fa, dalle popolazioni di molti paesi.
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