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Renato Curcio torna a prendere la parola a pochi giorni dalla udienza del gip di Torino (26 settembre prossimo) che lo vede imputato insieme a Mario Moretti, Lauro Azzolini e Pierluigi Zuffada, dopo la nuova inchiesta (a 49 anni dai fatti) sul sequestro dell’industriale dello spumante Vallarino Gancia, realizzato dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e la sparatoria del 5 giugno 1975 davanti alla cascina dove l’ostaggio era custodito. Curcio smonta il teorema accusatorio messo in piedi dai pm, smentisce alcune convinzioni storiche errate sul funzionamento interno delle Brigate rosse («non esistevano figure apicali, l’organizzazione era trasversale, le colonne agivano in autonomia»), tanto meno direttive centrali che imponevano conflitti a fuoco frontali con le forze di polizia, per chiedere come mai la procura titolare delle nuove indagini non abbia voluto fare luce sulla morte di Mara Cagol nonostante la perizia ne avesse accertato l’uccisione a freddo, le innumerevoli versioni sui fatti fornite dai carabinieri intervenuti all’epoca, i moltepolici dubbi e incertezze ammessi dagli stessi inquirenti
Caro Paolo,
ho letto sul tuo blog l’articolo Il passato che
non passa, il prossimo 26 settembre davanti al gip di Torino le
richieste di rinvio a giudizio contro Azzolini, Curcio, Moretti e
Zuffada per la sparatoria alla Spiotta di 49 anni fa che hai
postato il 20 settembre. Anzitutto voglio ringraziarti per l’attenzione a
questa tardiva coda giudiziaria di una vicenda già considerata chiusa
da altri magistrati e che comunque si perde nella notte di “altri
tempi”. Più ancora però ho apprezzato il tuo tentativo di analizzare la
pretesa giudiziaria in una prospettiva storica. In questa stessa
prospettiva mi permetto di sottoporti alcune considerazioni in stretta
relazione alle questioni che più direttamente mi riguardano.
In
apertura della tua analisi scrivi che mi viene mossa l’accusa di
«concorso morale sulla base di una frase presente in un articolo scritto
(non da me) quattro mesi dopo la sparatoria su un giornale clandestino
di propaganda, Lotta armata per il comunismo, che per i pm
avrebbe avuto valore predittivo, prova di una fiscale direttiva interna
emessa dalle istanze dirigenziali delle Brigate rosse».
Nessuna fugura apicale, le Brigate rosse erano un’organizzazione orizontale
Ho letto attentamente il documento Avviso all’indagato di conclusione delle indagini preliminari a
cui ti riferisci ma la dizione «concorso morale» mi sembra che non
venga mai utilizzata. Al mio riguardo viene spesa invece una espressione
anche più ambigua: «figura apicale».
Espressione interessante perché
nella sua indeterminazione rimanda insieme a una insinuante apparenza e
ad una sostanziale inconsistenza. L’apparenza insinuante è che, essendo
stato un fondatore dell’organizzazione di propaganda armata Brigate
Rosse, non potevo che essere anche, in quel particolare momento, al
«vertice» di quell’organizzazione. L’inconsistenza sta invece nel fatto
che le Brigate Rosse non erano affatto un’organizzazione verticale ma
erano costituite da alcune Colonne strategicamente unite sul piano
politico ma operativamente indipendenti e rigorosamente compartimentate
sul terreno operativo. Nessun «apice» dunque poteva decidere cosa
dovessero o non dovessero fare le singole colonne.
Ho visto anche che
l’assunzione di responsabilità politica che sia io che Mario Moretti
facciamo – nelle due interviste pubblicate nei primi anni novanta del
Novecento – viene utilizzata oggi per incriminarci. Ciò che gli
intervistatori – Scialoja per me e la Rossanda per Mario – assemblano
delle nostre dichiarazioni personalizzandole è la decisione che i
militanti delle Brigate Rosse nel loro confronto e dibattito politico
interno avevano preso, di autorizzare le varie colonne a compiere
sequestri di persone facoltose a fini di finanziamento qualora ne
avessero, in piena indipendenza, le capacità e la volontà. Far derivare
da un dibattito politico una responsabilità penale… vedi un po’ tu, se
non in malafede, come ci può stare.
In quanto storico nei tuoi saggi
ti sei interessato di quel periodo e sai pertanto che, assai prima delle
mie attuali parole, i documenti dell’epoca spiegano con chiarezza
quella struttura orizzontale; struttura che peraltro distingueva
nettamente le Brigate Rosse da altre organizzazioni scese in campo in
quei tempi sul terreno armato. Una paradossale conferma di ciò, d’altra
parte, viene proprio dall’esito delle ricerche condotte dai Pm steso
l’Avviso. Essi infatti nonostante un abnorme ricorso a intercettazioni
fatte a tutto campo, ad interrogatori di pentiti, dissociati e a fonti
varie, non hanno potuto trovare neppure una sola testimonianza a
conforto delle loro attese. Neanche una!
Il teorema accusatorio dei pm è infondato, nelle Br la linea
di condotta era quella di «evitare nei limiti del possibile gli scontri a
fuoco e cercare, in caso di difficoltà imprevista, di sottrarsi
preservando anzitutto l’incolumità di eventuali ostaggi»
In
un altro punto del tuo articolo fai riferimento al cosiddetto “Giornale
delle Brigate Rosse” – Ho avuto modo di leggere, negli atti depositati,
il testo del volantino in cui sarebbe stata data la direttiva «se
avvistate il nemico vi sganciate prima del suo arrivo, se venite colti
di sorpresa ingaggiate un conflitto a fuoco per rompere l’isolamento».
Due cose mi sono apparse davvero bizzarre. La prima è che quel documento
è stato redatto alcuni mesi dopo gli avvenimenti della Spiotta tant’è
che chi lo ha scritto compie una disamina esplicita e assai critica di
ciò che il 5 giugno 1975 alla Spiotta era successo. Personalmente non
avevo avuto contezza fino ad oggi della sua esistenza e, francamente,
non saprei proprio a quale Colonna sia possibile attribuirlo. Ma, se
pure non fosse un falso, colpisce nel suo linguaggio la mordacità
critica che esso manifesta contro la «tattica di combattimento» di
Margherita e del compagno che era con lei. In quel ciclostilato infatti
si legge che «purtroppo» la «tattica di combattimento» di Margherita, fu
«difensiva» e viziata dalla «illusione di potersi defilare senza
annientare il nemico». Mentre, invece, a giudizio degli estensori di
quel documento, «l’unica tattica di combattimento realistica sarebbe
stata quella di affrontare lo scontro con l’obiettivo esplicito di
annientare i Cc».
Essendo stato scritto a commento dei fatti avvenuti
alla Spiotta, e rivolto a un lettore esterno alla Colonna che lo ha
redatto, quel documento dunque non solo non impartisce ordini ad alcuno,
ma addirittura entra in pubblica e aperta polemica con la Colonna
torinese contestandone la linea operativa. Il suo estensore infatti
critica in modo peraltro astioso l’orientamento tattico e il
comportamento sul campo di Margherita e dell’altro compagno, definendoli
«illusi di potersi defilare senza annientare il nemico». Tuttavia, e
proprio questo è il punto che intendo segnalarti, con la sua critica
ferocemente esplicita esso conferma la piena autonomia degli
orientamenti tattici e dei comportamenti pratici della Colonna torinese a
cui Margherita e il compagno fuggito si sono attenuti. Insomma, per non
farla inutilmente lunga, se quel documento qualcosa ci dice è che: a)
si tratta di un documento posteriore ai fatti e rivolto a lettori
esterni alla Colonna che lo ha prodotto; b) non conforta in alcun modo
la tesi degli estensori dell’Avviso, anzi, la smentisce; c) critica
esplicitamente la regola operativa a cui da anni e in quel tempo la
Colonna torinese si atteneva. Regola di lunga data e fino a quel giorno
sempre osservata nelle innumerevoli operazioni di autofinanziamento che
invitava ad evitare nei limiti del possibile gli scontri a fuoco e a
cercare, in caso di difficoltà imprevista, di sottrarsi preservando
anzitutto l’incolumità di eventuali ostaggi.
Perché la nuova inchiesta ha evitato di fare luce sulla uccisione di Mara Cagol, già a terra ferita e in stato di arresto?
Su
un terzo punto concordo infine con quanto affermi nel tuo articolo
quando rilevi: «l’assenza nella nuova inchiesta di approfondimenti sulle
circostanze che portarono alla morte di Mara Cagol, nonostante la
richiesta fatta durante l’interrogatorio da Renato Curcio, suo marito
all’epoca».
In effetti in occasione dell’incontro con i magistrati
inquirenti ho fatto presente, sia con una memoria scritta che
verbalmente, che l’intera dinamica degli avvenimenti che hanno portato
lutti alla cascina Spiotta non è mai stata chiarita. Sono gli stessi
magistrati che hanno effettuato l’inchiesta, del resto, a manifestare
“dubbi” su cosa e come sia realmente accaduto. Dubbi che essi esternano
nella motivazione della richiesta di una perizia su due strani bossoli
spuntati fuori negli ultimi tempi da «un sacchetto di plastica»
consegnato loro dalla famiglia del carabiniere Giovanni D’Alfonso. «Ora –
scrivono in questa richiesta – … si nutrono dubbi sulla ricostruzione
della dinamica del conflitto a fuoco avvenuto il 5 giugno del 1975 …».
Dubbi!
Molteplici e diverse sono state infatti le versioni su chi e
quanti fossero i Cc realmente coinvolti; su come e quando sono arrivati
alla cascina; sui comportamenti tenuti da ciascuno; sulle loro
rispettive dislocazioni nello spazio e nel tempo; sulle armi di cui
disponevano. Diverse sono anche le testimonianze che i Cc ufficialmente
presenti hanno dato del modo in cui si sono svolti gli avvenimenti e
delle pratiche circostanziali; diverso, infine, è il resoconto scritto
dal militante che si sottrasse all’arresto. Imbarazzata, al riguardo, è
l’indagine che su tutto ciò preferisce fare – nonostante la mia
esplicita richiesta di ricostruire con precisione tutte le dinamiche –
un salto a piè pari. Come se l’intrico di contraddizioni al riguardo non
fosse un problema di rilevanza istituzionale ben maggiore del nome del
militante che si è dileguato. La domanda allora è questa: cosa non ci
stanno dicendo le istituzioni su questo intrico di contraddizioni che le
riguarda? Una domanda importante perché ovviamente per capire come sono
andate veramente le cose alla cascina Spiotta non possiamo basarci
esclusivamente sulla relazione del compagno che si allontanò dalla
cascina; relazione che riporta il “suo” raggio di osservazione peraltro
molto limitato sia nello spazio che nel tempo. Chi ci fosse davvero alla
Spiotta dal lato delle istituzioni, lui non poteva saperlo. Ma più
rilevante ancora è infine un’altra domanda che agli storici dovrebbe
interessare: perché “qualcuno” – chi francamente non m’interessa! –
quando già Margherita Cagol Curcio era in stato di arresto, dunque nelle
mani dello Stato, con le braccia alzate – come dimostra
inequivocabilmente l’esame autoptico redatto dal Prof. Dott. Athos La
Cavera – ha sparato un colpo sotto ascellare orizzontale per ucciderla?
So
per lunga esperienza personale che non è mai semplice mettere d’accordo
la verità giudiziaria e la verità storica. Della prima comunque sono
altri a doverne rendere conto e mi auguro che lo facciano tutti
onestamente, ma per quanto attiene alla verità storica che, anch’essa in
tempi ravvicinati non è mai facile da documentare, spero che queste mie
parole possano esserti utili quantomeno per il tuo lavoro.
Renato Curcio, 22/09/2024
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