Se il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, il forzista Gilberto Pichetto Fratin, è tornato a rivendicare “regole certe entro fine anno” per nuovi impianti, con il vicepremier e leader leghista Matteo Salvini e la stessa premier Giorgia Meloni che promettono con enfasi la nuova svolta dell’atomo, in realtà resta ancora irrisolto il nodo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. 
Il motivo? Nessuno vuole in Italia quel deposito che dovrebbe ospitare 95mila metri cubi di scorie: 78mila a bassa-media intensità (di provenienza civile e da attività sanitarie e di ricerca), altri 17mila di rifiuti ad attività medio-alta e alta, per un periodo di tempo, in attesa della loro sistemazione definitiva in un deposito geologico. 
Una buona parte di questi – quelli che provengono dalle centrali in dismissione – sono oggi stoccati all’estero. 
Eppure, al di là delle contrarietà delle amministrazioni locali, una soluzione va trovata. 
Anche perché, ha già raccontato il Fattoquotidiano.it, il nostro Paese entro il 2025 dovrebbe far rientrare proprio le scorie spedite (a caro prezzo) nel Regno Unito (1.680 tonnellate di combustibile esaurito) e in Francia (235 tonnellate). 
Ma ritardi e incertezze sulla sorte del deposito rendono la prospettiva già, di fatto, impraticabile.
Forse è il caso almeno di individuare il sito per il deposito nazionale invece di parlare di stupidaggini come il ‘deposito unico europeo’ che non è mai esistito”, ha attaccato negli scorsi giorni l’ex ministro M5s Stefano Patuanelli, riprendendo le parole di Pichetto Fratin alla stampa. Per poi attaccare: “Quello nazionale è un iter avviato ormai da anni. O forse proprio le Regioni amministrate dalla destra non lo vogliono?
È il caso del Lazio, dove lo stesso presidente di Regione, di centrodestra, Francesco Rocca, si è schierato contro il rischio di ritrovarsi il deposito nel proprio territorio. Tutt’altro che improbabile. 
Questo perché, in base a quanto previsto dalla Carta Nazionale delle Aree Idonee pubblicata dall’esecutivo – in base alla lista elaborata dalla Sogin, la società pubblica per lo smantellamento delle centrali atomiche -si trovano oggi in provincia di Viterbo, nella Tuscia, ben 21 dei 51 siti individuati per la realizzazione del contestato deposito nazionale. 
Si va da Tarquinia a Tuscania, passando per Montalto di Castro (sede di un’ex centrale elettronucleare in realtà mai completata e operativa, dopo la bocciatura del primo referendum del 1987, e poi di un impianto termoelettrico a policombustibile), fino a Canino
E non solo. Oltre al Lazio, invece, altre cinque sono le regioni interessate: Basilicata, Puglia, Piemonte, Sardegna e Sicilia. I Comuni coinvolti? Tutti contrari, neanche a dirlo. 
Lo scorso marzo pure la giunta comunale di Trino, in provincia di Vercelli, dopo le proteste ambientaliste ha revocato la delibera del 12 gennaio scorso, quando il Comune si era autocandidato a ospitare sul proprio territorio Deposito nazionale e parco tecnologico, pur non essendo inserito nella mappa delle 51 aree idonee.
Un ‘no’ ribadito pure dal Lazio attraverso un ricorso (pendente) al Tar e attraverso l’approvazione (all’unanimità) lo scorso maggio di una mozione presentata dai consiglieri regionali di Fratelli d’Italia, Daniele Sabatini e Giulio Zelli: “Un altro atto a difesa dell’integrità di un territorio che difenderemo in ogni sede, oltre ogni divisione e appartenenza politica”, aveva rivendicato sui social il governatore Rocca. Con tanto di foto e simbolo dei comitati locali “No scorie”. 
Eppure, in tempi di fibrillazioni interne alla sua giunta regionale, con Fi che scalpita per avere più spazio, e con il governo nazionale che accelera al tempo stesso sull’atomo, la battaglia istituzionale contro il deposito sembra andare in secondo piano. Eclissata, almeno per ora.
Non sembra così un caso che alla manifestazione in programma mercoledì 25 settembre a Canino, promossa dal locale “Comitato per la difesa del territorio di Canino e della Tuscia”, il presidente non andrà, limitandosi a “mandare qualcun altro in rappresentanza”, avvertono dal comitato. “Eppure avevamo cercato di concordare la data più utile, ma alla fine non ci è stata data udienza”, spiega Dina Brozzetti, che fa parte di un movimento “nato dal basso”. E al quale hanno in pochi mesi aderito in mille e duecento (su circa 5mila abitanti), tra cittadini, docenti universitari, oncologi, geologi, cooperative agricole, commerciali e artigianali, pure amministratori locali. “Tanti sindaci e amministratori, bipartisan, hanno aderito alla manifestazione”, anticipano dal comitato.
Tra i nomi di vertice di centrodestra, invece, la questione sembra creare non pochi imbarazzi. Tanto da disertare l’iniziativa: “Avevamo invitato pure altri esponenti politici, anche di Fratelli d’Italia: penso alla neo vicepresidente del Parlamento Ue, Antonella Sberna (viterbese, ndr), al marito Daniele Sabatini, attuale capogruppo Fdi in Consiglio regionale del Lazio. L’eurodeputata ci ha mandato una e-mail per dirci che non potrà essere presente. Altri non hanno risposto al nostro invito”. 
Eppure, almeno a parole, tutti si dicono contrari. “C’è poca voglia di esporsi, a sinistra, ma anche a destra, ci aspettavamo di più”, ammette sconsolato Eugenio Cesarini. È lui il presidente del comitato locale, ma che al tempo stesso è pure assessore comunale di Canino all’Urbanistica e alle terme. Eletto “in area Forza Italia“, all’interno di quella lista civica che ora amministra il comune, “il cui nocciolo è di centrodestra”. “Cosa mi aspetto dalla premier Meloni e dal mio partito? Che, come dicevano in campagna elettorale, ci aiutino a togliere questa spada di Damocle che incombe sul nostro territorio”. 
Altri, come Brozzetti, in passato candidata in una lista civica di centrosinistra, sembrano meno ottimisti: “Le assenze annunciate dei vertici regionali e provinciali alla nostra iniziativa sono gravi. Crediamo ci siano direttive molto più alte, a livello governativo. Forse c’entrano le scelte che questo governo ha intenzione di fare sul nucleare?”, attacca. 
Pure il consigliere di minoranza Andrea Amici condivide i dubbi: “Servono i fatti, il coraggio di essere presenti quando conta, fuori dagli interessi di partito”.
Anche perché a Canino temono davvero di ritrovarsi a dover fare i conti con le scorie radioattive: “Qui la Sogin e il governo hanno individuato cinque siti, tra cui due considerati tra le due aree più idonee. Il pericolo è concreto”, spiega il professor Angelo Di Giorgio, vicepresidente del comitato, oncologo ed ordinario alla Sapienza, oggi in pensione. “Nel viterbese abbiamo tassi d’incidenza di cancro molto elevati. Solo la radioattività naturale del Radon raggiunge i picchi più alti d’Italia. Idem i valori di arsenico, e paghiamo il passato di centrali che hanno vomitato in quest’area tonnellate di materiale inquinante”.
Non sono gli unici timori. Perché, sottolineano diverse cooperative che aderiscono al comitato, quello di Canino è un territorio che vive d’agricoltura, dove si producono olio d’oliva di pregio e altre colture ormai note: dall’asparago verde Igp, “esportato e richiesto pure negli Emirati Arabi Uniti”, spiega il produttore Giancarlo Benella, fino a pomodori e kiwi. “Non vogliamo diventare una seconda ‘Terra dei fuochi“, è la denuncia. Ma non solo: è anche zona sismica, come dimostra un recente terremoto (magnitudo 3.3) dello scorso agosto. “Se si prendono in esame i tempi di decadimento dei rifiuti, 300 anni per quelli a bassa-media radioattività, in questo lasso di tempo in questa zona si potrebbero verificare altri terremoti con magnitudo 6, simili a quelli che colpirono L’Aquila”, denuncia l’idrogeologo Antonio Menghini. È lui che, di fronte alla cascata del Pellico, nel torrente Timone, a due passi dal centro abitato di Canino, contesta i criteri con cui sono stati scelti i possibili siti: “Qui siamo a valle di una delle aree considerate idonee dalla Sogin. Sono acque alimentate da un acquifero vulcanico che alimenta a sua volta la sorgente del Bottino, utilizzata dalla popolazione locale. In caso di sversamento di materiale radioattivo, che non può essere escluso, andrebbe subito ad inquinare la sorgente e la cascata, arrivando in poche settimane in falda”. Tradotto, contesta, “sono state ignorate le caratteristiche idrogeologiche del territorio“. E accusa il ministero dell’Ambiente di Pichetto Fratin per aver avallato “supinamente” la scelta delle aree idonee fatta da Sogin. A questo punto, accusa, “mi sembra che la decisione sarà politica: noi dal punto di vista tecnico abbiamo mostrato con ogni forza, ma invano, ogni criticità. Non ci resta che far sentire la voce della nostra comunità”.
La speranza? Portare un migliaio di persone in piazza per la manifestazione. 
Sarebbe un avvertimento alla politica. Compresa quella regionale (e non solo) che sembra nascondersi: “Meloni ci ascolti, vogliamo agire nella legalità. Non vogliamo arrivare a occupare i terreni. Ma siamo stanchi delle parole, ora vogliamo fatti”.