Il 29 settembre 2024 ricorre l’ottantesimo anniversario della strage di Marzabotto costato la vita a 770 persone fra queste: 115 bambini, 102 bambine, 25 ragazzi, 32 ragazze e 132 anziani fra uomini e donne.
ilfattoquotidiano.it Mirco Dondi Storico
La strage, indicata a Marzabotto, include un territorio più ampio con altri due comuni dell’Appenino bolognese – Grizzana e Monzuno – ed è eseguita dal 16° battaglione esplorante corazzato delle SS al comando del maggiore Walter Reder già macchiatosi tra il 24 e il 27 agosto dell’eccidio di Vinca, nella provincia di Massa Carrara, costato la vita a 162 persone. Come a Vinca, anche nell’area di Marzabotto la strage dura più giorni, fino al 5 ottobre.
Nelle zone alte del comune di Marzabotto, con insediamenti a Monte Sole, opera dal dicembre 1943 la brigata Autonoma Stella rossa che nei giorni precedenti la strage non ha compiuto alcuna azione. In pratica, sono circa 300 i partigiani armati, non tutti dispongono dei mitra e il comandante Mario Musolesi “Lupo”, il 14 settembre, aveva chiesto al Comando regionale migliori dotazioni valutando, come poi è accaduto, di non potere resistere oltre mezza giornata.
Il corpo di attacco nazista è motorizzato, bene armato ed è composto da poco meno di 1.200 effettivi. Se quella di Marzabotto fosse stata solo un’azione militare, sarebbe terminata nel volgere di poche ore, con lo sfaldamento della Stella rossa. In realtà, dall’estate del 1944, il generale Albert Kesselring, a capo delle forze tedesche in Italia e riconosciuto come criminale di guerra, aveva ribadito l’ordine di radere al suolo tutte le retrovie del fronte specificando anche che avrebbe tollerato tutti gli eccessi.
Da qui si comprende che l’attacco a queste zone (gli Alleati sono ormai a due chilometri in linea d’aria) è finalizzato a realizzare un’operazione di “pulizia territoriale” caratterizzata da una vera e propria caccia all’uomo. Chi può muoversi dopo le prime notizie di sterminio (all’alba del 29 settembre sono massacrate 80 persone a Creda) cerca riparo nei boschi, in qualche anfratto di fortuna sotto la pioggia, con la fame e la paura crescenti.
Il partigiano Rino Bianchi, in una testimonianza che registrai all’inizio degli anni Novanta, racconta così una delle tante scene della strage: “Ho visto tante fiamme, un crepitio che non finiva più perché‚ le case bruciando […] Si sentivano degli urli, degli urli fatti dalle persone e dalle bestie che tu puoi avere fantasia finché vuoi, ma non puoi renderti conto della scena. Perché‚ le bestie bruciavano nelle stalle […] e gli uomini che arrivavano e trovavano i figli morti… Tu puoi pensare che urli facessero. Era una cosa incredibile. Parlano dell’apocalisse, qui era l’apocalisse“.
Una pratica di annientamento che diversi ufficiali nazisti, inquadrati in quel 16° battaglione delle SS, hanno già praticato nell’Europa dell’Est. Né vanno occultate le responsabilità dei fascisti locali – come denunciato dai sopravvissuti della strage – posti a guida delle colonne tedesche. Le autorità della Repubblica sociale provarono a occultare la strage. Il capo della provincia Dino Fantozzi liquidò la vicenda con il termine di “esagerazioni” e, a ruota, la stampa insinuò che si trattasse di “voci incontrollate”.
Quasi tutte le comunità tra Marzabotto e Monzuno sono state per sempre spazzate via disperdendo una secolare cultura contadina. Diverse aree della strage sono rimaste disabitate. Le sterpaglie, fra gli spettri delle macerie, hanno preso il posto del grano e delle altre colture. Persino parecchi morti restano abbandonati, senza sepoltura, per quasi un anno.
La mentalità degli aguzzini che porta a questa strage discende da un progressivo processo di disumanizzazione. Prenderne coscienza è il modo migliore per compiere un atto di memoria attiva capace di parlare anche al nostro presente.
Nessun commento:
Posta un commento