La scuola dovrebbe sempre avere come suo fine che i giovani ne escano con personalità armoniose, non ridotti a specialisti. Questo, secondo me, è vero in certa misura anche per le scuole tecniche, i cui studenti si dedicheranno a una ben determinata professione. Lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente, dovrebbe sempre essere al primo posto, e non l’acquisizione di conoscenze specializzate.
lafionda.org Francesco Prandel
ALBERT EINSTEIN
Nel suo libro “Gli anni difficili” Albert Einstein scriveva «non sbagliò quella persona spiritosa che definì l’educazione con queste parole: ” L’educazione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato quanto si è imparato a scuola”». A che cosa educa, oggi, la scuola italiana? Che cosa resta agli studenti quando hanno dimenticato il teorema di Ruffini e le operette morali di Leopardi? La risposta si può agevolmente reperire esaminando tre fatti che hanno interessato le nostre scuole negli ultimi anni, dai quali risulta chiaro come la scuola italiana si rapporta alla società nel suo complesso. In questo rapporto, più che in quanto viene insegnato o non insegnato nelle classi, si inscrivono a mio parere i reali criteri educativi adottati dalla scuola. Elenco di seguito questi tre fatti, in ordine cronologico, dandone una breve descrizione.
1) La digitalizzazione della didattica. A partire dalla “buona scuola” di Matteo Renzi in poi, le nostre scuole si sono progressivamente dotate di dispositivi digitali ad uso didattico. Alla digitalizzazione della didattica hanno dato un notevole impulso i fondi PNRR recentemente elargiti, in virtù dei quali molte scuole hanno incrementato ulteriormente la loro dotazione digitale. A quanto si apprende dal Piano Scuola 4.0 “nell’anno scolastico 2017- 2018 la percentuale di docenti che utilizzava almeno settimanalmente le tecnologie digitali per fare didattica era del 44,5%, nel 2020-2021 è salita all’84,4%.”.
È interessante osservare che già nel 2013, due anni prima della riforma renziana, il neuro-scienziato tedesco Manfred Spitzer, che dirige la Clinica Psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, aveva pubblicato un testo divulgativo dal titolo “Demenza digitale”. Il testo è corredato di 15 pagine di riferimenti bibliografici che rimandano alla letteratura scientifica già disponibile all’epoca, sulla quale quali l’autore basa la tesi facilmente intuibile dal titolo. Ben prima che Renzi mettesse mano alla scuola, dunque, era ampiamente noto che la digitalizzazione della didattica, lungi dal migliorare l’apprendimento, l’avrebbe ostacolato. Non solo, avrebbe contribuito a creare gravi problemi fisici, neurologici, cognitivi e comportamentali agli studenti. Nel 2019 il neuroscienziato francese Michel Desmurget, che lavora presso l’Istituto di Scienze Cognitive Marc Jeannerod di Lione, dava alle stampe un testo dal titolo “Il cretino digitale”. Nel quale, oltre a riprendere la tesi sostenuta dal suo omologo tedesco, faceva notare che «le ripercussioni sono tantissime e influiscono anche sul rendimento scolastico. Sembrerebbe infatti che l’uso del digitale fatto in classe, con fini educativi, non sia più benefico degli altri. Le famose indagini internazionali PISA ce lo confermano con risultati a dir poco spaventosi».
Nel 2021 il Senato della Repubblica rendeva nota un’indagine conoscitiva dal titolo «Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento». Nel testo si legge che «ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscoloscheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminu zione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concen trazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica… Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche. È quanto sostengono, ciascuno dal proprio punto di vista « scientifico », la maggior parte dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle Forze dell’ordine auditi. Un quadro oggettivamente allarmante, anche perché evidentemente destinato a peggiorare. […]Per quest’insieme di ragioni, non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni, fenomeno destinato a connotare la classe dirigente di domani. […]Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite, non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri».
A ulteriore conferma del disastro perpetrato dalla didattica digitale, invito il lettore a controllare l’andamento dei test INVALSI, le rilevazioni che annualmente la scuola mette in atto per monitorare l’andamento della preparazione degli studenti. Io stesso, nei vent’anni in cui ho insegnato, ho rilevato un vistoso calo delle capacità logiche e della soglia di attenzione degli studenti. Per questo, tra il 2015 e il 2020, ho cercato di sensibilizzare i miei colleghi sul tema, ma non sono riuscito a convincerne alcuno ad opporsi all’invasione di schermi che in quegli anni stava interessando la scuola dove lavoravo. Da solo, gli unici risultati che ho ottenuto sono stati le sanzioni disciplinari che ho rimediato e ritorsioni di vario genere. Ricordo una discussione a porte chiuse che ebbi con l’allora dirigente della scuola in cui insegnavo, in cui ci confrontammo sulla questione della didattica digitale. «I docenti devono fare tutto il possibile per garantire il successo formativo degli studenti» soleva ripetere nei collegi dei docenti. Così gli feci osservare che perseguire quell’obiettivo significava, prima di tutto, rimuovere gli ostacoli all’apprendimento, e che la digitalizzazione della didattica era, dati alla mano, uno dei più importanti. «Lei è così ingenuo che mi sta quasi simpatico» fu la sua risposta. Doveva esserlo anche Nuccio Ordine quando, col suo “Manifesto” dal titolo “L’utilità dell’inutile”, già nel 2013 ci metteva in guardia sul fatto che «Bisognerà battersi nei prossimi anni per salvare da questa deriva dell’utilitarismo non solo la scienza, la scuola e l’università, ma anche tutto ciò che chiamiamo cultura. Bisognerà resistere alla dissoluzione programmata dell’insegnamento, della ricerca scientifica, dei classici e dei beni culturali. Perché sabotare la cultura e l’istruzione significa sabotare il futuro dell’umanità».
2) La sospensione degli insegnanti non vaccinati. Porto il massimo rispetto per le persone che si sono vaccinate. Sarebbe stato bello, però, se questo rispetto fosse stato reciproco. Nel foglio illustrativo del Comirnaty, vaccino a mRNA anti-COVID-19 prodotto da Pfizer, alla voce «Cos’è Comirnaty e a cosa serve» si legge «Comirnaty è un vaccino utilizzato per la prevenzione di COVID-19, malattia causata dal virus SARS-CoV-2» (corsivo mio). Nella circolare che il Ministero dell’Istruzione ha diffuso all’inizio del 2022, avente per oggetto gli «obblighi vaccinali a carico del personale della scuola», si legge invece che «L’art. 4-ter.1 del decreto-legge 44/2021, introdotto dall’art. 8 del decreto-legge 24/2022, infatti, continua a imporre al personale scolastico l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 di cui all’articolo 3-ter del medesimo decreto-legge 44/2021» (corsivo mio). Da quest’ultimo documento risulta evidente che la ratio dell’impianto normativo con cui è stato imposto l’obbligo vaccinale al personale scolastico e ad altre categorie è il presupposto che la vaccinazione permette la «prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2». Dal foglio illustrativo del farmaco, invece, risulta altrettanto evidente che questo presupposto è falso, perché il farmaco risulta indicato per la «prevenzione di COVID-19, malattia causata dal virus SARS-CoV-2». La distinzione potrebbe apparire faccenda di poco conto. Invero, la «prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2» è una questione di salute pubblica, mentre la «prevenzione di COVID-19, malattia causata dal virus SARS-CoV-2» è una questione di salute individuale. Si potrebbe obiettare che, in realtà, anche la seconda riguardava la salute pubblica, dal momento che gli ospedali erano sovraccarichi di pazienti affetti da «COVID-19, malattia causata dal virus SARS-CoV-2». Questa obiezione, tuttavia, deve essere respinta sulla base dei dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità. Dai report mensili che l’ISS ha pubblicato nell’autunno 2022, cioè quando la popolazione godeva della massima copertura vaccinale, si evincono facilmente i seguenti fatti.
a) i vaccinati si contagiavano di più dei non vaccinati (in ragione di venti casi ogni mille per i primi, e di quindici casi ogni mille per i secondi)
b) i vaccinati venivano ospedalizzati, curati in terapia intensiva o decedevano tanto quanto i vaccinati (con una differenza tra le due categorie di appena qualche caso ogni milione di casi).
Da quanto considerato risulta evidente come la sospensione degli insegnanti che si sono rifiutati di adempiere all’obbligo vaccinale si è configurata, sin dall’inizio, come una discriminazione politico-ideologica basata su una menzogna di stato. A fronte di questa discriminazione, i sovrintendenti scolastici, i dirigenti scolastici e la quasi totalità degli insegnanti non hanno proferito una parola di dissenso. Anzi, non pochi di loro si sono adoperati per renderla se possibile ancor più dolorosa, vessando e denigrando gli insegnanti discriminati. A questo proposito, con il filosofo Pierre Bayle, convengo che «I perseguitati non hanno sempre ragione, ma i persecutori hanno sempre torto».
3) Il conflitto israelo-palestinese. A novembre dello scorso anno, il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppa Valditara ha disposto un minuto di silenzio in ricordo di Giulia Cecchettin, la ragazza veneta tragicamente scomparsa lo scorso autunno. Personalmente, non ho avuto niente da eccepire rispetto a questa iniziativa. Lo scorso gennaio, come tutti gli anni, in occasione della Giornata della Memoria i dirigenti scolastici hanno invitato i docenti e gli studenti a un momento di riflessione per commemorare le vittime dell’Olocausto. Pure questa consuetudine mi ha sempre trovato d’accordo, anche quando ero io stesso un insegnante. Tuttavia, nello stesso periodo in cui la scuola aderiva a queste iniziative, in Palestina morivano migliaia di studenti. Non mi sarei certo aspettato che la scuola, per commemorarli, osservasse migliaia di minuti di silenzio. Ne sarebbe bastato anche uno solo, come per Giulia, per far sapere che la scuola c’è ancora, che le persone che ci lavorano hanno una loro etica e una loro autonomia di giudizio, che non sono burattini mossi dai fili tirati dal Ministero. Fatte salve le lodevoli iniziative di pochissimi insegnanti, nessun vertice del sistema scolastico che mi risulti, e la quasi totalità degli insegnanti, ha avuto qualcosa da ridire sui due pesi e sulle due misure che la scuola, con questo suo atteggiamento, ha assegnato alla violenza. Nemmeno quando, appena qualche mese dopo la ripresa delle ostilità, gli organismi di giustizia internazionale hanno cominciato a prendere in seria considerazione l’ipotesi che l’azione intrapresa dal governo israeliano si configuri come un genocidio. «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti» diceva Martin Luther King.
I tre fatti sopra descritti sono alquanto eterogenei, ma hanno un evidentissimo comune denominatore: i sovrintendenti scolastici, i dirigenti scolastici e la quasi totalità degli insegnanti sono disposti a negare l’evidenza pur di assecondare e compiacere i rispettivi superiori. Negare l’evidenza è il più antiscientifico degli atteggiamenti, e questo va detto soprattutto a fronte dello scientismo perbenista e bigotto del quale, durante la pandemia, si sono riempiti la bocca in tanti, anche a scuola. Gli stessi che appena qualche anno prima, quando si trattava di discutere degli effetti della digitalizzazione sull’apprendimento, e sulla salute mentale degli studenti, non esitavano a spazzare sotto il tappeto i risultati della ricerca neuroscientifica.
Mi fa impressione venire a sapere di insegnanti che ritengono discriminatorio scrivere “tutti”, cioè non adoperare la “e” rovesciata, e che sono rimasti indifferenti – quando non compiaciuti – mentre i loro colleghi senza “green pass” venivano buttati fuori dalla scuola. Mi gratto la testa, se penso che in agricoltura la confusione sessuale è una pratica largamente utilizzata per contenere la riproduzione dei parassiti. Come mi fa impressione pensare che tanti docenti, nella Giornata della Memoria, abbiano parlato con gli studenti della persecuzione nazi-fascista senza fare il minimo accenno allo sterminio di massa che, in quegli stessi giorni, proseguiva indisturbato dall’altra parte del Mediterraneo. Potrei proseguire con la lista delle circostanze che testimoniano le condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico, ma credo che quanto esposto sia più che sufficiente per rispondere alla domanda posta in apertura: a che cosa educa, oggi, la scuola italiana?
A mio parere i tre fatti sopra descritti danno una risposta molto chiara: la scuola italiana, oggi, educa alla cieca obbedienza, spinge i giovani ad ascoltare acriticamente “la voce del padrone”, per quanto intellettualmente aberranti e culturalmente imbarazzanti siano le sue pretese. Altro che «sviluppare il senso critico», altro che «promuovere il pensiero divergente», e tante altre belle locuzioni di cui si fregiano tanti dirigenti e docenti. Per come la vedo io oggi, dopo averci lavorato per vent’anni e averne preso le distanze da tre, la scuola assomigli più a un luogo di indottrinamento che a un momento di acculturazione e sviluppo intellettuale. Lo ribadisco perché sia chiaro: non mi riferisco qui a tutto ciò che viene detto o taciuto nelle classi. Ciò che sa di dottrina è più che altro l’aria che tira a scuola, quell’aria da politicamente corretto – ed eticamente corrotto, almeno nei tre casi esaminati – che diventa palpabile proprio nel rapporto della scuola con l’attuale assetto del potere. Un’aria che poi, inevitabilmente, respirano anche gli studenti.
Il principio di induzione è debole, ma i tre fatti che ho esposto lasciano già presagire come andranno le cose oggi che il nuovo cavallo di Troia, l’intelligenza artificiale, galoppa verso il portone della scuola. Il Ministero ha vietato l’uso dei cellulari e dei dispositivi digitali per uso didattico nelle scuole elementari e medie, dove è poco diffuso, ma non nelle scuole superiori, dove invece è diventato una prassi consolidata. Al contempo, ha introdotto la sperimentazione dell’intelligenza artificiale nella scuola. A me sembra la tecnica del venditore: fai qualcosa che ti costa poco o niente per fidelizzare il cliente e, a quel punto, gli rifili quello che vuoi.
Come internet ci ha esonerati dal memorizzare, perché basta cercare su Google, così l’IA ci risparmierà il ragionamento, perché basterà consultare l’oracolo “chat GPT”. Offrire un paio di stampelle a un bambino che sta iniziando a camminare, e invitarlo ad usarle, vuol dire impedirgli di imparare a camminare con le proprie gambe. Porgere la stampella mentale IA ad un giovane che sta imparando a ragionare, e incoraggiarlo ad usarla, vuol dire impedirgli di imparare a pensare con la propria testa. Cosa volete che succeda quando l’IA entrerà a scuola, e quando risolvere a casa un problema sulle coniche o affrontare una versione di latino diventerà un gioco da ragazzi – come sta già accadendo?
Si sapeva già dieci anni fa che la didattica digitale non funziona, che avrebbe creato più problemi di quelli che poteva risolvere. Eppure, ancor oggi viene venduta – e salutata da tanti insegnanti – come «una grande opportunità». Mi domando: che cosa deve accadere per convincerci che digitalizzare la didattica è stato un errore? In Svezia, come noto, hanno saputo fare retromarcia. Non sono tornati alle penne e ai calamai, no, gli svedesi sono tornati alla carta e alla penna perché hanno saputo riconoscere un errore che sta davanti agli occhi di tutti, ma che la nostra scuola si rifiuta di riconoscere. «Sbagliare è umano, perseverare è diabolico» diceva S. Agostino.
Se interpellati su queste problematiche, i vertici del sistema scolastico risponderebbero probabilmente che «piaccia o non piaccia, la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale ci sono, fanno ormai parte del nostro mondo, soprattutto quello del lavoro, e dobbiamo imparare a conviverci al meglio, il ché richiede di raccogliere queste sfide, non di lottare contro i mulini a vento». Il dramma è che questa risposta risulterebbe convincente per tante persone, che la troverebbero saggia ed equilibrata, perché non sanno più riconoscere un’argomentazione inconsistente, neanche quando l’errore si presenta in un ragionamento semplice. Anche l’eroina e la cocaina, se è per questo, “ci sono, fanno parte del nostro mondo”, ma non per questo “dobbiamo imparare a conviverci”. Qualcuno ha riconosciuto che creano grossi problemi alla collettività, e ne ha bandito la circolazione e l’uso. Ci si dovrebbe chiedere, allora, perché invece la didattica digitale e l’intelligenza artificiale circolano e vengono usate liberamente nonostante siano evidentemente dannose per gli studenti. Tutto questo con il benestare di chi dovrebbe invece vigilare su chi e cosa entra nella scuola e, quando necessario, dire “NO” alle richieste scellerate di una politica nazionale ormai ridotta a servitù volontaria dei grandi gruppi finanziari e delle multinazionali del digitale. Quanti dirigenti scolastici si opporranno all’ingresso dell’IA nella scuola? Quanti insegnanti, nei collegi dei docenti, prenderanno la parola per dire “No grazie, ne abbiamo abbastanza, può bastare così”?
Albert Einstein non è stato solamente uno dei più grandi fisici di tutti i tempi. Sono in tanti a ritenerlo uno dei più grandi e influenti pensatori del “secolo breve”. Riprendendo la citazione in esergo, convengo pienamente che nella scuola «lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente, dovrebbe sempre essere al primo posto». I tre fatti sopra discussi mostrano invece chiaramente che lo sviluppo di questa attitudine, nella classifica della Scuola 4.0, non occupa nemmeno l’ultimo posto. È stato semplicemente abolito. Come possono docenti e dirigenti trasmettere l’autonomia di pensiero e di giudizio agli studenti, se loro per primi ne sono privi o, nel migliore dei casi, si guardano bene dall’esercitarla?
Nel settembre del 2021, quando arrivai a scuola, trovai al portone una bidella che controllava i “green pass”. Le chiesi gentilmente se poteva chiamare il dirigente. «Buongiorno professore, ce l’ha il green pass?» mi chiese quando arrivò. Nell’atrio della scuola campeggiava una frase celebre di Albert Einstein: «the most important thing is not to stop questioning». Gliela indicai, e gli dissi «Buongiorno dirigente, posso farle qualche domanda?». «Professore, ce l’ha il green pass o no?» mi chiese di nuovo, visibilmente seccato, come se della frase di Einstein – cioè del motto della scuola che dirigeva – non gli importasse minimamente.
Lo guardai in faccia per qualche secondo, mentre ripeteva per la terza volta la stessa domanda come un disco rotto, o forse come un automa. Non vidi niente, se non lo spessore intellettuale e la statura culturale di quella schiera di “ufficiali di collegamento” altrimenti nota come “classe dirigente”. Mentre guardavo in faccia quell’uomo mi sovvenne un monito di Nietzsche: «se scruti troppo a lungo nell’abisso, l’abisso scruterà in te». Al ché, me ne andai.
Quello, per me, fu l’ultimo giorno di scuola.
Spero che la scuola esca dalla cattiva pedagogia e dal degrado nel quale è caduta, e dunque spero in una scuola atta a contrastare quel post-pensiero che sta invece aiutando.
GIOVANNI SARTORI
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