venerdì 26 aprile 2024

MASSIMO FINI. Declino d’un paese e dei suoi giornali.

È LA STAMPA BELLEZZA – Attraverso questa arte minore e le sue alterne vicende ed epoche, racconto di un’Italia che fu, di una Milano che non c’è più e di un mestiere divenuto ormai quasi irrilevante.

(MASSIMO FINI – ilfattoquotidiano.it)

Una notte di parecchio tempo fa girovagavo per le vie di Milano, inquieto e solitario alla ricerca di anfratti sempre più foschi, quando decisi di rifugiarmi da Oreste, il bar all’angolo di piazza Mirabello.

Dovevamo essere alla metà circa degli anni Ottanta, quando i craxiani, il che non vuol dire che fossero anche socialisti, si erano impadroniti di Milano e vi spadroneggiavano alla maniera di don Rodrigo, togliendo le donne “giovani e leggiadre” agli altri, cosa che gli riusciva facile perché erano padroni di una buona metà delle Reti pubbliche e molto presenti nelle Tv di Berlusconi con cui c’era già l’inciucio. Era la “Milano da bere”, peccato che a bersela fossero solo i socialisti.

Allora gli scrittori non erano ancora funzionari di Case editrici e quindi relegati nelle loro sedi periferiche, la Rizzoli in via Civitavecchia, la Bompiani nei pressi di Linate, e quindi vivevano la città interfecondandosi coi ceti popolari di Brera e del Garibaldi. Da Oreste anche un ragazzo alle prime armi, quale ero io, poteva incontrare letterati come Eco o Luciano Bianciardi non ancora distrutto dall’alcol, o pittori e artisti come Sandro e Guido Sommarè che si azzuffavano soprattutto al biliardo perché allora non c’era bar che non avesse un biliardo al posto delle slot.

In quella sera incrociai Pasquale Chessa, vice della cultura de L’Espresso. Chessa mi disse: “Sai qual è il mio vantaggio sui colleghi? Che io arrivo alle feste in cui so che andrà Sechi un quarto d’ora prima di Sechi”. “Una prova di buon giornalismo, davvero”, replicai. Ma Chessa aveva ragione, molte delle carriere si costruivano nei salotti. Lamberto Sechi, potente direttore di Panorama, ne era per così dire un fautore. In non so quale suo compleanno si vantò di aver creato nove direttori e un’infinità di vicedirettori. “Sì, replicai io sulla rubrica ‘La Sculacciata’ che mi aveva affidato su Sette Carlo Verdelli, nove direttori e un’infinità di vicedirettori, ma nessun giornalista”.

Questa era la scuola Scalfari. La scuola radical chic.

Noi dell’Europeo appartenevamo a una scuola diversa. A cominciare dal direttore, Tommaso Giglio, che rifiutò di incontrare Gianni Agnelli che lo aveva invitato a Roma. Ma nemmeno noi redattori eravamo frequentatori di salotti, da Gianfranco Venè, che con Mille lire al mese, un libro tra cronaca e storia che era la sua cifra, raggiunse nel 1988 l’agognato successo per morire poco dopo perché il dio non ama i sogni degli uomini, a Guido Gerosa a Sandro Ottolenghi a Corrado Incerti alla stessa Fallaci. Perdevamo troppo tempo a lavorare. Montanelli disprezzava i salotti, Giorgio Bocca, con la sua scontrosa e scabra timidezza, era proprio negato, come dimostrerà il suo fallimento in tv dove bisogna essere, in un modo o nell’altro, dei “piacioni”.

L’integralismo di Tommaso Giglio, il suo non voler avere rapporti fuori dal giornalismo, era anche l’integralismo della Rizzoli di allora. La poca o nulla dimestichezza con la politica dei suoi dirigenti era quasi commovente. Quando ci fu in Rizzoli uno sciopero dei poligrafici, non solo non avevano il numero di Luciano Lama, segretario della Cgil, ma non sapevano nemmeno come contattarlo. Questa ingenuità politica i Rizzoli la pagheranno a caro prezzo quando Andrea Rizzoli si mise in testa, per superare il complesso di inferiorità nei confronti del padre, di fare un grande quotidiano. Angelo Rizzoli senior, dopo averci pensato per parecchio tempo (sugli edifici della Rizzoli di via Civitavecchia campeggiava già il titolo che aveva in mente, “Oggi. Il quotidiano di domani”, che lì rimase per cinque anni), alla fine decise di non farne nulla. Andrea Rizzoli comprò il Corriere e fu la fine della Rizzoli. È chiaro che se sei padrone di un quotidiano come il Corriere certi compromessi con imprenditoria e finanza li devi fare.

Facciamo un passo indietro e torniamo ai salotti. Un gran protagonista era Carlo Rossella, una sorta di doppelgänger in grande stile di Pasquale Chessa. Molto elegante, non perdeva un’occasione. Rossella l’avevo incrociato quando facevo il cronista de L’Avanti e lui de La Notte, quotidiano del pomeriggio, di destra, diretto da Nino Nutrizio. Eravamo entrambi poco più che ventenni. Rossella mi disse: “Io da un giornalista di cinquant’anni non ho nulla da imparare”. Capii allora che era un cretino, cosa che non gli ha impedito di fare una notevole carriera.

Anche il modo di lavorare di Carlo Rossella era in perfetto stile Rossella. Quando era inviato all’estero scendeva in un albergo a cinque stelle e il suo piacere era, bicchiere di whisky in mano, chiacchierare con l’ambasciatore. Chiunque abbia anche solo annusato il nostro mestiere sa che bisogna scegliere un albergo modesto perché è il primo passo per prendere contatto con la realtà del luogo. Il mestiere dell’inviato non è di far filosofia o geopolitica per meno abbienti, ma di raccontare. Ettore Mo e Lucio Lami, i migliori inviati di esteri, e in particolare di guerra, dell’ultimo cinquantennio, non filosofavano, raccontavano quel che vedevano sul campo. È quello che fa oggi Lorenzo Cremonesi nella guerra russo-ucraina o in quella israelo-palestinese. E nemmeno Cremonesi è uomo da salotto.

Ma facciamo un ulteriore passo a ritroso. Quando ho parlato dei pittori che frequentavano Oreste o il Giamaica, forse non erano ricchi ma certamente non facevano la fame. Erano già lontani i tempi della Latteria delle sorelle Pirovini, quando i pittori schizzavano qualcosa sul tovagliolo e in cambio ne avevano una cena. Con la Latteria delle Pirovini sembrava di ritornare alla Parigi di Montmartre, della Belle Époque e dei successivi anni Trenta, quando tutti gli artisti, tranne Picabia e in seguito Picasso, erano poveri e formavano tra loro una comunità dove, con vari espedienti, ci si dava una mano l’un l’altro. E anche a un ragazzo senz’arte né parte, sia che avesse velleità artistiche sia che non ne avesse, bastava entrare in un caffè per incontrare personaggi che sarebbero diventati famosi di lì a poco. Cosa che mi ricorda, fatte le debite proporzioni, la mia frequentazione giovanile di Oreste. Ecco, oggi una comunità di artisti come quella che si creò nella favolosa Montmartre non esiste più, in nessuna città europea e tantomeno americana.

Il lettore si chiederà, forse, il perché di questo racconto piuttosto scombiccherato. È per riafferrare, attraverso l’aneddotica di quell’arte minore che è il giornalismo, e le sue alternanti vicende ed epoche, e il modo diverso di interpretarla di alcuni protagonisti, un’Italia che fu e una Milano che fu, che, soprattutto ora che i grattacieli di viale della Liberazione mi incombono addosso, grattacieli che puoi ritrovare ad Abu Dhabi o in qualsiasi città del mondo, non riconosco più.

Nostalgia a parte, però una cosa è certa. Il nostro mestiere è diventato irrilevante. Un tempo un editoriale del Corriere poteva far cadere un governo. Oggi gli editoriali del Corriere, e non solo del Corriere naturalmente, servono solo per pulirsi il culo

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