sabato 27 aprile 2024

L’università non è solo un titolo di studio.

La fortuna delle università telematiche esprime una frattura profonda del Paese, è uno specchio delle sue storiche diseguaglianze.

 

(Ernesto Galli della Loggia – corriere.it)

Perché in Italia vi è un numero di università telematiche private, ben 11, superiore a quello di qualsiasi altro Paese occidentale? Chiederselo è tanto più necessario di fronte al loro successo che sta crescendo a vista d’occhio. Non solo infatti le università telematiche — potendosi presso di esse studiare ormai tutto tranne Medicina — contano attualmente per oltre il 10% del totale complessivo degli iscritti al sistema universitario e circa 1 laureato ogni dieci. Ma, a differenza di quanto accaduto finora, queste università cominciano oggi ad attrarre sempre più giovani che per la prima volta s’iscrivono all’università.

Esse mostrano in tal modo una crescente capacità concorrenziale rispetto alle università «fisiche» tradizionali, cioè rispetto alle università pubbliche statali e a quelle come la Cattolica o la Bocconi, private sì, ma organizzate nella forma di fondazione senza fine di lucro e quindi giustamente assimilabili alle pubbliche. Il punto è proprio questo.  
Quasi tutte le università telematiche, a cominciare dalla più grande, sono soggetti di diritto privato che hanno per scopo il profitto e dunque, se conseguono tale scopo stanno sul mercato e si muovono del tutto legittimamente nell’universo degli affari (ricordo ad esempio che qualche tempo fa l’Università Pegaso, la maggiore di esse, è stata venduta dal suo fondatore e proprietario a CVC Capital Partners, un fondo di «private equity» inglese, per la ragguardevole cifra di un miliardo di euro).

Ora, nel corso degli anni, proprio per circoscrivere e diciamo così imbrigliare questa loro natura privatistica le autorità ministeriali e in primis l’Anvur ( l’Agenzia per la valutazione delle Università) hanno cercato di fissare una serie di requisiti obbligatori alle università telematiche, specie riguardo il numero e la qualità dei loro docenti. Lo scopo era quello di assicurare un minimo standard qualitativo e di attenuare il vantaggio competitivo in termini di costo di cui esse godono rispetto alle università pubbliche. Tuttavia, come si legge in un report recente di La voce.info «ancora oggi il rapporto docenti-studenti è nelle università telematiche enormemente più alto che nelle università tradizionali» e «il corpo docente in servizio presso le telematiche è soprattutto costituito da precari (…) in particolare attraverso contratti annuali d’insegnamento». Precari, va detto, che possono essere anche molto bravi ma che proprio il loro status mette in condizione di totale subalternità.

In realtà il vero vantaggio competitivo delle università telematiche non sta tanto nei loro costi di esercizio bensì in altri due fattori. Innanzi tutto nel minor costo a carico degli studenti, – costituito in pratica solo dall’iscrizione ma per il resto annullato dalla didattica a distanza (niente più spese di soggiorno o di viaggio e neppure per i testi, dal momento che in genere l’università fornisce apposite dispense preparate all’uopo dai docenti); e poi, in secondo luogo, nel fatto che ad esse è consentito di rilasciare un titolo di studio dal valore legale identico a quello delle università pubbliche.
Sono questi due punti decisivi e conviene parlarne senza peli sulla lingua. In grande maggioranza coloro che s’iscrivono a un’università telematica sono desiderosi più che altro di un titolo di studio al minor costo e con il minore impegno di studio possibili. Appartengono perlopiù agli strati socialmente ed economicamente meno favoriti della popolazione e le statistiche ci dicono che abitano di preferenza nel Mezzogiorno. 

In Italia, insomma, la fortuna delle università telematiche esprime una frattura profonda del Paese, è uno specchio delle sue storiche diseguaglianze. Che peraltro, invece di essere almeno in parte superate (magari dalle stesse telematiche diversamente organizzate) in tal modo vengono invece ratificate e istituzionalizzate.
Non fosse che per tutto quanto ho appena detto la politica ha pieno titolo a far sentire la sua voce. Ne ha il diritto e il dovere, al fine di dare una risposta al problema centrale posto dall’esistenza di un soggetto privato orientato al profitto che ha la possibilità di rilasciare titoli di studio di pieno valore legale. E cioè : garantire che il rilascio del titolo di studio presso le università telematiche avvenga unicamente previo l’obiettivo accertamento dei meriti del candidato e non già per conseguire più facilmente l’obiettivo per cui un tal tipo di università in massima parte esiste, vale a dire fare più profitti assicurando un facile successo a chi s’iscrive ai propri corsi. Aprire un’università e rilasciare titoli legali di studio non può essere la stessa cosa che aprire un supermercato.

 Ci sono molte e buone ragioni, insomma, perché su tutta la materia si imponga un controllo da parte della politica. Ottime e buone ragioni perché su questa strada la politica riprenda il ruolo che essa aveva prima della grande rivoluzione culturale degli anni ‘60 del Novecento che con le sue dirompenti spinte individualistiche dal basso ha reso sempre più difficile ogni ruolo direttivo nei confronti della società, e sempre più difficile anche alla politica di alimentare visioni e progetti generali fondati su valori forti. In nessun ambito come in quello dell’istruzione c’è oggi bisogno, invece, che proprio la politica si riappropri dell’orgoglio che in democrazia è solo suo di rappresentare in forza dell’investitura elettorale l’interesse di tutti.

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