giovedì 11 aprile 2024

DANIELA RANIERI. Marx e il capitale nella borsa chic.

LAVORO E VALORE – Le teorie del grande economista tedesco spiegano perfettamente le pratiche odierne della produzione del lusso: come le sacche pagate al produttore 90 euro e rivendute nei negozi a 1.800.

 

(DANIELA RANIERI – ilfattoquotidiano.it)

Peccato non avere più una sinistra in Italia: qualche parlamentare avrebbe potuto alzarsi dai banchi su cui oggi i politici vecchi e giovani passano il tempo chattando su WhatsApp o scrivendo scemenze sui social, o prendere il microfono nel corso di una di quelle interviste per strada da cui si ricavano pastoni di stronzate per i Tg, per dire perentoriamente che è ora di smetterla con lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.

Roba vecchia, obsoleta, già rottamata da apposito Jobs Act renzista con conseguente cancellazione dell’articolo 18 e ridicolizzata come fissa da parrucconi dai giornali progressisti.

Quel che emerge nell’ambito dell’inchiesta per sfruttamento del lavoro con cui il tribunale di Milano ha messo in amministrazione giudiziaria la Giorgio Armani Operations è la pedissequa prova che Marx aveva ragione, e aveva descritto tutto al dettaglio. Libro Primo, capitolo 23 de Il Capitale: “La forza-lavoro non è comprata per soddisfare mediante il suo servizio o il suo prodotto i bisogni personali del compratore”; vale a dire che Giorgio Armani, coi suoi soci compratore ultimo della forza-lavoro, non sfrutta il lavoratore cinese per vivere nel lusso; “lo scopo del compratore è la valorizzazione del suo capitale, la produzione di merci che contengano una maggior quantità di lavoro di quella che paga, che contengano quindi una parte di valore che a lui non costa nulla e che ciò nonostante viene realizzata mediante la vendita delle merci”. Per capirci: Giorgio Armani vende una borsa a 1.800 euro. Vedendola luccicare dalla vetrina o sulle riviste patinate, ci si immagina fabbriche lucenti in cui lavorano geni della moda che cuciono a mano mentre Giorgio vigila sorridente. Invece, la Armani appalta la produzione della borsa ad aziende appaltatrici italiane; queste, per il sistema piramidale tipico di ogni settore del lavoro attuale (non del 1848), non hanno nemmeno una sede di produzione, e subappaltano la produzione ad altre aziende, cinesi. Perché cinesi? Per abbattere il costo del lavoro, sfruttando il più possibile i lavoratori. Cucire borse 16 ore al giorno consumandosi gli occhi e il naso con coloranti chimici per 2-3 euro l’ora è uno dei lavori che gli italiani divanisti non vogliono più fare. Le aziende italiane oggetto dell’inchiesta della Procura sono la Manifatture Lombarde e la Minoronzoni, che comprano la borsa finita a 93 euro e la rivendono a Armani a 250, la quale Armani (non indagata), la rivende a 20 volte il prezzo di produzione. Ma Armani lo sa? Quando i carabinieri di Tutela del Lavoro sono entrati in uno di questi opifici cinesi vi hanno trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations che faceva il “controllo di qualità”. Delle condizioni dei lavoratori? No, dei prodotti. Verificava che le colle usate fossero resistenti al sole, che la pelle fosse morbida, etc., come la clientela di lusso esige da un marchio tanto. Come dice Marx, “la produzione di plusvalore o il fare di più è la legge assoluta di questo modo di produzione”. Cosa vuol dire “fare di più”? Che il capitalista deve aumentare sempre di più la quota di lavoro non retribuito necessario per produrre una merce e “rivestirla” di plusvalore. Altrimenti, “si ottunde lo stimolo del guadagno”.

I salari potrebbero pure aumentare, senza che ciò faccia diminuire i profitti degli imprenditori (è ciò che succederebbe se si facesse finalmente una legge sul salario minimo, voluta dal M5S, prima osteggiata poi debolmente appoggiata poi voluta anche dal Pd, avversata dai liberali, da alcuni sindacati e dalla finta underdog Meloni); solo che, mannaggia, così si ridurrebbe l’accumulazione di capitale, che è come l’accelerazione crescente di un razzo supersonico.

Armani, come altri marchi simbolo del lusso italiano per cui i ricchi turisti russi, arabi, giapponesi fanno follie, è un’azienda la cui merce luccica perché possiede una patina ulteriore assicurata dalla comunicazione e dal marketing: comprando una borsa Armani non si compra solo un prodotto fatto di materiale resistente ai raggi solari e pelle morbida, ma l’eleganza, l’abbondanza, il fascino italiani, anche se è stata materialmente fabbricata da cinesi sfruttati che lavorano senza misure di sicurezza (nelle aziende lombarde erano stati rimossi i dispositivi di sicurezza dei macchinari, gli estintori erano senza revisione e i materiali chimici e infiammabili non erano custoditi correttamente) e dormono in fabbrica su materassi accatastati per terra coi cucinini dentro i bagni.

Ha voglia il ministro del “Made in Italy” Urso a dare avvio in pompa magna al “nuovo ciclo di attività del Consiglio Nazionale per la Lotta alla Contraffazione e all’Italian Sounding”, per difendere “la Proprietà Industriale dalla concorrenza di operatori economici sleali”, fingendo di non vedere che la borsa tarocca e quella ‘vera’ sono prodotte dallo stesso operaio sfruttato e che i concorrenti sleali (di forza-lavoro) sono in casa nostra. E non è detto che lo sfruttato sia cinese: quanto prende il fattorino del corriere che ci consegna la borsa Armani quando la compriamo sul sito del venditore?

Nel sistema piramidale del capitale ogni nodo della filiera è truccato, a garanzia del padrone e dei padroni politici che gli reggono il moccolo. Basta non fare nessuna legge e ignorare l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ma davvero?

Marx lo dice così: “La grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa”, brutale e chiarissimo.

Nessun commento:

Posta un commento