Manette e guinzaglio a catena, saldamente tenuto in mano da un agente: le immagini del processo ungherese a Ilaria Salis dovrebbero scandalizzare l’Italia e l’Europa più degli abbracci di Victor Orban a Vladimir Putin e delle sue intemerate contro «l’Unione stupratrice».
(FLAVIA PERINA – lastampa.it)
Sono la prova provata che nello spazio di libertà che immaginiamo di abitare, nel Continente dello Stato di diritto che celebriamo ogni giorno, esiste un’area franca in cui una militante coinvolta nei tumulti contro una manifestazione neonazista può essere trattata così. Come un animale da tenere al laccio.
Il processo è stato rinviato al 24 maggio e non si sa come finirà: Ilaria Salis rischia 11 anni di carcere. In aula erano presenti i genitori, che Salis ha potuto rivedere solo nel settembre scorso dopo sei mesi di detenzione senza alcun contatto, e soltanto in due colloqui. Il suo avvocato non ha potuto presentare richieste probatorie perché gran parte degli atti non sono stati tradotti e la difesa non ha avuto accesso ai filmati dell’accusa. L’idea che la giustizia ungherese ha dei diritti di una detenuta è risultata evidente dalle modalità del suo ingresso in aula: non solo le catene ma pure la vigilanza di due colossi in tenuta antisommossa, col volto celato dai passamontagna, che hanno affiancato l’imputata a ogni passo neanche fosse Pablo Escobar.
Non c’è aula giudiziaria d’Europa dove queste siano considerate modalità accettabili, per quanto gravi siano le accuse. Persino gli jihadisti del Bataclan o il pluriomicida di Utoya sono entrati in tribunale a mani libere e hanno potuto sedersi vicino ai loro avvocati. Il pieno riconoscimento dei diritti della difesa è considerato, ovunque, il pilastro indispensabile di un verdetto che non appaia un atto di ritorsione o di vendetta. Per la democratura ungherese il problema, evidentemente, non si pone, anzi: l’esibizionismo securitario di ieri contiene un chiaro messaggio agli alleati, e persino al governo amico dell’Italia. Da noi si fa così, se non vi piace amen.
Che il caso Salis sia per l’Ungheria un caso simbolico, su cui costruire un messaggio al tempo stesso revanchista e intimidatorio, lo conferma l’accanimento su un’imputazione in apparenza di poco conto: le due presunte vittime dell’aggressione contestata hanno riportato lesioni guaribili in 6 e 8 giorni e non hanno sottoscritto alcuna denuncia. Erano in piazza per il cosiddetto “Giorno dell’onore” che celebra la resistenza nazista all’Armata Rossa: una manifestazione che sarebbe in teoria vietata ma continua a riunire, anno dopo anno, skinheads e neonazisti da tutta Europa, e ovviamente è catalizzatore anche dei contestatori di opposto segno. E anche qui il corto circuito è evidente: è difficile immaginare come pienamente europeo un Paese dove ogni 9 febbraio è normale imbattersi in cosplayer in divisa da SS e zaini con la croce uncinata.
“L’anomalia ungherese” ci dice, con questo processo, che ha intenzione di rimanere tale non solo nelle grandi questioni che la oppongono al resto d’Europa, come gli aiuti all’Ucraina, ma anche – soprattutto – nella gestione autocratica di ogni potere e conflitto interno, dove il metro che misura l’azione dello Stato sono gli interessi del governo e del suo capo: bene skin e neonazi che tutto sommato condividono il verbo identitario e il vangelo anti-immigrati del sistema, male, malissimo, chi attraversa le frontiere per accapigliarsi con loro.
Ilaria Salis forse ha preso parte a un pestaggio insieme a un gruppo di anarchici, forse no: lei si dice innocente. Ma suo malgrado è diventata la bandiera di un ammonimento molto più largo, non molto dissimile a quello riservato da ogni dittatura agli “stranieri” che si impicciano delle loro questioni interne. E si capisce perché il governo italiano, che pure si sta interessando alla vicenda, avanzi con i piedi di piombo. Evidenziare con troppa veemenza l’assoluta anomalia del trattamento ungherese nelle carceri e nei tribunali significherebbe avallare gli allarmi sulla deriva antidemocratica di quel Paese.
E tuttavia qualcosa si muove. La Farnesina si è interessata al caso. È stata superata la fase in cui Salis era descritta dalle destre come «il nuovo caso Cospito» costruito dalle sinistre intorno a una «sedicente maestra» in realtà attivista di un gruppo militarizzato, e si è capito che in questa storia è in gioco anche la reputazione italiana e il rispetto dovuto ai diritti dei nostri cittadini. Le immagini dell’imputata alla catena hanno fatto il resto: il ministro degli Esteri Tajani ieri ha chiesto al governo ungherese di “vigilare e intervenire”, ricordando che Salis è una carcerata (da un anno!) in attesa di giudizio e che ci sono norme comunitarie a tutela della dignità dei detenuti. Si ipotizza il trasferimento ai domiciliari, magari in Italia, visto che il processo potrebbe richiedere altri lunghi mesi.
L’augurio ovviamente è che la diplomazia arrivi dove il diritto ungherese non è ancora arrivato. Resteranno comunque le immagini di quelle catene e di quel guinzaglio, insieme col racconto di una detenzione medievale tra topi e brodaglie: testimonianza innegabile che le sanzioni dell’Europarlamento alla “anomalia ungherese” non sono invenzioni radical-chic o attacchi a uno Stato sovrano ma tentativi di difendere il nostro modello di civiltà e diritti, quello che fa la differenza tra cittadini e sudditi.
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