martedì 28 febbraio 2023

Palestina, il massacro di Nablus

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I – Massacro a Nablus



L’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città vecchia di Nablus la mattina del 22 febbraio, durante l’ora di punta, mentre gli studenti erano a scuola, circondando una casa e sparando in tutte le direzioni proiettili, gas lacrimogeni e bombe sonore. Il risultato è stato un altro massacro, simile a quello del 26 gennaio a Jenin. Questa volta, i morti sono stati 11 e il loro numero è destinato a crescere, visto che tra i più di 100 feriti ve ne sono di molto gravi. La Mezzaluna Rossa di Nablus non ha potuto soccorrerli subito a causa degli ostacoli frapposti dalle forze di occupazione. Ecco la lista di questi ultimi morti: Adnan Saabe Baara, di 72 anni, Anan Showkat Annab, 66, Abdul Hadi Abdul Aziz Ashqar, 61, Tamer Nimr Minawi, 33, Musab Munir Awais, 26, Mohammad Khaled Anbousi, 25, Hussam Bassam Isleem, 24, Mohammad Abdul Fattah Abdul Ghani, 23, Walid Riyad Dkhail, 23, Jaser Jamil Qanier, 23, e Mohammad Farid Shaaban, 16. Con la loro uccisione si arriva a 62 palestinesi eliminati dall’esercito israeliano dall’inizio dell’anno, compresi 13 minorenni.Si tratta di una vera e propria campagna di terrore, che mira ad annientare un popolo sotto occupazione, anziché proteggerlo come prevede il diritto internazionale. Il popolo palestinese ha bisogno, merita e ha il diritto di essere protetto: se non lo fa la potenza occupante lo deve fare la comunità internazionale, obbligata in questo senso dal diritto internazionale umanitario. Israele non può restare l’unico Paese al mondo che non rispetta le leggi e a cui le leggi non vengono fatte rispettare.Durante un incontro a Ramallah con la Vicepresidente del Parlamento Europeo, Nicola Beer, all’indomani della strage, il Premier palestinese, Mohammad Shtayyeh, ha avvertito che la situazione nei Territori Occupati è estremamente grave e si avvia verso un’ulteriore escalation. Per questo, la leadership palestinese ha chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonché la convocazione dei Rappresentanti Permanenti della Lega Araba – che si sono visti al Cairo – e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) – che ha parlato di “terrorismo di Stato” – al fine di condannare il massacro e assicurare la protezione internazionale al popolo palestinese. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, dicendosi “profondamente turbato dal ciclo continuo di violenze e scioccato da così tante perdite tra i civili”, ha promesso di lavorare per calmare la situazione. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Turk, ha espresso in particolare la sua preoccupazione per l’uso di armi esplosive da parte delle forze di occupazione israeliane, sottolineando che un’operazione del genere denota un evidente “disprezzo per la vita e la sicurezza degli astanti”. E’ per ribellarsi a tutto questo che, il 23 febbraio, nei Territori Palestinesi si è tenuto uno sciopero generale sostenuto da tutte le forze politiche.

II – L’ONU accusa Israele di “domicidio”
La comunità internazionale deve agire per fermare la sistematica demolizione e l’impiego di sigilli sulle abitazioni palestinesi, gli sgomberi e i trasferimenti forzati nella Cisgiordania occupata, hanno ammonito il 13 febbraio gli esperti delle Nazioni Unite Francesca Albanese, Relatrice Speciale sulla Situazione dei Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967, Balakrishnan Rajagopal, Relatore Speciale sul Diritto a un Alloggio Adeguato, e Paula Gaviria Betancur, Relatrice Speciale sui Diritti Umani degli Sfollati.
Solo nel mese di gennaio del 2023, secondo quanto riferito, le autorità israeliane hanno demolito 132 strutture palestinesi in 38 comunità nella Cisgiordania Occupata, comprese 34 strutture residenziali e 15 strutture finanziate da donatori. Questa cifra rappresenta un aumento del 135% rispetto allo stesso periodo del 2022 e include cinque demolizioni punitive.
“La demolizione sistematica delle case palestinesi, la costruzione di insediamenti israeliani illegali e il sistematico rifiuto di permessi di costruzione per i palestinesi nella Cisgiordania Occupata equivalgono a ‘domicidio’”, hanno scritto nel loro Report gli esperti, ribadendo la propria preoccupazione per la situazione a Masafer Yatta, dove oltre 1.100 residenti palestinesi sono ancora a rischio di sgombero forzato e sfollamento arbitrario, previa demolizione delle loro case e distruzione dei loro mezzi di sostentamento, comprese le strutture idriche e igienico-sanitarie. Nel novembre del 2022, le autorità israeliane hanno già demolito una scuola finanziata da donatori a Isfey Al-Fauqa e altre quattro scuole della zona sono adesso in fase di demolizione.
Si tratta, secondo gli esperti, del “tentativo da parte di Israele di limitare il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, minacciando la loro stessa esistenza”. Tattiche che non sembrano avere limiti, se si pensa che ciò accade anche a Gerusalemme Est, dove “un regime discriminatorio di pianificazione territoriale e urbanistica favorisce l’espansione degli insediamenti israeliani, compiendo un atto illegale secondo il diritto internazionale, che costituisce un crimine di guerra”.
Gli esperti si sono poi soffermati sull’approvazione da parte del governo israeliano di misure punitive contro i presunti autori di attacchi “terroristici” e i loro familiari, come la revoca della cittadinanza, dei documenti di identità, della residenza e della previdenza sociale. Il 29 gennaio, le autorità israeliane hanno infatti annunciato misure per mettere immediatamente i sigilli alle case delle famiglie di coloro che erano sospettati di aver compiuto degli attacchi a Gerusalemme Est occupata. Così, due famiglie di presunti aggressori sono state cacciate con la forza dalle loro case, mentre più di 40 persone, compresi alcuni membri di queste famiglie, sono state arrestate.
“Lo stato di diritto deve prevalere in qualsiasi azione dello Stato contro gli atti di violenza. Il sigillo apposto alle case dei familiari di presunti autori di reato e la successiva demolizione di queste stesse case rappresenta una totale mancanza di rispetto dello stato di diritto e delle norme internazionali sui diritti umani. Tali atti equivalgono infatti a punizioni collettive che sono severamente vietate dal diritto internazionale”, hanno affermato gli esperti. “Ci rammarichiamo che prevalga l’impunità, in particolare per le violazioni dei diritti umani e i potenziali crimini di guerra commessi dalla potenza occupante. È giunto il momento che gli organi di giustizia internazionale determinino la natura dell’occupazione israeliana e rintraccino i responsabili di tutti i crimini commessi nei Territori Palestinesi Occupati”, hanno concluso gli esperti delle Nazioni Unite che, pur avendo ripetutamente sollevato la questione con il governo di Israele, non hanno per ora ricevuto alcuna risposta.
A meno che non si vogliano considerare risposte, anche piuttosto esplicite, la legge approvata dalla Knesset il 15 febbraio per revocare cittadinanza e residenza ai palestinesi detenuti per presunti “atti di terrore” che ricevono assistenza finanziaria dall’Autorità Palestinese (AP) e vivono in Israele o a Gerusalemme Est; o le demolizioni che Israele continua ad infliggere alla popolazione palestinese, ultime delle quali quelle avvenute il 22 febbraio nelle aree di Gerico e Betlemme.
Aprendo la Sessione 2023 del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è tuttavia stato chiaro: “In tutta la Cisgiordania Occupata e a Gaza, la disperazione si sta diffondendo, alimentando rabbia e disperazione. Ogni nuovo insediamento è un altro ostacolo sulla via della pace”, mentre “lo status di Gerusalemme non può essere alterato da azioni unilaterali”. Una pace giusta, ha concluso Guterres, si ottiene solo “ponendo fine all’occupazione e realizzando la soluzione dei due Stati”.

III – Incontro al vertice su Gerusalemme
Il Presidente Mahmoud Abbas ha partecipato alla Conferenza a sostegno di Gerusalemme che si è tenuta al Cairo, presso la sede della Lega Araba, lo scorso 12 al febbraio. La Conferenza mirava ad internazionalizzare la questione di Gerusalemme e a sostenere la determinazione dei suoi residenti palestinesi a resistere nonostante i continui attacchi israeliani contro di loro, contro la città e i suoi luoghi sacri islamici e cristiani, e di fronte ai tentativi israeliani di giudaizzare la Città Santa, divenuti ancor più evidenti dopo la formazione del governo di estrema destra che vuole distruggere la soluzione dei due Stati. Un altro proposito della Conferenza era poi quello di discutere i modi per aiutare concretamente gli abitanti di Gerusalemme, presentando uno studio per il finanziamento di circa 30 progetti di sviluppo e investimento proposti dallo Stato di Palestina, nel campo della salute, dell’istruzione, dell’alloggio e dell’emancipazione femminile. La Conferenza doveva poi concludersi con la formazione di un Comitato di esperti arabi specializzati in diritto internazionale, per fornire consulenza legale sui casi di violazioni da parte delle forze di occupazione israeliane, con particolare riferimento a quelle commesse a Gerusalemme.
In questa occasione, il Presidente della Palestina ha ribadito che “sostenere Gerusalemme e rafforzare la determinazione di coloro che vi abitano non è solo un dovere religioso, ma anche un imperativo umanitario e nazionale”, ricordando che “la battaglia per Gerusalemme non è cominciata solo il giorno della sua occupazione nel 1967, ma diversi decenni prima, ancor prima della Dichiarazione Balfour, emanata dalle potenze coloniali nel 1917”.

IV– Storie di calcio palestinese
Natali Shaheen, campionessa palestinese di calcio già capitana della nazionale palestinese, è nata a Gerico 28 anni fa e dal 2018 risiede a Sassari, dove studia e dove, entrando nella squadra di calcio a 5 Sassari Torres, in categoria A2, è diventata la prima palestinese in un club europeo, passando poi all’Athena Sassari, prima nella formazione a 11 e poi in quella a 5, sempre in A2.
Per ripercorrere il suo viaggio – avvenuto grazie al sostegno dell’associazione sarda Ponti non Muri, impegnata in progetti di sviluppo nei Territori Palestinesi – questa atleta ha pubblicato il libro “Un calcio ai pregiudizi. Dalla Palestina alla Sardegna dribblando ogni ostacolo”: un’occasione per parlare anche del rapporto tra donne e sport, sullo sfondo della questione israelo-palestinese. “L’occupazione militare israeliana influenza la vita di tutti”, spiega Natali, “e per me che abitavo in un’altra città, giocare a Ramallah ha significato dover tenere duro. Perché le forze israeliane decidono tutto: chiudono le strade e tengono la gente in fila per ore. All’andata sfruttavo le attese studiando, ma a ritorno, col buio, non potevo”.
Ricordando gli ultimi Mondiali in Qatar, Natali ha detto: “La nazionale palestinese non si era qualificata, ma quella del Marocco e della Tunisia, insieme a tanti tifosi di tutto il mondo, hanno sventolato la nostra bandiera e quindi ci è sembrato di essere lì”. Un appuntamento, quello nel primo Paese arabo ad ospitare la Coppa del Mondo, “molto importante perché ha promosso cambiamenti sia nella mentalità dei qatarini che in quella di tutti gli arabi che hanno seguito le partite dal vivo o in tv: non è infatti scontato – ricorda la calciatrice – vedere donne negli stadi o in strada a festeggiare”. Come non è scontato che i giovani palestinesi possano realizzare i propri sogni. Si sono infranti in maniera violenta quelli di Ahmad Atef Mustafa Daraghma, un calciatore come lei. Giocava in Palestina nella Thaqafi di Tulkarem, e ha perso la vita a 23 anni, nel pieno delle sue forze, ucciso dall’esercito israeliano all’alba del 22 dicembre, nella città di Nablus, quella che gli occupanti continuano a prendere di mira. Anche di questo dovrebbe occuparsi la FIFA.

 

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