sabato 25 febbraio 2023

L’esempio francese (e quello inglese) (non faremo la fine dell'italia)

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In questi giorni stiamo assistendo ad una grande esplosione di lotte e di scioperi in due grandi paesi europei: la Francia e la Gran Bretagna.

In Francia è ripresa la lotta per contrastare la controriforma delle pensioni, già tentata in passato da Macron sulla scia delle analoghe già applicate in tutta Europa, e anche in Italia, che fu arginata dall’enorme mobilitazione che seppero mettere in campo i lavoratori e i sindacati francesi, fino a determinare la caduta dell’allora Presidente del Consiglio francese.

In Gran Bretagna è in corso una grande ondata di scioperi con l’obiettivo di far recuperare ai salari il pesante ridimensionamento subìto a causa dell’inflazione.
Il Trade Union Congress ha calcolato in 203 sterline in meno al mese la perdita di salario di un lavoratore medio del settore pubblico inglese dal 2010 ad oggi.

Molto meno di quanto hanno perso i lavoratori italiani, pubblici e privati, in un periodo all’incirca analogo, che è stato calcolato attorno al 30% di perdita di salario reale.

Ma in Italia tutto tace, tutto è fermo, in Italia si disquisisce se lo sciopero sia ancora efficace (ovviamente senza proporre alternative), si continuano a contrapporre i lavoratori pubblici a quelli privati, i “privilegiati” a tempo indeterminato ai precari, qualcuno identifica solo in una piccola parte dei lavoratori la “nuova classe rivoluzionaria”, condannandosi ad un minoritarismo privo di sbocchi, anche se avvolto di “frasi scarlatte”.

Guardando i milioni di lavoratori che sono scesi in sciopero e hanno manifestato in tutta la Francia, non sembra difficile capire quale sia la composizione di classe oggi, basta non guardare alla forma giuridica del rapporto di lavoro, cioè: contratto a tempo indeterminato, part time, a tempo determinato, a partita IVA, interinale, di apprendistato ecc., ma guardare laddove già Karl Marx aveva guardato: ai rapporti di produzione.

Sono i rapporti di produzione a determinare la classe di appartenenza non la tipologia del lavoro o, peggio, la forma giuridica che lo regola.
Se un lavoratore è un dipendente, un salariato, dal cui lavoro il padrone trae plusvalore, questo lavoratore fa parte della classe.

A costo di appesantire un po’ questo articolo credo che sia importante inserire una citazione di un passaggio del Capitale, libro primo, capitolo 14, “plusvalore assoluto e plusvalore relativo”.
In questo passaggio Marx dice:
L’uomo singolo non può operare sulla natura senza mettere in attività i propri muscoli sotto il controllo del suo cervello.
Come nell’organismo naturale mente e braccio sono connessi, così il processo lavorativo riunisce lavoro intellettuale e lavoro manuale. Più tardi questi si scindono fino all’antagonismo e all’ostilità.

Il prodotto si trasforma, in genere, da prodotto immediato del produttore, del produttore individuale, in prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel maneggio dell’oggetto del lavoro.
Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto di lavoro produttivo e del veicolo stesso di esso, cioè del lavoratore produttivo.

Ormai, per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate.

La sopra citata definizione originaria del lavoro produttivo, che è dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso.
Ma non vale più per ogni suo membro, singolarmente preso.

La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merci, è essenzialmente produzione di plusvalore.

Se ci è permesso scegliere un esempio fuori dalla sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola.
Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica di istruzione invece che in una fabbrica di salsicce non cambia nulla nella relazione.

Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione tra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale.

(N.B. Il grassetto è mio)

Sembra quasi che Marx stia parlando del lavoro e dei lavoratori di oggi, non dell’800.
Tra l’altro l’esempio è eccezionale perché è un caso di quello che oggi viene chiamato con molta enfasi “lavoro immateriale” che secondo alcuni benpensanti sconvolgerebbe tutte le categorie “classiche” del lavoro.
Se noi applichiamo il concetto di Marx alle varie forme del lavoro attuali, vediamo che in modo diverso celano tutte la stessa sostanza di lavoro salariato che produce plusvalore per il capitalista.
Questo vale per il lavoratore a tempo indeterminato come per il precario, per la finta partita IVA come per il lavoratore interinale, per l’apprendista come per il lavoratore in “nero”, come pure per i riders.
Ma non solo! Vale per l’operaio della FIAT come per l’insegnante, per il muratore come per il programmatore informatico, ecc.

Quello che cambia è il grado di sfruttamento a cui il lavoratore è sottoposto e la quantità di plusvalore che il capitalista estrae dal suo lavoro, cambia un certo grado di sicurezza e continuità del lavoro e una maggiore o persino totale precarietà, ma queste differenze sono introdotte dai padroni per aumentare i loro profitti e dividere, cercando di contrapporre tra loro, i lavoratori.

Quella che è cambiata è sicuramente la composizione della classe tra le varie figure citate e anche altre, nell’800 la parte che diventava sempre più predominante era quella dell’operaio di fabbrica e questa tendenza è continuata fino agli anni ‘60 del 900, i servizi erano sicuramente minimi rispetto al livello attuale, e in generale il lavoro immateriale era meno sviluppato e comprendeva meno figure, è questo che ha portato a concepire l’operaio come l’operaio di fabbrica ma, come abbiamo visto, Marx aveva una concezione dell’operaio molto più ampia di quella che fu (mal) intesa dopo.
Rimane il fatto che la grande fabbrica, concentrando un grande numero di operai insieme ad un alto livello di sfruttamento, era la base materiale più propizia per sviluppare la lotta di classe.

Vediamo ora un altro aspetto che fa parte della cosiddetta “narrazione” che le classi dominanti, attraverso i loro apparati mediatici, stanno diffondendo da decenni: “i giovani devono capire che non esiste più il posto fisso” (e quindi accettare la la precarietà).

La tabella qui sotto riporta i numeri dei lavoratori dipendenti in Italia, dal 1992 al 2019 (28 anni) riportando il numero totale dei lavoratori dipendenti, il numero di essi a tempo indeterminato, di quelli a tempo parziale (ma indeterminato) e di quelli a tempo determinato.

Si osserva che nei 28 anni esaminati il numero totale dei lavoratori dipendenti è salito da poco più di 15 milioni a poco meno di 18 milioni.
Il numero dei lavoratori a tempo indeterminato è passato da poco meno di 14 milioni a poco più di 15 milioni.
I lavoratori a tempo determinato sono passati da poco meno di 2 milioni a poco meno di 3 milioni.
Il primo dato, eclatante, è che il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato del 20%, attenzione, in una situazione di stasi demografica, cioè con circa lo stesso dato totale di popolazione.


Il secondo dato eclatante è che i lavoratori a tempo indeterminato non sono diminuiti, anzi, sono aumentati anche se lievemente.

A questo punto è interessante capire se questa crescita può essere dovuta ad una crescita del settore pubblico o di quello privato (più legato al mercato).
Dalla tabella seguente si vede che, prendendo in esame lo stesso periodo, a partire dal 1992 il numero dei lavoratori pubblici è diminuito di circa 300 mila unità, ma bisogna considerare che settori del pubblico impiego sono stati privatizzati, come le Poste o molte municipalizzate.

Compito dei comunisti e dei sindacati che vogliono essere realmente tali, è quello di aprire gli occhi ai lavoratori, far comprendere loro l’appartenenza ad una unica classe, produrre piattaforme e obiettivi che unifichino tutti i lavoratori salariati e, di conseguenza, le loro lotte.

Cose che in Italia non si verificano da alcuni decenni.

Considerando, quindi, questo trasferimento di lavoratori dal settore pubblico a quello privato ne consegue che in circa 30 anni non vi è stata diminuzione nel numero dei lavoratori a tempo indeterminato, tanto meno nel complesso del lavoro dipendente, che è aumentato.
Se poi consideriamo che a partire dagli anni ‘90 una quota di lavoratori dipendenti è stata “mascherata” nella voce delle (false) partite IVA, l’aumento reale è stato ancora più consistente.

Dato che dagli anni ‘90 ad oggi le classi dominanti hanno avuto sostanzialmente mano libera nella gestione della forza lavoro i dati precedenti ci dicono che la struttura attuale, non solo della produzione, ma di tutto il lavoro dipendente in generale, non può fare a meno del lavoratore a tempo indeterminato, qui sarebbero da approfondire i motivi ma non lo faccio per questioni di spazio.

Attiro solo la vostra attenzione sul rapporto tra lavoratori a tempo indeterminato e precari che è di 5 a 1, cioè l’84% dei lavoratori dipendenti è a tempo indeterminato e il 16% è precario.

È grave che le forze sindacali e politiche, in Italia, non abbiano contestato la falsa narrazione delle classi dominanti, e che addirittura forze che si definiscono comuniste o antagoniste abbiano abbracciato la visione propugnata dall’avversario di classe, sostenendo esse stesse la fine del lavoro a tempo indeterminato e la sostituzione come riferimento di classe del lavoratore “classico” con il precario.

Torniamo ora alla Francia e all’Inghilterra dove, a quanto pare, i lavoratori ce l’hanno chiaro che sono una classe e che solo collettivamente, e non individualmente, come si pensa, oggi in Italia, possono risolvere i loro problemi.

Mick Lynch, segretario del sindacato inglese RMT, in un comizio ha detto:
“La classe lavoratrice è tornata… ci rifiutiamo di essere docili, ci rifiutiamo di essere umili, …ci rifiutiamo di essere poveri… Loro agiscono nei loro interessi di classe. È tempo che anche noi agiamo nel nostro interesse di classe”.

Da questo quadro ne deriva che in Italia il problema non è oggettivo, ma soggettivo.

In Francia abbiamo visto tutti i principali sindacati mobilitarsi assieme su una piattaforma comune, per avere la forza per vincere.


In Italia, molte volte, perfino i sindacati di base, che sono i più combattivi, si sono fatti la “guerra” o più bonariamente fatti la “concorrenza” con mobilitazioni contrapposte, o per lo meno alternative, scegliendo date diverse per mobilitazioni con, sostanzialmente, gli stessi contenuti.

Si sono scissi almeno quanto lo hanno fatto i vari partiti comunisti, anche perché il “peccato originale” di alcuni di questi sindacati è stato quello di essere molto ideologici, quasi più gruppi politici che organizzazioni sindacali, e sulla base di scelte politiche si sono divisi e contrapposti.
Per questi motivi, dopo 50 anni dalla nascita dei primi sindacati di base, nessuno di questi è riuscito a conquistarsi un peso significativo tra i lavoratori, e questo nonostante i disastri dei sindacati confederali.

I sindacati confederali, compresa la CGIL si stanno sempre più trasformando in “centri servizi”, in un rapporto con i lavoratori che è sempre più e solo individuale, di consulenza e assistenza.

Nonostante il totale fallimento della “Concertazione” sono rimasti imprigionati nella sua logica e nella sua pratica, senza riuscire a (ma neppure volere) praticare le lotte e il conflitto sindacale per ottenere degli obiettivi.

Queste problematiche sono anche la conseguenza della mancanza di una soggettività comunista che, sviluppando un intervento nei sindacati, ne può rafforzare la natura di classe; in sua assenza altre sono le ideologie che egemonizzano i sindacati, quella liberaldemocratica del PD, oppure quella radicaleggiante della cosiddetta sinistra antagonista.

Come stanno dimostrando la Francia e l’Inghilterra le condizioni oggettive per il ritorno in campo del movimento dei lavoratori ci sono tutte ma, come già sapevamo dalle esperienze storiche del movimento operaio, se non esiste una soggettività politica di classe i lavoratori di per sé non sono in grado di produrre spontaneamente una conflittualità che vada oltre il livello locale o di luogo di lavoro, tanto più se oltre al livello politico anche quello sindacale presenta le lacune e le debolezze cui abbiamo fatto cenno.

È questo uno dei principali motivi, assieme ad altri, come per esempio il pericolo della guerra e il contrasto dell’imperialismo, che ci spinge a ritenere necessario l’avvio di un processo di ricostruzione di un Partito Comunista in Italia adeguato alla situazione sociale e politica di questo tempo che stiamo vivendo e capace di svolgere un’azione incisiva su di essa.

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