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di Alessandro Bagnato
Le recenti sentenze della Corte Costituzionale sugli obblighi vaccinali sono di una gravità estrema, tali che un integrale recepimento dei principi in esse esposti riporterebbe la convivenza umana a uno stato non solo pre-democratico ma pre-giuridico
Ritengo le recenti sentenze della Corte Costituzionale sugli obblighi vaccinali di una gravità estrema, tali che un integrale recepimento dei principi in esse esposti riporterebbe la convivenza umana a uno stato non solo pre-democratico ma pre-giuridico.
Non avendo in questa sede lo spazio per esaminare tutti gli aspetti problematici delle pronunce, mi limiterò a motivare la tesi che ho esposto evidenziandone gli elementi a mio parere più pericolosi.
La scienza del Partito
La presidente della Corte ha affermato in più occasioni che per scrivere queste sentenze il collegio si è affidato alla scienza. Purtroppo emerge che la Corte ha della scienza un’idea insieme confusa e pericolosa: la identifica con la posizione degli enti governativi deputati a gestire la politica sanitaria. In questo modo i giudici si esimono dal verificare nel concreto il dibattito scientifico e si limitano a valutare se la normativa impugnata “sia suffragata e coerente….rispetto alle conoscenze medico-scientifiche …quali tratte dagli organismi nazionali e sovranazionali istituzionalmente preposti al settore” . Il compito delle Corte viene così autolimitato a “confrontarsi, innanzitutto, con i contributi elaborati dall’Aifa, dall’ISS, dal Segretariato generale del Ministero della Salute e dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria”
.Che gli enti presi come riferimento facciano tutti parti del Ministero della Salute e che il governo ne abbia il controllo completo, fino a disporre dell’organizzazione e degli indirizzi e a nominarne vertici, al collegio giudicante non interessa. In questo modo però non si prende in considerazione che le pronunce delle agenzie di politica sanitaria hanno carattere politico prima che scientifico. Siamo quindi riportati esattamente all’Unione Sovietica staliniana, nella quale la scienza era definita dai dettati degli organismi governativi ad essa deputati, che indirizzavano la ricerca perché si muovesse in coerenza con la filosofia del materialismo marxista. Molti campi di ricerca erano vietati e alcune teorie scientifiche, tra cui quella darwiniana, bandite perché considerate figlie dell’ideologia borghese. Più che il dato, poteva allora l’ideologia al potere, quella era la scienza.
Non diversamente ragiona la Consulta, la quale, una volta accertata che le autorità governative di settore dichiarano che il vaccino è efficace, sicuro e non sperimentale, assolve le norme governative in nome della “scienza”.
E così i giudici, oltre a porre un principio da Stato totalitario, operano un totale svuotamento dello stesso art. 33 della Costituzione, che tutela la libertà della ricerca scientifica. Se infatti sono considerate scientifiche solo le teorie fatte proprie da un organismo politico in base a criteri che esulano dal dato scientifico puro, la libertà di ricerca si risolve in un ininfluente divertissement.
Ma, soprattutto, se in un giudizio di legittimità costituzionale si prende come dato indiscusso la parola del governo, seppur per interposto ente, diventa superfluo il giudizio stesso, che avrà sempre e solo l’unica conclusione della salvezza della norma giudicata. È la conseguenza naturale di un corto-circuito per il quale il governo acquista contemporaneamente il ruolo di imputato e di decisivo testimone a discarico. Non mettere alla prova la dichiarazione “scientifica” del governo con il dato di realtà, accertando così la verità materiale, trasforma il giudice in un notaio del potere. E allora a che serve un giudizio di legittimità costituzionale? E quale argine all’azione governativa è mai possibile?
Il benefico collettivo secondo Hitler
I precedenti giuridici della Corte esigono la presenza di tre elementi per dichiarare legittimo un obbligo vaccinale, il primo dei quali è che dall’obbligo derivi un beneficio anche per la salute degli altri. Tale beneficio è identificato nell’arresto del contagio, ciò che consente dal punto di vista giuridico di giustificare il sacrificio della libertà del singolo con il dovere lui spettante di non danneggiare gli altri.
Ma in questo caso i giudici sapevano che i cosiddetti vaccini non proteggono dal contagio e probabilmente sapevano anche che il Covid è curabile e che curare le persone avrebbe forse evitato del tutto la necessità di vaccinare. Provano quindi a considerare come sufficiente beneficio per gli altri anche la semplice “riduzione” del contagio. Ma, probabilmente rendendosi conto di quanto debole sia questo argomento, vanno oltre e introducono un’argomentazione particolarmente perniciosa. Affermano la rilevanza anche di benefici sociali indiretti, quali “porre le strutture sanitarie al riparo dal rischio di non poter svolgere la propria insostituibile funzione per la mancanza di operatori sanitari” oppure l’esigenza di risparmiare rispetto all’utilizzo dei tamponi, che “avrebbe avuto costi insostenibili e avrebbe comportato uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario”.
Con ciò la libertà di autodeterminazione sul proprio corpo diventa superabile non solo quando è necessario per proteggere gli altri da una grave malattia ma anche quando serve a evitare costi o anche solo complicazioni all’organizzazione statale. Con tale argomentazione si supera totalmente l’impostazione costituzionale, che assegna al singolo la preminenza (un pieno diritto) sulla collettività (un semplice interesse), distinzione sulla quale infatti la Corte non spende una parola.
Inoltre, nel momento in cui il criterio del beneficio per la collettività assume una valenza così ampia e si sdogana il principio del beneficio indiretto, persino economico, la libertà del singolo diventa interamente dipendente dalle indicazioni del governo, che può decidere autonomamente quale sia il beneficio sociale sull’altare del quale sacrificare quella libertà, senza limite alcuno.
L’introduzione esplicita di un criterio economico accende ricordi sinistri. Nella Germania nazista le azioni di politica sanitaria volte all’eliminazione di malati di mente e soggetti deboli erano giustificate con l’utilità di sgravare il sistema sanitario dai costi che queste persone comportavano. Un ragionamento perfettamente in linea con quanto lascia intendere la Consulta, alla luce del quale si potrebbe legittimare persino l’uccisione generalizzata dei bambini nati con malformazioni, destinati a pesare sul sistema sanitario per tutta la loro vita, oppure l’uccisione degli anziani, poco produttivi e estremamente gravosi per le casse dell’INPS.
Mengele e gli effetti avversi gravi
Gli altri due elementi richiesti dai precedenti della Consulta per legittimare un trattamento sanitario obbligatorio erano la previsione che il trattamento non incidesse negativamente sullo stato di salute dell’obbligato, salvo conseguenze temporanee e di scarsa entità, e la corresponsione di un indennizzo ove un danno grave comunque capitasse. La Corte di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, aveva evidenziato la presenza di un gran numero di effetti gravi: come poter obbligare a un trattamento sanitario così rischioso?
Nell’obiettivo di salvare a ogni costo la politica vaccinale governativa, la Consulta non vorrebbe tuttavia tradire i suoi precedenti. Tenta allora un gioco di prestigio che le riesce molto male e finisce per provare il suo chiaro intendimento politico. Si limita infatti a considerare solo l’ultimo degli elementi che i suoi precedenti richiedevano, e cioè che per gli effetti gravi spetti un indennizzo. Risponde pertanto alla CGA Sicilia che “da una lettura complessiva degli indicati criteri si evince che il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l’indennizzabilità”.
La Consulta omette però di precisare che gli eventi gravi erano ammessi, previo indennizzo, solo in quanto residuali e non prevedibili ex ante. Si raffigurava cioè una situazione in cui prima dell’inoculazione si potevano prevedere solo reazioni lievi e transitorie ma se l’imponderabile, inevitabile in tutte le vicende umane, accadeva, allora la presenza di un indennizzo poteva salvare l’obbligo.
Dire che si può imporre un trattamento sanitario anche quando se ne prevedono effetti gravi, purché poi vi sia un indennizzo, è talmente paradossale che i giudici cercano di trovare qualche appiglio in altre loro sentenze precedenti. Ma ne citano, ulteriore prova del loro intendimento politico, solo frasi parziali, che fanno dire a quelle sentenze altro da quello che in realtà dicono
Riportano ad esempio la parte della sentenza 118/96 in cui si affermava che “le vaccinazioni obbligatorie…possano comportare il rischio di conseguenze indesiderate, pregiudizievole oltre il limite del normalmente tollerabile” ma omettono di ricordare che la stessa sentenza prescriveva che gli effetti gravi erano ammessi solo se il legislatore aveva preso “tutte le cautele preventive possibili, atte a evitare il rischio di complicanze”, che devono quindi costituire “eventi dannosi fortuiti”.
Allo stesso modo, citando alcuni passaggi della fondamentale sentenza 307/1990, evitano il passaggio chiave secondo cui: “il rilievo dalla Costituzione attribuito alla salute in quanto interesse della collettività, se è normalmente idoneo da solo a “giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”, ….. non lo è invece quando possano derivare conseguenze dannose per il diritto individuale alla salute…… nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”.
Con la medesima sbadataggine la Corte “dimentica” di esprimersi sulla domanda dei giudici siciliani riguardo all’ammissibilità di conseguenze anche mortali. E non dice una parola sull’ultimo comma dell’art. 32 che pone il limite invalicabile della dignità umana per ogni trattamento sanitario obbligatorio, chiaramente incompatibile con un trattamento che si sa in anticipo poter essere invalidante e mortale.
La smemorata Corte, nella sua foga giustificatoria dell’operato governativo, arriva così a porre un principio barbarico: si può obbligare a un trattamento anche quando si sa in anticipo che esso produce su persone prima sane effetti gravi o la morte, purché poi vi sia un indennizzo all’invalido o a chi rimane. L’argomentazione, indennizzo a parte, avrebbe pienamente giustificato l’operato di Mengele e dei medici nazisti, che sperimentavano nuovi farmaci sugli esseri umani indipendentemente dalle conseguenze che questi potevano provocare. E giustificherebbe, come ben argomenta l’avvocato Mori, anche l’uccisione di una persona al fine di espiantare gli organi, posto che il beneficio della collettività è garantito dalla salvezza dei dieci malati salvati a fronte dell’unico essere umano sacrificato.
Per salvare una campagna obbligatoria all’inoculazione con farmaci genici mai prima sperimentati sull’uomo, ci si lascia così alle spalle Norimberga e secoli di diritto basati sul principio del neminem laedere. Cosa c’entri tutto questo con l’impostazione personalistica della nostra costituzione non è dato di capire. Tanto meno come si possa pensare che un tale principio possa essere compatibile con i fondamenti sui cui si basa l’intera civiltà umana.
Non è colpa della mafia
Uno dei quesiti posti alla Corte era se la sanzione consistente nella sospensione dal lavoro fosse proporzionata rispetto alla portata dell’obbligo violato.
La risposta dei giudici è sconcertante. Affermano che la sanzione è proporzionata perché “l’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge”, inoltre la sua scelta è “in ogni momento rivedibile”. Conseguentemente, non si può chiedere al datore di lavoro “uno sforzo di cooperazione volto alla utilizzazione del personale inadempiente in altre mansioni” come per le persone che non si vaccinano per ragioni di salute.
In sintesi: il lavoratore deve incolpare se stesso per essere stato privato dello stipendio e la differenza di trattamento con chi non può vaccinarsi è giustificato dal suo comportamento “disobbediente”.
È un ragionamento che potrebbe legittimare anche le azioni mafiose. un po’ come Riina che dice che la bomba al negozio è colpa del negoziante che non paga il pizzo e l’omicidio “dell’infame” è colpa “dell’infame che ha cantato”. Anche la mafia è tanto gentile da “lasciare la scelta al singolo se adeguarsi o assumersi le conseguenze” e anche in quel caso la “scelta in ogni momento rivedibile”. Se “l’infame” ritratta, ha salva la vita e se Falcone e Borsellino avessero smesso di indagare forse sarebbero ancora tra noi.
Si potrebbe obiettare che la Corte ravvisa nell’obbligo un beneficio pubblico, ovviamente assente nel caso dell’imposizione mafiosa, e pertanto la privazione dello stipendio è un po’ come la multa per il semaforo rosso. Il ragionamento sembra avere una logica, ma in realtà perde di vista alcuni elementi fondamentali. Ammettiamo pure che il traballante ragionamento della Consulta sull’esistenza di un interesse pubblico sia fondato. L’interesse pubblico autorizza a porre obblighi, violati i quali scatta una sanzione. Ma la sanzione deve necessariamente essere proporzionata all’illecito commesso, nessuno riterrebbe legittima ad esempio una norma che sanzionasse con l’ergastolo un divieto di sosta. Una tale sanzione sarebbe considerato arbitrio, cioè violenza da parte dello Stato, una violenza misurabile appunto con il surplus di compressione della libertà del singolo rispetto a quella richiesta per la tutela dell’interesse pubblico che l’obbligo intende proteggere. La CGA chiedeva proprio di verificare questa proporzionalità e rispondere che la sanzione è proporzionale perché frutto della libera scelta della vittima, oltre a evitare di affrontare la questione, finisce per legittimare l’ergastolo per il divieto di sosta, così come ogni altro comportamento arbitrario/violento dello Stato.
La verità è che qui, proprio come nel caso del divieto di sosta, siamo davanti a un mero illecito amministrativo, azione che l’ordinamento qualifica di minima lesività. Come può allora giustificarsi una sanzione come la privazione dello stipendio per diciotto mesi, estremamente più afflittiva non solo di ogni altro illecito amministrativo ma anche di molti reati, che proprio in quanto tali sono considerati dall’ordinamento ben più lesivi3?
Non contenta di questo scempio argomentativo, la Corte si infila in uno peggiore, sostenendo che la sanzione della privazione dello stipendio è proporzionata perché si poteva anche fare di peggio: “il legislatore, proprio nel rispetto della scelta individuale del lavoratore di non attenersi all’obbligo vaccinale, si è limitato a prevedere la sospensione del rapporto di lavoro”.
Riina lo spiegherebbe cosi: “Ti ho fatto saltare la vetrina invece di ucciderti il figlio, devi stare muto e persino dire grazie”.
Mi fermo qui, evitando di infierire oltre su giudici che sono stati evidentemente sottoposti a forti pressioni per difendere ad ogni costo un certo orientamento. Ma non sono vittime, sono colpevoli, avendo scelto di svendere il diritto della più alta Corte dello Stato per compiacere il potere.
Il diritto è il baluardo della civiltà e quando cede di schianto alle logiche politiche, tutto è possibile.
Possono tornare i fantasmi del passato.
O apparirne di peggiori.
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