«Scusate, ma non ci sto. Alla storia del draghicidio, io non ci sto. Non è stato un assassinio. Anche se molti, pur non avendone la forza, avrebbero voluto. In realtà era Draghi che voleva andarsene. Restare, per lui, significava suicidarsi».
(Federico Novella – la Verità)
Professor Massimo Cacciari, cosa intende? Perché è così convinto che il premier volesse togliere il disturbo? Sta contraddicendo tutte le ricostruzioni di queste ore
«Draghi voleva andarsene perché probabilmente si era reso conto che la coalizione di governo era diventata un’armata Brancaleone, e non sarebbe stata assolutamente in grado di far fronte alle scadenze che si profilano in autunno. Arrivare a ottobre con un governo che non funziona più, per lui sarebbe stato un disastro. Si sarebbe trovato di fronte allo sconquasso, proprio in occasione dell’approvazione della legge di bilancio».
Da qui l’atteggiamento intransigente che avrebbe portato alla crisi?
«Piuttosto che andare avanti a sopravvivere, ha preferito giocare d’anticipo. E forse in tutto questo ha influito anche la ferita psicologica dello schiaffo subito nella corsa alla presidenza della repubblica. Ma ripeto, il motivo principale è che Draghi ha compreso che le cose che aveva in mente non si potevano più fare».
Tutto è iniziato con i malumori dei 5 stelle, che non si sono presentati al voto di fiducia sul dl aiuti. Da qui la decisione di Draghi di dimettersi. Decisione che ha spiazzato un po’ tutti.
«È stata la prima forzatura evidente, davvero una cosa dell’altro mondo, una roba mai vista nelle democrazie europee dell’ultimo secolo. Un presidente del Consiglio che si dimette senza avere avuto alcun voto di sfiducia e con la stragrande parte dei componenti della sua maggioranza che dicono di voler continuare con lui? E che poi si ripresenta in parlamento e se la prende con Conte e con la Lega? Ma dai. È chiaro che voleva lasciare. Non per ragioni personali, ma per serie motivazioni politiche».
Lei crede che un Draghi bis senza Conte, come chiedeva il centrodestra, sarebbe stato possibile in queste condizioni?
«Ovvio che si poteva fare. Il Movimento 5 stelle era esploso, rimaneva Di Maio in maggioranza. Era sufficiente sostituire i ministri e i sottosegretari contiani. E tanti avrebbero esultato per aver fatto fuori i grillini».
Ma Draghi non ha accettato di proseguire senza 5 stelle, perché voleva restare a capo di un governo di tutti. Non voleva legarsi a maggioranze che non fossero larghissime.
«Ma dai. Non diciamo fesserie. Da tempo il Movimento 5 stelle è niente più che una finzione politica. Vogliamo dirlo chiaro? La verità è che il Draghi bis è fallito perché l’idea non piaceva al Pd. Sul piano dell’immagine, un governo del genere avrebbe rafforzato la destra, e questo il Partito democratico di Letta non poteva accettarlo. Per questo ha fatto resistenza. E per questo l’idea di scaricare la responsabilità della fine del governo su Conte la considero semplicemente indecente. È chiaro a tutti che ormai l’intera coalizione era divenuta incompatibile al suo interno».
Se questa è la realtà, come si spiega oggi il rammarico di Draghi per l’avventura che si interrompe, e la condanna unanime dei «guastatori» del centrodestra?
«Anche lui si è prestato a sceneggiate politiche, alle chiacchiere. Mi ha deluso constatare che anche Draghi ha fatto ricorso alla peggiore retorica, quella che l’ha portato a ringraziare il Parlamento nel giorno dell’addio».
Ma cosa avrebbe dovuto fare?
«Si ricorda il discorso di Giorgio Napolitano alle Camere, dopo la rielezione? Ha pestato a morte i partiti, inchiodandoli alle loro responsabilità».
Draghi avrebbe dovuto imitarlo?
«Avrebbe dovuto fare un discorso di verità: badate, me ne vado perché gli impegni da assumere sono incompatibili con queste forze politiche. Invece Draghi ci ha raccontato che è stato un governo meraviglioso, ha detto grazie a tutti, ai ministri, ai partiti, allo staff, e poi se ne è andato. Ditemi voi se non è un comportamento incredibile: solo in Italia accadono certe cose».
Questa lettura fa a pugni con la versione ufficiale
«Come sempre in Italia non si dicono le cose come stanno. I media non li leggete? Tutti addosso ai partiti, tutti addosso a chiunque, fuorché a Draghi e Mattarella. Da un lato c’è un’evidente sudditanza psicologica. Dall’altro la presa d’atto che in Italia Draghi è l’unico in grado di rapportarsi con le grandi potenze economico-finanziarie».
Coglie delle ombre nella gestione governativa dell’ex capo Bce?
«Me lo aspettavo più equilibrato. Invece l’ho visto sdraiato. Prima sulla linea massimalista del ministero della Salute in materia pandemica, poi sulle posizioni americane sul fronte della guerra in Ucraina. E ha ragionato troppo spesso per semplificazioni».
Campagna elettorale lampo. Dalla caduta del governo Draghi, chi ne esce peggio?
«Il Movimento 5 stelle, politicamente, non esiste più. Il Pd vede saltare l’intesa Letta-Conte, che ha sempre costituito la base della sua strategia. I dem dovranno ragionare in fretta: non possono certo presentarsi alle elezioni alleati con Renzi e Calenda. Temo che l’unica strada percorribile sia quella di fingere di tornare alla vocazione maggioritaria, che tuttavia, con buona probabilità, potrebbe non bastare per evitare la sconfitta».
Tanti protagonisti in cerca di alleanze al centro dello scacchiere. Può esistere un’agenda Draghi senza Draghi in campo?
«Ma guardi che l’agenda di Draghi è semplicemente l’agenda di tutti. Perlomeno nelle sue pagine fondamentali. Vinca uno o vinca l’altro, è la lista delle cose che dovremo fare per forza. Come affrontare la montagna del debito che continua a crescere? Quale politica fiscale dovremo avere? Dove tagliare? Sono tutte cose che dovremo decidere noi. L’agenda è quella, non ce ne sono mica altre: pensate forse che un governo di centrodestra non avrà più rapporti con l’Europa sul Pnrr? Ma figuriamoci. Quelli sono dei “must” che resteranno intoccabili».
Allora non ha senso la campagna elettorale «draghiani contro populisti»?
«Ammettendo che il premier dimissionario sia così venerato nel Paese, è evidente che una parte politica si presenterà alle elezioni dicendo “siamo gli unici eredi di Draghi”. Ma se non si dotano di una proposta credibile, non funzionerà. E Draghi verrà usato solo come scudo per nascondere una totale mancanza di idee. Non potranno certo pensare di cavarsela sperando che il premier scenda in piazza con loro a far campagna elettorale».
Il centrodestra ha la vittoria in tasca?
«Assolutamente no. Anzi, da quella parte, devono stare attenti a non combinare casini tra di loro. E non devono esagerare nei toni e nei contenuti ideologici».
In che senso?
«Meloni, che continua a dimostrarsi molto abile, nelle sue ultime uscite non dice una parola sui temi urlati di Salvini, come immigrazione e sicurezza. E questo perché sa benissimo che imbracciando il vecchio armamentario salviniano non solo non si vince, ma si spinge il centrosinistra a ricompattarsi».
Dunque, si aspetta una destra più «popolare» che populista?
«Quella di Fratelli d’Italia è una destra sociale, un’identità storica della destra che l’Europa ha conosciuto spesso, e che si muove in territori dove la sinistra ha smobilitato completamente: i quartieri popolari, le periferie, i ceti a basso reddito. Lo dico da sempre che la sinistra da questo punto di vista dovrebbe occuparsi degli stessi temi: sanità, scuole, lavoro. Salvini invece è diverso: insiste sull’appello ideologico circa il rapporto con “l’altro”, senza accorgersi che su quel terreno invita gli avversari a nozze».
Un governo di centrodestra rappresenta un rischio per la democrazia, visto che potrebbero modificare da soli la Costituzione? Nelle file della sinistra inizia a serpeggiare questo terrore.
«Spero che non si giochi la campagna elettorale sul rischio fascismo perché in quel caso scadremmo davvero nel ridicolo. Non esiste la più remota possibilità di un’involuzione di quel genere. Semmai è un dramma generale della democrazia quello di tendere allo svuotamento dei parlamenti e all’accentuazione del potere esecutivo. Ed è una tendenza destinata ad aggravarsi se non si scrivono regole precise e riforme in senso presidenziale. Ma il fascismo non c’entra niente».
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