sabato 30 luglio 2022

Cina: la Pelosi e la Cia ci provano fin dal ’91

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Piazza Tienanmen ci è stata sempre venduta come una spontanea rivolta del popolo cinese contro il potere, ed è così diventata una sorta di passaporto simbolico dell’imperialismo occidentale per cercare di arginare in tutti i modi la Cina e la sua ascesa. In realtà a Pechino si scontrarono in quei giorni di trent’anni fa due diverse fazioni del partito comunista, ma dentro quella battaglia erano già presenti forze estranee  che tentavano di creare durissimi scontri e perciò i  presupposti per un cambio di regime. Come adesso sappiamo dai documenti e dalle tesimonianze l’operazione di trasformare un dissidio interno in una sorta di rivolta generale era stata organizzata dal padre del concetto di rivoluzione colorata, Gene Sharp, che si trovava personalmente a Pechino in quei mesi, consulta i leader della protesta, ma che già due anni tesseva la sua rete. Dopo che il tentativo fallì completamente, la CIA organizzò l’uscita di centinaia di agenti della protesta reclutati da Sharp e il loro trasferimento a Hong Kong dove molti di loro – poco più che adolescenti all’epoca dei fatti – hanno messo radici, allevato nuove leve e anche in prima persona sono stati protagonisti dei tentativi di rivoluzione colorata nel 2020. Fallita anche questa sono stati trasferiti a Taiwan.

Questa migrazione di agenti provocatori ormai esperti anticipa tutte le mosse di Nancy Pelosi, che era a Pechino nel 1991e ha tentato una provocazione in Piazza Tienanmen srotolando assieme a tre altri membri del congresso e assistenti vari uno striscione davanti ai media internazionali, appositamente richiamati il quale diceva: “A coloro che sono morti per la democrazia in Cina”. In realtà non ci sarebbe stato alcun morto senza le provocazioni organizzate da Sharp nella speranza di far saltare le polveri. Pelosi non è andata ad Hong Kong, ma nella sua funzione di portavoce del congresso statunitense ha affrontato numerose volte l’argomento per esaltare una rivolta in realtà pagata dai boss della mafia locale che temevano di essere tradotti nella Cina continentale e accogliendo spesso nei suoi uffici capi della rivolta: i vecchi amici di Tienanmen così come le nuove leve.

E adesso che l’esercito dei cambiatori di regime della Cia ha trovato ricetto a Taiwan ecco che la Pelosi vuole fare di nuovo la sua comparsa ben sapendo di provocare Pechino al massimo grado. Ma questa ostinazione che è la stessa dell’amministrazione di Washington che evidentemente è l’ispiratrice del viaggio annunciato della Pelosi a Taipei, è la prova migliore del fatto che i neocon statunitensi sono incapaci di capire che i giorni dell’egemonia statunitense sono finiti, che non si tratta di agitare uno striscione nella principale piazza di un Paese che si considerava buono solo a fornire mani e braccia alle corporation statunitensi. E che ormai in molti luoghi della terra non ci cascano più. E poi la Cina del 2022 non è più la Cina del 1991. Ora è la più grande economia del mondo e la sua forza militare rivaleggia con quella degli Stati Uniti. Non perdona più facilmente le acrobazie sui “diritti umani” e sa riconoscere bene una provocazione americana quando ne vede una.

Negli anni ’50 e ’60 gli Stati Uniti organizzarono e finanziarono il terrorismo in Tibet . Nel 1989 hanno preparato e pagato un sanguinoso tentativo di rivoluzione colorata a Pechino. Negli anni ’90 hanno portato il terrorismo islamista nello Xinjiang per non parlar delle due rivolte di Hong Kong. Ma oggi il Tibet è una provincia pacifica della Cina, lo Xinjiang è ora la regione turistica più visitata del mondo e Hong Kong è sotto il pieno controllo cinese, mentre agli americani è rimasta l’arroganza e l’incompetenza. Tanto da non capire che se Pechino impedisse alla Pelosi di atterrare a Taiwan costituendo una sorta di no fly zone questo oltre ad essere una pericolosissima miccia per una guerra globale costituirebbe il presupposto, creato dagli stessi Usa, per una invasione dell’isola.

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