martedì 26 luglio 2022

Dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto albertino.

Gli arresti e le denunce contro i sindacalisti della logistica si inseriscono nel processo di ristrutturazione del settore e nel tentativo di restringere il diritto di sciopero: vorrebbero tornare a prima del Novecento. 


Jacobinitalia.it Francesco Massimo Alberto Violante

«Il capitalista sostiene il suo diritto come compratore, quando cerca di prolungare questa giornata il più che gli è possibile e di fare di due giorni uno solo. D’altra parte la natura speciale della merce venduta esige che il suo consumo per il compratore non sia illimitato, e il lavoratore sostiene il suo diritto come venditore, quando vuole restringere la giornata di lavoro ad una durata normalmente determinata. V’ha dunque diritto contro diritto, tutti due portanti il sigillo della legge che regola gli scambi delle merci. Fra due diritti uguali chi decide? la Forza».

Karl Marx

«La giustizia non è concepita per altro che registrare a livello ufficiale, legale e rituale, quei controlli che sono essenzialmente controlli di normalizzazione effettuati dalla polizia. La giustizia è al servizio della polizia, storicamente e, di fatto, istituzionalmente».

Michel Foucault

Lo scorso 19 luglio a Piacenza è scattata un’operazione di polizia disposta dalla Procura della Repubblica di Piacenza contro Si Cobas e Usb. Si tratta di due sindacati di base tra i più attivi nel settore della logistica in Italia, un settore che ha uno dei suoi epicentri proprio a Piacenza, e che a partire dal 2011 ha conosciuto, proprio in questa città, alcune delle vertenze sindacali più significative per migliorare le condizioni di lavoro di migliaia di facchini, spesso stranieri, sempre sfruttati. Vertenze dure, nate in contesti di estremo sfruttamento, lavoro nero, violenza, evasione fiscale e contributiva ai danni dei lavoratori della cittadinanza, infiltrazioni mafiose. Vertenze che hanno segnato una ripresa del conflitto operaio in Italia e il ripristino, almeno parziale, del diritto del lavoro, il rispetto della contrattazione collettiva e il miglioramento sostanziale delle condizioni di vita e di lavoro nel settore. Vertenze che sono costate decine di arresti, denunce e multe; aggressioni ai picchetti, talvolta delle forze dell’ordine; talvolta di squadracce padronali o camionisti istigati a sfondare i picchetti con i loro mezzi. Così sono stati ammazzati due uomini: Abd Elsalam Ahmed Eldanf, egiziano, 53 anni e cinque figli, investito e ucciso da un camionista davanti ai cancelli della Gls a Piacenza nel settembre 2016, mentre scioperava; Adil Belakhdim, marocchino, 37 anni, assassinato davanti al magazzino Lidl di Novara nel giugno 2021, mentre scioperava. Per loro ancora non è stata fatta giustizia. Le procure hanno altre priorità.

Un approccio giudiziario al sindacalismo

Martedì scorso sono stati notificati gli arresti domiciliari a sei attivisti sindacali, quattro del Si Cobas e due Usb, e il divieto di dimora e l’obbligo di firma per altri due attivisti dell’Usb cittadina. Otto indagati su cui pendono accuse gravi e infamanti: 150 capi di imputazione, fra i quali associazione per delinquere finalizzata alla commissione di vari reati, come violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio. Le misure cautelari si appoggiano a un fascicolo di 350 pagine, frutto di un’indagine cominciata nel 2016 e condotta principalmente dalla Digos locale. La notizia dell’operazione è stata riportata sulla stampa locale e nazionale. 

Secondo la Procura, gli indagati avrebbero organizzato scioperi e azioni collettive non al fine di tutelare e migliorare le condizioni di vita e di lavoro, ma per avvantaggiare le rispettive organizzazioni:

si organizzano blocchi alle merci al di fuori di ogni contestazione sindacale fisiologica, per aumentare il numero degli iscritti. Emblematico un episodio di un blocco di merci in un’azienda: improvvisamente uno dei leader dei Si Cobas per ragioni di screzio sentimental personale subìto da un’altra azienda, dirotta un pullman di lavoratori a fare un picchetto in questa altra azienda. Quello che emerge dalle intercettazioni è che gli interessi dei lavoratori sono progressivamente sminuiti e si cerca di far avanzare le posizioni del proprio sindacato, a colpi di reciproci dispetti e di violenze private con cui vengono danneggiate le produzioni dei vari hub.

E addirittura per arricchire indebitamente alcuni dei suoi membri:

abbiamo cercato di dimostrare che questi sindacalisti agissero per loro tornaconto personale […] Abbiamo un’intercettazione in cui due esponenti parlano del sindacato come ‘un bancomat e per questo ci potrebbero fare delle storie’, Questo è l’ambiente dove vengono fatte queste contestazioni che ci portano a ritenere che non si facessero gli interessi dei lavoratori ma di qualcuno dei dirigenti sindacali. Sottolineo ancora come questa non sia un’operazione contro i sindacati di base, ma contro qualcuno che appartiene a queste sigle e ha gestito il sindacato patrimonialmente come cosa loro.

Si tratta di un impianto accusatorio che potremmo ormai definire «tipico» che punta a delegittimare l’attività sindacale conflittuale a partire da intercettazioni e documentazioni decontestualizzate. Questa singolare filosofia poliziesca del sindacalismo emerge esplicitamente dalla nota della Questura di Piacenza:

dietro i numerosissimi picchettaggi e azioni di protesta apparentemente rivolte alla tutela dei diritti dei lavoratori, si celavano azioni delittuose finalizzate ad aumentare sia il conflitto con la parte datoriale sia tra le opposte sigle sindacali, al fine di aumentare il peso specifico dei rappresentanti sindacali all’interno del settore della logistica per ottenere vantaggi che esulavano dai diritti sindacali apparentemente tutelati. L’indotto economico ricavato serviva inoltre ai vertici dell’organizzazione, oltre che per un diretto guadagno personale, anche per alimentare le figure intermedie dei delegati, da tenere a libro paga del sistema, con la prospettiva di ‘carriera’. Le singole multinazionali o i datori di lavoro di volta in volta interessati, venivano sottoposti ad una condizione di esasperazione che li costringeva ad accettare le richieste economiche che gli venivano fatte.

In altre parole, la questura sta descrivendo in maniera prosaica il funzionamento effettivo di ogni sindacato, a qualunque latitudine, eccetto forse i sindacati addomesticati nei regimi autoritari e post-democratici. Il fatto che un sindacato organizzi dei conflitti collettivi è un crimine. Il fatto che un sindacato si autofinanzi per portare avanti la propria attività è un crimine. Il fatto che un sindacato vinca una vertenza e strappi a una multinazionale migliori condizioni di lavoro e di vita costituisce il crimine dei crimini. Che cosa resta da fare a un sindacato se non può svolgere esattamente questa funzione? Non reprimere gli scioperi, non avere soldi, né tanto meno casse di resistenza. E, soprattutto, negoziare sempre e comunque condizioni di lavoro peggiorative, per non penalizzare le multinazionali.

Non è la prima volta che le autorità giudiziarie e di polizia si attribuiscono la prerogativa di stabilire cosa è legittimo o illegittimo fare per un sindacato. Proprio lo scorso anno, sempre a Piacenza, la Procura era intervenuta direttamente nella vertenza sulla chiusura del magazzino FedEx-Tnt. Mentre i sindacati di base protestavano contro la chiusura dello stabilimento la Procura aveva messo agli arresti due dei quattro attivisti del Si Cobas, con le accuse di lesioni personali aggravate, violenza privata e occupazione di suolo pubblico. Non solo: la tesi della Procura era che le modalità d’azione del sindacato conflittuale fossero legittime e meritevoli di arresto, mentre quelle «collaborative», per esempio quelle della Cisl, meritassero una menzione esplicita. In più la Procura si spinse a dire che, stando alle buste paga osservate, gli stipendi fossero già «dignitosi» e che quindi non ci fossero buone ragioni per protestare. Irrilevante per gli inquirenti il fatto che le rivendicazioni del sindacato di base fossero supportate dall’Ispettorato del lavoro e che un accordo fosse già stato sottoscritto in Prefettura e poi disatteso dalla FedEx. Per la procura esisteva un sindacato buono e un sindacato cattivo, e i magistrati consideravano proprio compito reprimere il secondo, sostenere il primo ed ergersi a scudo dei profitti delle multinazionali. Poche settimane dopo il tribunale del riesame di Bologna smontò in parte il teorema della procura, scarcerando i due sindacalisti (il procedimento risulta comunque ancora aperto). 

Un altro episodio eclatante riguarda la città di Modena, centro dell’industria delle carni, un settore che riposa anch’esso su catene di appalti e sfruttamento di manodopera immigrata. Tra il 2016 e il 2017 alcune aziende chiave al centro di sistema di sfruttamento, come il gruppo Levoni e Italpizza, vennero coinvolte da una serie di scioperi organizzati dal Si Cobas. Di fronte a una catena di sfruttamento in cui le vittime erano le lavoratrici e i lavoratori, la risposta repressiva è stata dura, ma nei confronti del movimento operaio: tra il 2018 e il 2020, nella sola provincia di Modena, sono stati aperti 481 procedimenti penali nei confronti di lavoratrici e lavoratori per fatti connessi all’attività sindacale. Particolarmente grave è stata l’operazione ai danni del portavoce nazionale del Si Cobas Aldo Milani, arrestato nel 2017 con l’accusa di estorsione aggravata e continuata per avere semplicemente svolto attività sindacale: negoziare migliori condizioni di lavoro attraverso la mobilitazione collettiva. Sulla base di un impianto accusatorio con molte ombre, Milani venne processato e infine assolto con formula piena nel 2019.

Sono solo alcuni, questi, degli episodi di repressione giudiziaria che hanno coinvolto il Si Cobas e altri sindacati di base dall’Adl Cobas all’Usb.

Le peculiarità delle relazioni industriali nella logistica

Queste operazioni giudiziarie si iscrivono in un quadro più ampio, che merita di essere analizzato nei suoi tratti salienti, per non cadere vittime di facili mistificazioni o semplici prese di posizione identitarie.

Primo elemento: le lotte nella logistica nascono in un settore, tradizionalmente a basso contenuto di capitale e alta intensità di forza lavoro, e in questi anni è stato un campo di investimenti ideale per il riciclo di capitali di provenienza illecita. Le vecchie cooperative di facchini sono state sostituite da organismi che vivono giusto il tempo della franchigia dai controlli garantito dal Codice Civile alle cooperative di nuova nascita. Poi vengono sciolte e i loro bilanci affondano nel dimenticatoio con i loro segreti di evasione ed elusione fiscale, come testimoniato dalla cosiddetta indagine «Miliardo» condotta dalla Guardia di Finanza per la Procura di Roma. 

Per anni è stata l’opacità nella gestione finanziaria e le forme didattiche di sfruttamento della forza lavoro a dare a queste cooperative il vantaggio competitivo che le ha rese così diffuse nel settore.

Secondo elemento: le cooperative sono solo un anello della catena, quello più in basso basso. Al vertice della piramide ci sono i committenti: grandi gruppi nazionali e multinazionali della grande distribuzione, della corrieristica o dell’industria agroalimentare. Questi grandi marchi esternalizzano le operazioni di facchinaggio e consegna a cooperative e consorzi di cooperative (più recentemente Srl e anche agenzie interinali  magari create dalle cooperative stesse). Sono questi grandi gruppi monopolistici a dettare le tariffe degli appalti, abbassandole a tal punto da renderle incompatibili con il rispetto dei contratti collettivi di settore (quando non si tratta di contratti pirata).

Terzo elemento: la stagionalità e la precarietà del lavoro. La logistica è un settore con una forte componente di stagionalità e di intermittenza nei volumi di produzione. Nel paradigma del «just in time» i volumi di movimentazione seguono la volatilità della domanda, e questa volatilità si scarica sulla continuità occupazionale dei facchini. Questo non solo genera incertezza e discontinuità nelle carriere, ma rappresenta anche un’arma di ricatto che i padroni delle cooperative utilizzano per disciplinare la forza lavoro: «Scordati di essere richiamato al lavoro se pianti grane al lavoro e se parli di diritti e sindacato».

In questo contesto, a partire dagli anni Dieci, si è affermato un tipo di sindacalismo alternativo a quello pacificato e concertativo delle maggiori organizzazioni sindacali – le quali, d’altra parte, non si erano poste, fino ad allora, il problema della rappresentanza di questi segmenti sfruttati. Il sindacalismo di base ha recuperato forme di lotta efficaci che erano state dimenticate dal sindacalismo maggioritario post-93 e, attraverso blocchi e scioperi simultanei, è riuscito a dare scacco ai padroni della logistica. 

Esistono alcuni paradossi del sindacalismo di base (anche se sotto questa etichetta vengono raccolte organizzazioni dalle sfumature diverse). Il primo è che pur non firmando il Ccnl di riferimento, esso ne diventa il garante del rispetto. Addirittura, lì dove possibile (sostanzialmente nel sottocomparto più ricco della logistica delle consegne) il sindacato di base è anche firmatario di veri e propri accordi integrativi nazionali, migliorativi del Ccnl. Accordi sottoscritti anche dalle multinazionali e dalle associazioni padronali di settore e che vengono poi applicati nei singoli magazzini. Sono questi contratti, i cui ultimi esemplari sono stati firmati proprio nel mese di giugno, l’oggetto della critica della Procura di Piacenza.

Il secondo è che si tratta di un sindacalismo classista e intercategoriale che però è concentrato nella logistica degli appalti. È proprio qui che  si concentrano le contraddizioni maggiori della filiera, è anche il punto di sensibilità maggiore della logica organizzativa just in time che guida le filiere logistiche.

Il terzo è che le parti datoriali intrattengono un rapporto ambiguo e non strutturato con il sindacalismo di base: dove sono costrette riconoscono il sindacato, ma appena ne hanno l’occasione cercano di reprimerlo, ad esempio licenziando la forza lavoro sindacalizzata e cercando di sostituirla con lavoratori isolati e ricattabili.

Queste contraddizioni si aggiungono alla particolare precarietà della forza lavoro migrante, dovuta all’accesso ristretto ai diritti di cittadinanza e alla stagionalità del settore. In tale situazione di precarietà e di deregolamentazione il sindacato di base cerca di tutelare le condizioni salariali e la continuità occupazionale volta per volta, a seconda dei rapporti di forza. Dove le condizioni lo permettono il sindacato cerca di controllare l’accesso al mercato del lavoro, in particolare negoziando con la controparte meccanismi di assunzione su criteri «oggettivi», come l’anzianità. Questo in modo da sottrarre all’arbitrio dell’impresa il controllo delle assunzioni, al fine di proteggere la solidarietà fra la forza lavoro.

Si tratta di una configurazione molto simile allo stile nordamericano di sindacalismo, fondato sui meccanismi del closed shop e dello union shop, e non è un caso. Questi dispositivi si rivelano gli unici efficaci laddove la deregolamentazione e la competizione al ribasso fanno saltare le forme classiche di negoziazione e rappresentanza.

Alla luce di quanto detto emergono tutti i limiti del formalismo giuridico della Procura. Al contrario sarebbe necessario adottare un approccio sostanzialista all’interpretazione della dinamica sindacale. L’idea che, di fronte a palesi violazioni normative – e all’inazione degli apparati amministrativi e sociali volti a contrastarle – la dinamica del sindacalismo debba svolgersi solo attraverso la presentazione di procedure processuali e secondo i tempi dei tribunali del lavoro, amplifica, invece che riequilibrare, l’asimmetria tra la parte datoriale e la parte dipendente riconosciuta nel diritto del lavoro sia nazionale che internazionale: i blocchi e i picchetti sono azioni coessenziali che sostanziano l’esercizio immediato di un diritto e l’effettività delle sue conseguenze.

Il conflitto sindacale non si svolge in un vuoto assoluto, ma dentro rapporti che forzano gli attori a determinate scelte e strategie. Per esempio, la strategia di impiegare in una vertenza su un posto di lavoro dove si è più deboli il sostegno e la solidarietà di iscritti sindacali di altri posti di lavoro, o di attivisti solidali con la vertenza, permette di non abbandonare i posti di lavoro più piccoli, dove il sindacato è meno capace di contrattazione. In Italia lo sciopero smise di essere esplicitamente vietato per la prima volta nel 1889 con l’introduzione del codice Zanardelli, che all’art.165 però recitava: «Chiunque con violenza o minaccia, restringe o impedisce in qualsiasi modo la libertà dell’industria o del commercio è punito con la detenzione fino a venti mesi e con la multa da lire cento a lire tremila». Diviene quindi cruciale l’interpretazione estensiva di «violenza o minaccia». Si capisce come allegare agli atti di un procedimento una pec, in cui vengono estensivamente spiegate le ragioni dell’agitazione, come prova dell’atteggiamento estorsivo è il risultato di un’interpretazione radicalmente conservatrice del fenomeno sindacale. 

La logistica italiana fra repressione, ri-regolamentazione e ristrutturazione

Questo ci richiama alla necessità di tenere insieme la strategia repressiva degli apparati dello Stato alla dinamica reale di conflitto sociale così come si realizza nel tessuto produttivo. La prospettiva futura, in questo senso, si articola su tre livelli. 

In primo luogo una dialettica che si va consolidando tra due poli. Da una parte i grandi marchi multinazionali, alcuni dei quali si apprestano a gestire hub in proprio internalizzando parzialmente i servizi di magazzinaggio a patto di riuscire – anche con le maniere spicce, come successo a Peschiera Borromeo, dove la Fedex ha utilizzato dei vigilantes privati per picchiare gli operai – a depurare la forza lavoro dalla presenza dei sindacati di base. Dall’altra la frastagliata realtà di piccoli e medi operatori che hanno bisogno di mantenere un preciso modello padronale fatto di compressione dei costi al ribasso basata sullo sfruttamento del lavoro.

In secondo luogo, gli interventi regolativi dello Stato sembrano intervenire in questa dialettica su esigenza diretta delle lobbies imprenditoriali, deregolamentando e dando spazio anche agli anelli finali della catena, che oltre a essere la base sociale delle destre, sono quelli che sono stati più scossi da questo ciclo di lotte, stretti come sono tra le rivendicazioni operaie e la dipendenza da una struttura di costi decisa dall’oligopolio dei grandi vettori. Ecco perché Assologistica – come riportato pochi giorni fa su Domani – è intervenuta per scrivere un emendamento al DL 36/2022 che, per le sole imprese del settore, cambia la normativa del codice civile sugli appalti. Grazie a questa norma i comportamenti selvaggi nelle erogazioni dei servizi della Logistica potrebbero tornare a essere attrattivi, anche per quei grandi marchi della Corrieristica o della Grande distribuzione, che stanno re-internalizzando o regolando in maniera più chiara la filiera, perché nessuno sarà più responsabile in solido delle infrazioni commesse dalle società appaltatrici come cooperative e srl. 

In ultimo, la repressione, che punta a vietare e impedire in maniera sproporzionata ogni tipo di protesta che blocchi questo eventuale ritorno allo sfruttamento senza regole in questo settore, finendo per pesare però non solo sulla Logistica, ma sul complesso della pratica sindacale. L’art. 23 del decreto Salvini del 2018 che ri-penalizzava il reato di blocco stradale con l’intento di spingere le procure a comminare ai partecipanti ai picchetti della Logistica, è stato utilizzato anche dalla Procura di Siracusa per le proteste alla raffineria Lukoil del 2018.

È tenendo presenti questi tre piani di analisi che è possibile cogliere la portata degli arresti della scorsa settimana. Arresti che si inseriscono in un processo di ristrutturazione del settore della logistica e di tentativi sempre più forti di imporre una ri-regolamentazione piuttosto che una semplice deregolamentazione: restrizione al diritto di sciopero a alle forme di rappresentanza collettiva, laissez-faire per le imprese, ristrutturazione del settore. Una dinamica destinata a riportare indietro il mondo del lavoro: dallo Statuto di lavoratori allo Statuto albertino.

*Alberto Violante è sociologo e organizzatore sindacale, membro Rsu Istat, Roma. Francesco Massimo è ricercatore a Sciences Po, Parigi.

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