Dal 24 marzo al 10 giugno 1999 la NATO condusse una operazione militare contro la Repubblica federale jugoslava guidata da Slobodan Milosevic.
Si trattava, in un certo senso, del culmine delle guerre balcaniche che avevano insanguinato quella parte d’Europa dagli inizi degli anni Novanta. La NATO allora decise di colpire Milosevic colpendo la Serbia e la sua città simbolo, Belgrado.
Secondo dati ufficiali, in tutto furono compiuti 2.300 attacchi aerei da parte della Forza Alleata, questo il nome dell’operazione, distruggendo 148 edifici e 62 ponti, danneggiando 300 scuole, ospedali e istituzioni statali, così come 176 monumenti di interesse culturale e artistico. Gli aerei coinvolti, in tutto un migliaio, partirono dall’Italia, ai quali si aggiunsero 30 navi da guerra e sottomarini salpati nell’Adriatico e in un secondo momento parte delle operazioni ebbero inizio in Ungheria.
Oltre ai civili morti, 2500 secondo le stime, di cui 89 bambini, il bombardamento NATO della Serbia nasconde un altro incubo: l’uranio impoverito.
Esami medici condotti su civili e soldati serbi presenti durante il bombardamento del 1999 hanno rilevato la presenza di uranio radioattivo nel sangue di “centinaia di volte” superiore rispetto alla media. Ad affermarlo l’avvocato serbo Srdan Aleksic che da anni si batte per cercare giustizia e aiutare a risarcire le vittime del killer silenzioso e radioattivo.
La dottoressa Rita Celli, medico chirurgo, già Consulente della Commissione d’inchiesta – Effetti dell’uranio impoverito, nanoparticelle e vaccini sulla popolazione militare impiegata nelle missioni di pace, un’esperta di analisi dell’uranio impoverito che ha assistito in diversi casi legali italiani in cerca di risarcimento per le truppe italiane che si sono ammalate o sono morte per l’esposizione alla sostanza mortale, ha definito i risultati dei test dei due serbi “drammatici”.
Ha indicato che i livelli di uranio-238 trovati nei loro tessuti erano 500 volte il livello normale e che livelli così elevati di contaminazione da uranio impoverito non erano stati trovati in nessun altro personale civile o militare di cui era a conoscenza.
La Celli fa riferimento in particolare a un soldato serbo che ha prestato servizio per 200 giorni nella Serbia meridionale e a una donna di Belgrado che è rimasta esposta all’uranio impoverito durante il bombardamento del ministero della Difesa a Belgrado. L’approccio di Rita Celli prevede esami del sangue e biopsie, oltre alla ricerca di alluminio, bario, antimonio, piombo, molibdeno e altri metalli.
“Tutti i metalli rilevati contengono tracce di U-238, che proviene da proiettili usati dalla Nato durante i bombardamenti della Bosnia ed Erzegovina e della Serbia, ed in particolare del Kosovo e della Metochia. I suoi effetti quasi certamente hanno colpito anche i Paesi circostanti come l’Albania e la Macedonia“, ha detto la Celli alla pubblicazione serba Vecherne Novosti.
A pagare le conseguenze devastanti del materiale radioattivo anche i militari italiani impegnati nei Balcani. “In condizioni normali, ha detto la dottoressa Celli, la quantità massima di alluminio in un litro di sangue è di 3,3 microgrammi. Ma nelle truppe italiane e serbe che soffrono di contaminazione da uranio impoverito, si va da 500, 2.000 o addirittura 3.000 microgrammi. Tra i civili, il livello di sicurezza dell’uranio è di 0,0053 unità per litro di sangue, mentre tra coloro che sono stati contaminati può arrivare fino a 10 microgrammi.”
Insomma, oggi la NATO si propone come l’organismo in grado di riportare la pace in Ucraina e in Europa, eppure solo qualche decennio fa la stessa Alleanza atlantica ha messo a rischio la vita di migliaia di innocenti.
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