domenica 24 luglio 2022

La grande fuga

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Grande fuga

I 523 giorni del governo Draghi hanno lasciato il sistema politico italiano in uno stato di disgregazione senza precedenti. Quando, fin dal febbraio dello scorso anno, avevamo previsto che quel governo che si voleva di salvezza nazionale, nato da una drammatica paralisi del sistema dei partiti, non ne avrebbe risolto la crisi ma anzi l’avrebbe aggravata eravamo stati facili profeti. Non occorrevano particolari doti di veggenza per capire che l’apparentemente saggia, in realtà distruttiva, soluzione voluta da Mattarella con un’arlecchinesca maggioranza-lenzuolo sottomessa a una leadership monocratica ultra-personalizzata, era foriera di sciagure. Che avrebbe accelerato la già ampiamente consumata crisi dei partiti, con un’ulteriore perdita d’identità e l’emergere di fratture correntizie sempre più ramificate. E che avrebbe inferto un ulteriore colpo alla centralità del Parlamento, subordinandolo pienamente al decisionismo di un Esecutivo a sua volta privato del suo carattere collegiale e ridotto a una condizione di fatto monocratica.

Tutto questo l’avevamo previsto da subito, anche conoscendo curriculum e trascorsi del de cuius. Ma lo spettacolo andato in scena al Senato il 20 luglio va ben oltre ogni più nera profezia. Ci ha mostrato un sistema politico ridotto a un panorama di rovine, con un’aula in caduta libera verso il caos, e un dominus – stizzito e sprezzante – in ascesa solitaria verso l’autocelebrazione di se stesso. Guardando la prima – l’Aula – si poteva vedere ad occhio nudo il grado di spappolamento delle forze politiche: non solo dei 5 Stelle, lacerati da una scissione compiuta e da altre in gestazione, non solo di Forza Italia logorata da spinte diasporiche poi consumatesi e dalla consunzione del suo Capo-Padrone, ma della stessa Lega divisa tra governisti e salviniani e dello stesso PD, aggrappato come un naufrago al suo ruolo di Staatspartei, di partito elettosi a funzione strutturale dello Stato e tuttavia visibilmente segnato da un reticolo di linee di frattura tenute insieme solo dalla simbolica del nulla interpretata da Letta. Ascoltando il secondo – il Dominus, nel suo uno-due costituito dal discorso d’apertura in Senato e dalla durissima replica, anzi, proprio “guardandolo” perché qui la mimica ha un suo peso -, si poteva cogliere d’altra parte il profilo di un modello istituzionale e di uno stile d’interpretarne la leadership ormai ampiamente al di là del nostro dettato costituzionale e decisamente opposto ad esso.

Un modello basato sulla personalizzazione netta del comando, sulla marginalizzazione degli organi di rappresentanza, sulla costruzione di un rapporto d’investitura diretta del leader da parte di un popolo ridotto alle sue élites e ai suoi gruppi di potere. In taluni passaggi il messaggio è stato esplicito, come quando Draghi ha detto che il Parlamento deve “accompagnare” il Governo (e le sue decisioni) – aggiungendo che deve farlo “convintamente” – quando il principio cardine di ogni democrazia parlamentare è l’esatto opposto: il Governo deve farsi indirizzare dal Parlamento. O quando si è lanciato in quell’apprezzatissimo (dagli opinion leader che vanno per la maggiore) passaggio sul suo esser lì non perché chiamato dalle miserabili mezze calzette che popolavano la suburra parlamentare ma per rispondere agli accorati (servilissimi ma qualificatissimi) appelli che gli erano arrivati dall’Italia di fuori (“Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto”).

Grande fuga
Antonio Scurati, autore di “M” Il figlio del secolo

Avevo letto con incredulità poi con disagio infine con indignazione l’umiliante pezzo di Antonio Scurati campeggiante sul giornale dell’establishment italiano, in cui implorava il Supremo di “umiliarsi” scendendo dall’”empireo” della più alta istituzione finanziaria (dove la lotta pur dura è comunque combattuta “ad altezze olimpiche”) giù, nelle “fosse della politica politicante” dove al contrario prevalgono “aspirazioni miserabili”, “sudicie congiure di palazzo”, “calcoli meschini” di uomini che “non valgono un’unghia della sua mano sinistra” (sic!). E avevo, un po’ superficialmente, attribuito quell’infornata bulimica di iperboli apologetiche – la “carriera formidabile”, il “posto nei libri di storia”, il “potere quello vero” con la conseguente “vertiginosa responsabilità di chi, da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti”, scritto proprio così, senza un grammo di ironia, fino all’apoteosi finale dell’uomo che “ha retto le sorti di una nazione e di un continente” e “le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore” -, l’avevo attribuita, dicevo, quella cascata di umori ancillari, soprattutto quell’incontenibile entusiasmo per il “piglio del dominatore”, alla sindrome dello scrittore che si lascia fagocitare dal suo oggetto. Il che, nel caso dell’autore di “M”, significherebbe l’identificarsi col culto più impudico del proprio leader o duce che dir si voglia… Insomma, avevo pensato che fosse il problema psicologico e del tutto personale di un chierico traditore.

Ma poi, ascoltando direttamente il destinatario di quell’omaggio spropositato ho capito che, con quel profilo scuratiano, il Migliore s’identificava davvero. E che veramente guardava dall’alto della sua Eurotower eburnea quei piccoli uomini eletti sì dal popolo ma indegni di misurarsi anche solo con l’unghia del suo mignolo. E dunque che avevamo di fronte, ben visibile a reti quasi unificate, un problema assai più drammaticamente istituzionale, di un Paese finito nel cul de sac di un decisionismo monocratico e personalizzato affermatosi sulle rovine di un sistema di rappresentanza prima ignorato e poi ridicolizzato (in parte anche da se stesso) ad opera di un “populismo delle élites” (secondo la felice espressione di Barbara Spinelli) che sostituisce la logica dell’appello alla forma-partito e l’investitura carismatica alla legittimazione parlamentare. Come dire che la psicologia di Antonio Scurati rinvia in realtà all’ontologia del potere incarnato da Mario Draghi e dall’intera classe dominante che lo esprime e che in lui si riconosce.

Poi, in prima serata, come la nottola di Minerva, è arrivato Paolo Mieli, con la sua consumata espressione da Stregatto, ad aggiungere nuovi squarci nella cortina di fumo che aveva avvolto la giornata. Mieli che, con i suoi aggettivi iperbolici – “strepitosa” la giornata di Draghi, “memorabile” il suo discorso d’apertura (quello con cui aveva tagliato i ponti con Lega e dintorni), “sublime” la replica (con i sonori ceffoni ai 5 stelle) -, ci ha spiegato, dallo studio di In Onda, che sì, certo, il Migliore dei migliori aveva dinamitato la sua maggioranza, rendendo praticamente impossibile la fiducia. Ma che quello era l’unico modo – geniale, s’intende – per salvare il proprio personale prestigio dal naufragio collettivo che si prospettava: per rimanere “spendibile” – ha detto letteralmente -, gettando a mare la zavorra parlamentare (e, implicitamente, il Paese tutto che a lui si era o era stato affidato). E così, in un colpo solo, ci ha fatto capire come le classi dirigenti di questo Paese concepiscano se stesse, patrimonio personale da preservare per la propria personale valorizzazione e da salvare collettivamente con complicità di gruppo assoluta, costi quel che costi, senza badare alle ricadute su chi sta in basso. E insieme ha confermato che quello di Draghi al Senato è stato un suicidio assistito consapevolmente consumato e ricercato, forse concepito e preparato da tempo, non certamente un agguato da parte dei suoi vecchi o nuovi nemici che, nella parte di Conte, gli hanno certamente fornito un alibi e un casus belli e nella parte di Berlusconi in scia a Salvini gli hanno dato il colpo di grazia, ma che comunque in tutta la vicenda hanno svolto la parte dei comprimari, non certo degli attori protagonisti.

D’altra parte che questa sia la sequenza delle responsabilità è evidente a chiunque abbia occhi per vedere fin dall’atto che ha fatto da detonatore, quell’inserimento surrettizio, del tutto inappropriato, nel decreto “Aiuti” del Termovalorizzatore di Roma che lì c’entrava come i cavoli a merenda e che avrebbe fatto infuriare i 5 Stelle con lo stesso automatismo del drappo rosso davanti al toro. E poi con la drammatizzazione di quel voto che pure aveva dato la fiducia al Governo alla Camera a ranghi compatti e al Senato con l’escamotage della non partecipazione al voto (che come è noto è la forma più gentile di espressione di dissenso, ben meno aggressiva dell’astensione e del voto contrario, non nuova neppure per questo governo eppure rivelatasi finora indolore). Cosicché la sostanza costituzionale dell’evento è che un governo in carica e nella pienezza della fiducia si dichiara decaduto per volontà del suo Capo. Punto. L’ha confermato uno che di vicende costituzionali se ne intende, il presidente emerito della Corte Paolo Maddalena quando ha scritto che “per quanto riguarda la caduta del governo Draghi è da dire che questo evento è stato pervicacemente voluto da Draghi stesso. Benché chiamato da tutte le parti, e persino dal movimento 5 stelle, a restare al suo posto, egli, con alterigia fuori posto, insulti e una inaccettabile forma di autoritarismo”, ha tirato dritto “dimenticando di essere italiano e di avere il dovere, sancito dall’art. 54 Cost., ‘di adempiere le sue funzioni con disciplina e onore’. Disciplina e onore che sono del tutto mancate nel suo arrogante discorso”.

Assodato questo, resta da capire fino in fondo il perché di una simile scelta. Perché il “salvatore della patria” mario Draghi, in un momento delicatissimo della vita nazionale, ha deciso di prender cappello e andarsene? Per un’umorale impennata da nume irato, da parte di uno che non è abituato a esser contraddetto e possiede notoriamente un Ego ipertrofico, il quale peraltro non ha mai digerito lo scorno della mancata elezione alla Presidenza della repubblica, di fatto promessagli al momento della formazione del suo governo? O perché voleva abbandonare il campo prima che si trasformasse in un’ arena per forconi incandescenti quando in autunno la crisi che le sue stesse politiche hanno innescato esploderà nelle piazze in forma probabilmente virulenta? O – versione istituzionale – perché consapevole che il logoramento della società politica prodotto in buona misura dal suo stile di gestione aveva superato il limite di guardia della conflittualità interna e dello scollamento sistemico, sfuggendo così di mano al suo stesso artefice? O ancora: perché l”ambiente” a cui da sempre appartiene e a cui resta leale, quello che governa al di sopra dei governi vuole affrontare la tempesta perfetta che ci aspetta, non solo in Italia, ma in Europa, nello scenario di guerra che l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia ha aperto, con truppe scelte e prive di infiltrazioni eterodosse. In altre parole, perché la presenza di quell’anomalia selvaggia costituita dai 5 stelle fin dall’inizio della legislatura era ritenuta, nel tempo del “serrate le file” attuale non più compatibile? O forse, ancora, solo per una sorta di ennui baudeleriano insorto a fine corsa. O come l’Arpagone di Moliére semplicemente perché non vede l’ora che tutta la commedia finisca, per andare a vedere la sua “amata cassetta”…

 

Comunque, come che vada la vicenda personale di Mario Draghi, banchiere centrale “caduto” in politica, resta il fatto che il cratere che si è aperto non solo nel quadro istituzionale (altre volte si è sopravvissuti a ciò) ma nel corpo stesso del Paese, nel suo tessuto economico e sociale già logorato dalla pandemia, è terrificante. Il combinato disposto di inflazione crescente e di recessione incipiente già normalmente costituisce l’incubo di qualsiasi governante per l’inefficacia delle tradizionali misure di politica economica. Figuriamoci ora, nella congiuntura in cui il dispiegarsi della crisi energetica incancrenita dal dissennato uso delle sanzioni (che restano, intendiamoci, strumento utile e migliore di quello militare per contrastare un’aggressione inaccettabile, buono, come direbbe Draghi, se congegnato bene, cattivo, anzi pessimo, se posto in essere nella forma autolesionistica che ci è stata imposta da falsi amici) lavora direttamente sul corpo vivo di una società già spaventosamente diseguale. E l’esplodere della crisi climatica, a lungo trascurata, fa il resto, trasferendo sui corpi stessi il disagio e dando forma concreta al senso di minaccia alla propria sopravvivenza segnando a morte il paesaggio. Sullo sfondo, inutile nascondercelo, l’ombra nera di un incombente accesso al governo di quell’unico partito (per lo meno tra quelli di dimensioni rilevanti) che era stato fuori dall’Union sacrée draghiana, quello, per intenderci, che conserva tuttora nel suo simbolo il sacello del Duce con relativa fiamma tricolorata, a ricordarcene origini e principii apertamente in contrasto con il fondamento antifascista della Repubblica. E che, secondo quello che profetizzano le simulazioni più pessimistiche, potrebbe ottenere, con gli alleati di destra, una maggioranza tale da mettere le mani sulla Costituzione senza neppure la garanzia del referendum confermativo, votando come si voterà con questa demenziale legge elettorale (tanto più demenziale dopo il taglio dei parlamentari). Secondo la recentissima simulazione Youtrend – Cattaneo Zanetto, infatti, nell’ipotesi in cui la destra si presentasse unita e il Pd rompesse il campo largo con i 5 Stelle, la prima otterrebbe 240 seggi su 400 alla Camera e 122 su 200 al Senato (percentuale non lontana da quei due terzi necessari per cambiare la Costituzione senza paracadute referendario). Un risultato “tombale”!

E questo ci porta all’ultimo punto di questo desolato commento. Ovvero la denuncia della superficialità, diciamolo pure della stupidità e dell’irresponsabilità di una classe politica non necessariamente di sinistra (che è ridotta alla quasi invisibilità) ma genericamente democratica, che pur avendo a disposizione un’intera legislatura non è riuscita a metter mano a una legge elettorale che, reintroducendo un proporzionale come dio comanda, ci mettesse al sicuro dai colpi di scure dei nemici della Costituzione. Questo avrebbe dovuto essere – per lo meno dalla fine del Conte 1 – il primo punto di un’Agenda democratica. E’ stato invece l’ultimo, anzi in agenda non è mai entrato, e oggi di quella insipienza rischiamo di pagare tutti il prezzo.

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