Un secolo fa Viktor Šklovskij, scrittore e studioso russo (chissà se mi è consentito citarlo o ciò urta la sensibilità dei tanti filoamerikani italiani, quelli che sognano di essere dei padroni e dei colonizzatori ma siccome non ci riescono allora si accontentano di tifare per i loro padroni e colonizzatori), scrisse uno breve saggio per spiegare che la funzione dell’arte è salvarci dall’abitudine e dalla pigrizia mentale: quando ci troviamo in un ambiente conosciuto, spiegò, molti non guardano né vedono la realtà che li circonda; si limitano a riconoscerla al solo fine pratico di orientarsi.
(Francesco Erspamer)
Un atteggiamento utilitaristico (chiudersi nell’automatismo, rifiutare l’attenzione e la riflessione, che costano fatica e comportano decisioni e dunque rischi, come ogni processo cognitivo) che finisce col “mangiarsi la vita”, con lo svuotarla di ogni esperienza, col farci regredire nella zona di conforto del conformismo, con l’atrofizzare il cervello ma soprattutto, col cancellare ogni spirito critico, ogni capacità di impegno politico. Come infatti desiderato da chi a quel preciso scopo ha trasformato media e tecnologie da possibili strumenti di emancipazione in intrattenimento.
Non sto affatto esaltando, e non lo faceva Šklovskij, il mito neocapitalista della continua originalità (altrimenti detta creatività) come espressione della libertà personale e irresponsabile (la libertà di sentirsi liberi), il dogma del nuovo come motore dell’economia e come oppio dei popoli (tipico dei turisti che collezionano località esotiche; o degli artisti che puntano soltanto alla sorpresa quasi fossero dei pubblicitari qualsiasi; o di chi si infatua di ogni dispositivo elettronico di moda per sentirsi giovane): il cambiamento perpetuo e compulsivo è una forma di conformismo, anzi, è il conformismo più conformista perché intenzionalmente effimero e superficiale (esattamente come il multiculturalismo liberista è una non-cultura appunto perché nega la complessità e i vincoli di ciascuna cultura).
Sto parlando del modello di società individualista ed edonista che Draghi ha imposto all’Italia, sulle orme di Pannella, Veltroni, Berlusconi e Renzi ma con più efficacia, forse perché le resistenze del vecchio mondo stanno crollando — no, non perché superato o astorico ma per il tradimento dei suoi intellettuali, vendutisi ai miliardari in cambio di qualche briciola di celebrità. Ormai anche l’arte ha difficoltà a scuotere gli italiani dal loro trance narcisistico.
Basta camminare per le nostre città e per i nostri paesi, così carichi di storia e di bellezza e che buona parte della gente e quasi tutti i giovani ignorano, troppo occupati a fissare l’iPhone d’ordinanza per assorbire le notizie (tutte “breaking”) volute dalle multinazionali, il gossip sulle celebrity create dalle multinazionali, le indicazioni stradali per recarsi nei luoghi scelti dalle multinazionali (quelli dove si esibiscono le suddette celebrity o si acquistano prodotti pubblicizzati da esse), le chat banali, sgrammaticate e piene di inesistenti anglicismi perché alle multinazionali fa comodo l’ignoranza.
Non è un destino manifesto, però; non esistono destini manifesti, solo gli interessi materiali degli avidi e dei prepotenti e la loro propaganda. Se non volete quello che vogliono loro potete combatterli. Se non li combattete il vostro destino lo avrete voluto.
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