venerdì 26 novembre 2021

La riforma fiscale del Governo Draghi: cambiare poco per cambiare male

Da mesi ormai si parla con toni da grande attesa dell’imminente riforma fiscale studiata dal governo Draghi. Nel suo discorso programmatico in Senato del 17 febbraio scorso, Mario Draghi spese parole enfatiche, ma assai vaghe nei contenuti, per annunciare le intenzioni di intervenire in modo energico sul fisco: “in questa prospettiva” affermava Draghi, “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.

 

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Delle intenzioni trasformatrici espresse durante il discorso di insediamento cosa troviamo nell’attuale legge finanziaria in via di approvazione? Sostanzialmente nulla e sicuramente nulla di buono. La proposta, più o meno definita nei contenuti generali, è quella di andare a limare lievissimamente uno o due aliquote Irpef ed andare a ridurre l’Irap per le imprese, per un costo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Per capire la direzione degli interventi proposti occorre fare un passo indietro e capire da dove veniamo.

Anni e anni di riforme involutive dagli anni ’80 ad oggi hanno portato ad una diminuzione continua del carico fiscale sui redditi da capitale e in generale sul reddito dei più ricchi. Una tendenza che si è articolata lungo due direzioni: da un lato la riduzione delle tipologie di reddito incluse nella base imponibile Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), con la previsione di regimi separati e agevolati per una parte cospicua dei redditi da capitale (reddito delle società di capitali, rendite finanziarie, rendite immobiliari); dall’altra una drastica riduzione della progressività in seno all’Irpef. Quest’ultima imposta, che ormai colpisce quasi esclusivamente redditi da lavoro e da pensione e solo in piccola parte i redditi da capitale (profitti della piccola e talvolta media impresa), è passata dai 32 scaglioni del lontano 1974 ai 5 attuali, con un differenziale ridottissimo tra prima e ultima aliquota e tra primo scaglione e ultimo scaglione di reddito ad esse associati.

Per non parlare dell’enorme piaga dell’evasione fiscale, mai seriamente affrontata da nessun governo, se non attraverso misure di corto respiro e mai indirizzate a colpire i pesci più grandi. Insomma, un sistema tributario che grava pesantemente sui redditi bassi e medi e che ha smesso da tempo di effettuare una discriminazione positiva sui livelli di reddito e sulla natura dei redditi (da lavoro e da capitale).

In un simile scenario la “grande riforma fiscale” del governo Draghi sembra davvero un ritocchino, da cui non c’è da attendersi nulla di positivo. In merito all’Irpef, a quanto è dato sapere si sta studiando la possibilità di abbassare di uno o due punti l’aliquota relativa al terzo scaglione. Gli scaglioni nel sistema italiano da ormai 14 anni sono i seguenti cinque:

  • da 0 a 15.000 euro si paga un’aliquota del 23% (ad eccezione della no tax area, sotto 8.000);
  • da 15.000 a 28.000 il 27%;
  • da 28.000 a 55.000 il 38%;
  • da 55.000 a 75.000 il 41%;
  • oltre i 75.000 il 43%.

Per chi non fosse avvezzo alla fiscalità e agli scaglioni, ciò significa che sui primi 15.000 euro di reddito si paga il 23%, sulla parte di reddito che eccede i 15.000 e fino a 28.000 si paga invece il 27% e così via. L’aliquota media che si paga sul complesso del proprio reddito – la percentuale del reddito versato allo Stato – sarà dunque data da una media ponderata delle diverse aliquote marginali pagate su ciascuno scaglione del proprio reddito ed è data dal rapporto tra imposta pagata e reddito.

L’intenzione sarebbe quella di abbassare l’aliquota dal 38% al 37% (o al 36%) e, in una seconda ipotesi, anche quella del 27% di un punto al ribasso (al 26%, quindi). Rimarrebbero immutate le restanti aliquote.

Nell’ambito dell’Irpef potremmo dire che cambierebbe davvero pochissimo rispetto allo status quo. La seconda e la terza aliquota in discussione sono effettivamente molto alte rispetto alla fascia di redditi che vanno a colpire, così come è enorme la distanza tra le due (ben 11 punti percentuali), la quale crea forti asimmetrie distributive allo scattare della fascia superiore.

La terza aliquota colpisce redditi lordi dai 28.000 ai 55.000, che in termini netti significa circa da 1500 a 2600 euro al mese. Parliamo insomma di redditi medi, non certo valori da persone ricche né particolarmente agiate. Tassare la quota eccedente i 1500 euro mensili con un’aliquota al 38% è davvero tanto. Così come è altissima la tassazione al 27% e al 23% delle due fasce inferiori (che comprendono redditi che in termini netti vanno da 900 a 1500 e da 0 a 900 al mese circa).

Va detto che il sistema di detrazioni, tipiche per lavoro dipendente e autonomo e specifiche per carichi familiari, abbassa di fatto l’aliquota media in maniera abbastanza significativa, specie per i redditi più bassi, ma le percentuali di imposta per i redditi bassi, medio-bassi e poco più che medi restano comunque gravose pure al netto delle detrazioni, se si tiene conto anche delle imposte legate alle addizionali regionali e comunali.

A titolo di esempio, una persona che guadagna 25.000 euro annui lordi, senza figli a carico e che vive a Roma, oggi paga un’aliquota media del 20% – considerando anche detrazioni e addizionali – ed un’aliquota marginale (ovvero sull’ultimo euro guadagnato) del 31%. La stessa persona, con un reddito di 35.000 euro lordi annui paga un’aliquota media del 25% e un’aliquota marginale del 41,5%. Con un reddito di 50.000 euro lordi annui un’aliquota media del 30,5% e una marginale del 42%.

Una quota rilevante del reddito viene quindi versata come imposta da parte di persone che hanno redditi che consentono una vita appena dignitosa oppure che, pur stando bene, di certo non navigano nell’oro. L’aspetto più scandaloso lo si coglie tuttavia procedendo verso l’alto in queste simulazioni.

Una persona che guadagna 200.000 euro lordi annui, nelle stesse condizioni ipotizzate prima, ha un’aliquota media del 39% e un’aliquota marginale del 43%. Una che ne guadagna 1.000.000 un’aliquota media del 42% e una marginale del 43%.

Come si vede, al crescere del reddito l’aliquota media cresce in modo sempre più lento ed oltre una certa soglia la crescita si assottiglia sempre di più, mentre si azzera quella dell’aliquota marginale. Colpa di un sistema in cui l’ultimo scaglione con un’aliquota del 43% colpisce una fascia incredibilmente ampia di redditi: da 75.000 euro in su. Come se il reddito di un dipendente molto ben pagato o di un professionista agiato fosse comparabile al reddito milionario di un’impresa che macina milioni di utili o di un top manager strapagato.

È allora evidente che, all’interno dell’Irpef, il problema grave è la scarsissima distanza tra l’aliquota media pagata dai redditi bassi e medi e i redditi alti, altissimi e milionari. E, a priori, il problema gravissimo è che la gran parte dei redditi da capitale (in genere i più alti) l’Irpef non sanno neanche cosa sia, rientrando in regimi agevolati separati non progressivi.

Secondo altre voci, la riforma dell’Irpef potrebbe assumere una forma leggermente diversa con una riduzione degli scaglioni da 5 a 4, un abbassamento un po’ più significativo della terza aliquota (attualmente al 38%) e l’abolizione della quarta (41%), mentre la quinta aliquota (43%) scatterebbe dai 55.000 in su. Se da un lato questo intervento abbasserebbe in modo più visibile il carico fiscale sui redditi medi, esso andrebbe tuttavia ad indebolire ulteriormente la progressività verso l’alto, lasciando che l’ultima aliquota scatti ad una soglia ridicolmente bassa ed equiparando di fatto un reddito lordo di 55.000 annui ad un reddito milionario.

Qualunque sia la versione finale, di certo non si tratterebbe di interventi particolarmente incisivi. Pochissimo o quasi nulla in un sistema che, per riacquisire una qualche forma di equità, necessiterebbe di una rivisitazione radicale.

Secondo tassello della riforma dovrebbe essere un abbassamento dell’Irap per tutte le imprese o, in alternativa, un’eliminazione o forte riduzione solo per le piccole (in termini di fatturato).

L’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap) è una delle imposte più discusse della storia dei sistemi tributari moderni. Che sia un’imposta atipica, incongrua rispetto agli obiettivi di progressività e in alcuni casi paradossale non ci piove. Si tratta in effetti di un’imposta che non colpisce l’utile d’impresa, ma il valore aggiunto, inteso come valore del fatturato al netto dei costi di produzione, delle materie prime e dell’ammortamento dei macchinari. Insomma, oltre a colpire gli utili, l’Irap colpisce anche il costo del lavoro e gli interessi passivi dovuti dalle imprese alle banche, con il risultato che un’impresa effettivamente in perdita la dovrebbe comunque pagare su alcune componenti del valore aggiunto. Per di più, come l’imposta societaria (IRES), l’Irap è completamente priva di progressività, essendo costituita da un’aliquota unica pari mediamente al 3,5%-4%. Significa che un’impresa che ha un fatturato (e verosimilmente un utile) modesto paga la stessa percentuale di una società che macina utili a 9 zeri.

Tuttavia, per capire l’Irap dobbiamo capire il sistema tributario del nostro paese. Con uno dei tassi di evasione più alto tra i paesi occidentali, l’Italia ha da sempre abdicato al compito di far davvero pagare le imposte alle imprese. Moltissime attività produttive nel nostro paese risultano falsamente in perdita a causa delle numerose pratiche di evasione ed elusione che permettono di gonfiare i costi e non far apparire alcuni ricavi.

In questo contesto, l’Irap risulta l’unica imposta sostanzialmente non ‘evadibile’ almeno per una sua quota parte. Se infatti è possibile nascondere una transazione economica generatrice di un utile, evadendo così le imposte sugli utili (Irpef ed Ires) e l’IVA, non è possibile nascondere del tutto la presenza di manodopera o di rapporti finanziari con le banche. Ciò implica che anche l’impresa più adusa all’evasione sistematica dovrà per forza pagare almeno una parte dell’Irap. Si potrebbe quindi dire che l’Irap, pur con tutte le sue storture, iniquità e inadeguatezze, da quando è stata istituita (fine anni ’90) ha funzionato da vero e proprio strumento di recupero d’evasione delle imposte sui redditi d’impresa.  

A prescindere dagli evidenti limiti dell’Irap, proporre una drastica riduzione o l’abolizione non può allora essere accettabile nel contesto attuale, specie se si considera che il gettito associato a questa imposta va a finanziare il già martoriato Sistema Sanitario Nazionale, per il quale – come sottolineato dall’UPB – la Legge di Bilancio non ha stanziato un euro addizionale di risorse aggiuntive, a livello strutturale. Occorre piuttosto mettersi nella doppia ottica di una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e di un radicale intervento tributario che faccia rientrare in toto i redditi da capitale nell’alveo della progressività, intensificando il grado complessivo di progressività del sistema, facendo pagare tanto a chi ha tantissimo.

In assenza di tutto questo, ogni proposta di intervento di riduzione dell’Irap, quale quella agitata dal governo, altro non è che l’ennesimo tassello del programma di riduzione del carico fiscale sui redditi da capitale in atto da decenni. Un tassello del grande puzzle del processo di redistribuzione delle risorse economiche a danno del lavoro.

Ecco qui servita la ‘riformina’ fiscale del governo Draghi: una riforma piccola e di scarso rilievo strutturale, a dispetto delle dichiarazioni che, a fronte di qualche briciola concessa al ceto medio lavoratore, offre in compenso l’ennesimo consistente regalo alle imprese, in un’ottica di perfetta conservazione della struttura di un sistema fiscale profondamente iniquo, che svantaggia pesantemente chi vive del proprio lavoro.

 

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