Il
provvedimento sulla concorrenza è pessimo quanto ci si poteva
aspettare. Disegna un settore pubblico a cui è praticamente vietato
gestire qualsiasi cosa, anche i monopoli naturali.
Il suo compito deve essere esclusivamente quello di stabilire le regole e controllare: poco importa che l’esperienza abbia dimostrato chiaramente che questo surrogato del mercato non ha funzionato quasi mai, è costoso e può portare a disastri come quello del Ponte Morandi. E quando accadono, con un rovesciamento della logica, si dà la colpa allo Stato “che non ha controllato”.
L’affidamento ai privati della gestione di servizi tradizionalmente forniti dal settore pubblico (che per semplificare chiameremo Stato, anche quando si tratta di altre sue articolazioni come ad esempio i Comuni, le Regioni, le Authority) è motivato essenzialmente da due variabili.
La prima è il pregiudizio secondo cui il privato è sempre più efficiente, veloce e innovativo. La seconda è la pretesa di introdurre la concorrenza anche in quei casi in cui la concorrenza è di fatto impossibile, come per i monopoli naturali.
Per chi non avesse chiaro il concetto, l’esempio più semplice è quello delle autostrade: chi va – per dire – da Napoli a Milano deve fare l’A1, e costruirne un’altra parallela in modo da dare all’utente una possibilità di scelta non avrebbe senso economico, anche trascurando i problemi ambientali.
Dunque si sposta la possibilità di concorrenza sulla gestione, da assegnarsi tramite una gara. Supponendo una cosa che non è affatto certa, e cioè che la gara riesca a selezionare il candidato migliore, da questo momento il compito dello Stato è quello di controllare che il gestore rispetti gli impegni contrattuali e che non aumenti arbitrariamente le tariffe agli utenti, i quali – come abbiamo visto – non possono fare a meno di utilizzare quel servizio, che si tratti dell’autostrada oppure dell’acqua o della gestione dei rifiuti.
Su come determinare le tariffe sono state scritte intere biblioteche, ma la soluzione perfetta non è stata trovata. In via di principio, se la gestione è stata affidata ai privati perché sono più efficienti, le tariffe dovrebbero diminuire rispetto alla precedente gestione pubblica, o quantomeno aumentare a un ritmo più basso dell’inflazione: questo, del resto, è lo scopo – e anche la sola giustificazione – di affidare il servizio ai privati.
Non so se questo sia mai accaduto. Il fatto è che ci sono buoni motivi per rendere impossibile che accada.
Il privato, dalla sua attività, deve realizzare un profitto, mentre lo Stato dovrebbe solo coprire i costi. Questo significa che – a parità di tariffe – l’efficienza deve essere tanto migliore di quella del pubblico da generare un margine che assicuri un guadagno al gestore, e che possibilmente non sia tutta a carico del lavoro.
È vero che spesso le aziende pubbliche hanno sovrabbondanza di manodopera e che a volte i loro addetti riescono a ottenere salari e prebende assai migliori di quelle che potrebbero ottenere nel settore privato, ma è anche vero che in quest’ultimo sono altrettanto frequenti i casi specularmente opposti, per esempio con l’utilizzo di subappalti.
Se la maggiore profittabilità fosse dovuta solo a questo, cioè fosse a spese dei lavoratori, sarebbe ipocrita parlare di miglioramento.
Silvia Borelli, docente di Diritto del lavoro a Ferrara, si è occupata di servizi come gli asili nido e le scuole materne. “Il processo di esternalizzazione è diffuso ovunque e continuerà anche con il PNRR per il semplice motivo che questi servizi, quando sono gestiti da privati, costano circa un terzo in meno perché: si applica un diverso contratto nazionale; si applica una diversa (più facile) disciplina dei licenziamenti; possono essere utilizzate liberamente forme flessibili di lavoro; può essere impiegato personale volontario (soprattutto quando gli enti gestori sono del terzo settore). Dal 2010 al 2015 l’esternalizzazione ha poi permesso di ovviare ai blocchi al turn over previsti nell’amministrazione pubblica”.
Come si vede, in questo caso la “maggiore efficienza” deriva solo dalla possibilità di spremere di più i lavoratori e dar loro meno garanzie.
Ma questo è solo l’inizio dei problemi. Una corretta gestione richiede investimenti in manutenzione e miglioramenti (per esempio adottando nuove tecnologie). Per investire si deve fare debito, e salvo rare eccezioni lo Stato ottiene denaro a un costo minore del privato.
I contratti possono riconoscere al gestore una remunerazione del capitale che investono, e ci sono stati casi in cui questa remunerazione è stata fissata a un livello assai più elevato di quanto sarebbe stato ragionevole nelle condizioni di mercato del momento.
Ma quali investimenti bisogna fare, e dove? Qui si entra nel vivo della strategia di gestione. Lo Stato deve controllare quali e quanti investimenti si fanno?
La risposta positiva appare scontata. Ma apre anche un problema logico. Lo Stato può decidere che gli investimenti decisi dal gestore sono insufficienti o male indirizzati? Se sì, allora è di fatto lo Stato che gestisce. Se no, allora in che cosa consiste il controllo?
Ma non solo. Per decidere se sono necessari investimenti, e dove, e se sono adeguati, lo Stato dovrebbe disporre di una struttura tecnica e manageriale almeno comparabile a quella dell’impresa. Personale e competenze che hanno un costo, e che sarebbero un doppione delle analoghe strutture dell’impresa.
E lo stesso discorso si può fare sul controllo della manutenzione: serve o no qualcuno – ovviamente qualificato – che sia in grado di giudicare se la Società Autostrade sta facendo adeguata manutenzione per il Ponte Morandi e per gli altri del sistema autostradale?
Attenzione a rispondere “ovviamente sì”, perché anche questa è una duplicazione di costi.
Da quanto sopra deriva che un effettivo controllo è impossibile, a meno di non duplicare le funzioni più importanti dell’impresa che gestisce, il che non avrebbe senso. I controlli che si fanno sono solo sulla carta, e si basano su informazioni che ha il gestore, ma non il concessionario: si deve giocoforza contare sulla buona fede (stavo per scrivere “buon cuore”) dei privati. Che però tendono molto spesso a pesare la sicurezza in base ai costi e a trascurare quelle che gli economisti chiamano “esternalità negative”.
Al di fuori del discorso sulle concessioni, abbiamo visto come la famiglia Riva ha gestito le esternalità negative dell’Ilva, che consistevano nell’avvelenare un intero territorio.
Le concessioni hanno una durata molto lunga, venti o trent’anni, perché si deve dare al gestore la possibilità di rientrare dagli investimenti. E se il gestore sta facendo un cattivo lavoro? Beh, gli si revoca la concessione.
Facile a dirsi, ma si è visto che cosa è accaduto nella vicenda Autostrade. Nonostante che ci fosse l’evidenza che la società non aveva lavorato bene, adottando addirittura comportamenti penalmente rilevanti, una semplice revoca si è rivelata impossibile, e si è dovuto inventare un meccanismo che ha di fatto indennizzato la società.
Il fatto è che le grandi imprese che concorrono per questi appalti si servono dei migliori studi legali per stipulare contratti che le mettano al riparo da ogni possibile imprevisto. E non potrebbe farlo anche lo Stato, visto che le competenze interne non hanno dato grande prova?
Certo, con una ulteriore duplicazione di costi che poi andranno a gravare sugli utenti.
Si dirà che però è possibile fare confronti fra i vari gestori, e dunque con la gara successiva affidare la concessione a chi ha dato buona prova. Ma, a parte che ci sono sempre differenze che rendono non facile il confronto, la gara successiva avverrà dopo una ventina d’anni almeno, tutto il tempo perché una gestione mal fatta lasci danni costosissimi da riparare.
Riassumendo. Appaltare ai privati i servizi pubblici è una pessima idea, strutturalmente più costosa della gestione diretta. I controlli sono solo teorici, e in caso di mala gestione la revoca è quasi impossibile.
Perché allora si vuol fare? Perché operare senza concorrenza – visto che ciò accade una volta che la concessione sia stata assegnata – è il sogno di tutti i capitalisti, e le pressioni per imboccare questa strada sono fortissime.
Qualche volta può esserci anche un altro motivo: il gestore pubblico non se la sente di affrontare il costo politico di un aumento delle tariffe che sarebbe magari necessario, e lascia al privato il “lavoro sporco”. Ma l’aumento delle tariffe dev’essere autorizzato dall’Authority di controllo, cioè dallo Stato, quindi la mossa corrisponde al coprirsi con una foglia di fico.
Ci sarebbe un’alternativa sensata. Il confronto si potrebbe fare tra gestioni pubbliche, prendendo a modello quelle più efficienti. Ce ne sono da fare invidia a qualsiasi privato.
Ma questo naturalmente non piace agli adoratori del mercato, secondo i quali la mano pubblica deve fare il meno possibile e soprattutto togliersi di torno da settori lucrosi e senza rischi. Lo chiamano “mercato”, ma qui l’unico mercato che c’è è quello alimentato dalle lobby.
* da MicroMega
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