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La tortura è caratterizzata da una molteplice negatività etica ed è comunemente considerata la più abominevole tra le violenze, perché, come dice Jean Amery (1993, p. 82), è l’unica capace di annientare in modo definitivo la fiducia della vittima nel mondo. In questo senso, essa conduce un attacco al cuore della vita sociale, danneggiando i legami e pregiudicando irreparabilmente «il senso di comunità» (Erickson 1994, p. 233). Ragione per cui la tortura esige, quasi sempre, un luogo isolato o riparato dall’altrui vista per realizzarsi, nonché l’anonimato dei torturatori.
Le istituzioni totali (carceri, caserme, ospedali etc.) – che, non a caso, Franco Basaglia (2014) ha definito «istituzioni della violenza» – soddisfano molte delle esigenze materiali della tortura: sono luoghi separati dal resto della società, dove si sviluppano relazioni fondate su una rigida gerarchia. Tutto ciò non è però sufficiente. Affinché la tortura abbia luogo deve entrare in scena l’immaginario, che Jean-Paul Sartre definisce «une détermination cardinale d’une personne» (1976, p. 101). Anzì, si può affermare che l’immaginario costituisca la condicio sine qua non per una perfetta esecuzione della tortura.
Ken Davis, un ex soldato in servizio al famigerato carcere di Abu Ghraib, ha ben descritto in un documentario – The Human Behaviour Experiments (2006) – l’esigenza psicologica dei torturatori di costruire nella loro mente un’immagine degradata dei torturati: «Ci dicevano: sono soltanto cani. Così metti in testa quell’immagine e d’un tratto cominci a guardare quella gente come se fosse meno umana, e fai cose che non ti saresti mai sognato di fare». Diversi anni prima, il generale Jacques de Bollardière, che aveva partecipato alla guerra coloniale francese in Algeria, lo aveva anticipato, nel documentario La Guerre d’Algerie (1984), dove ha dichiarato: «Noi non vedevamo gli algerini come esseri umani. Li chiamavamo topi. Oppure bougnouls. Ed è facile torturare un bougnoul, perché si immagina che non sia un essere umano».
Nelle testimonianze raccolte in tutto il mondo, in diverse epoche storiche, la necessità dei torturatori di avviare nella loro mente un processo di disumanizzazione delle vittime emerge come elemento strutturale ed invariabile: nelle caserme di Pinochet i torturati venivano definiti “bestie”, nella Grecia dei colonnelli erano “cani”, nella caserma di Bolzaneto “zecche” etc. I torturatori sembrano avere ovunque bisogno di trasmutare la realtà in finzione per poterla sopportare. Non a caso, Alriel Dorfman individua l’esigenza primaria della tortura nella cancellazione della «capacità di immaginare la sofferenza degli altri» (Dorfman, 2004, p. 8). La tortura, dunque, si (pre)costituisce dentro un invisibile e selettivo archivio di immagini mentali dei torturatori. Tale archivio – che dipende sia dall’immaginario collettivo che dal contesto sociale generale – le è indispensabile, perché oltre ad agevolare una percezione del mondo al di là del qui e dell’ora, possiede anche la capacità di alterare gli stati psicologici e fisiologici dei torturatori. Serve inoltre a fornire una perenne giustificazione della violenza perpetrata.
Quanto emerge dalle intercettazioni effettuate dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, che hanno portato alcuni giorni fa all’adozione di diverse misure cautelari nei confronti di 52 agenti penitenziari, fornisce un’ulteriore conferma di questa banale verità della tortura. «Li abbattiamo come vitelli» è una delle frasi utilizzate in chat tra gli indagati prima di giungere al reparto Nilo del carcere “Francesco Uccella” per picchiare i detenuti. La violenza esercitata dagli agenti, una volta giunti in reparto, è paradossalmente servita a legittimare l’immagine degradata dei detenuti, ovvero è servita – per dirla con Sartre (2018, p. 99-100) – affinché i detenuti definissero se stessi, con le loro grida e la loro sottomissione, come delle bestie umane. Davanti agli occhi di tutti e anche ai loro.
Questa prospettiva sui gravi fatti accaduti al carcere di Santa Maria Capua Vetere, al di là delle responsabilità penali degli indagati, allarga la visuale sulle responsabilità di altri attori sociali. Chiama in causa le istituzioni, i media, i partiti e i movimenti, perché attraverso le loro azioni e i loro discorsi sono stati capaci di porre in essere, prima ancora che le violenze si realizzassero concretamente, le pre-condizioni necessarie per il loro sviluppo, costruendo del detenuto l’immagine di un vuoto a perdere.
Se la realtà concreta delle carceri italiane attribuisce alla pena un significato così lontano da quello previsto dalla Costituzione (art. 27 «tendere alla rieducazione del condannato»), se i detenuti vivono ammassati in condizioni disumane, se li si tratta come fossero immondizia, reietti senza speranza, allora non deve stupire se poi coloro che sono chiamati a conservare quotidianamente quest’ordine delle cose non si convincano che, in fondo, non si tratti di esseri umani, ma di «vitelli da abbattere». Le violenze e le torture che ne conseguono sono atti che legittimano soltanto quanto già da troppo tempo si è sedimentato nelle loro coscienze.
Bibliografia
Amery, Jean (1993), Intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri
Basaglia, Franco (2014), Le istituzioni della violenza, in Franco Basaglia (a cura di), L’istituzione negata. Milano, Baldini&Castoldi
Dorfman, Ariel (2004), The Tyranny of Terror: Is Torture inevitable in Our Century and Beyond?, in Levinson Sanford (a cura di), Torture: A Collection, Oxford, Oxfrod University Press, pp. 3-18
Erickson, Kai (1994), A New Species of Trouble: The Human Experience of Modern Disasters, New York, Norton
Sartre, Jean-Paul (1976), Sur l’idiot de la famille, in Jean-Paul Sartre, Situation X. Politique et autobiographie, Paris, Gallimard, pp. 91-115
Sartre, Jean-Paul (2018), Una vittoria, in Iside Gjergji, “Uccidete Sartre!”. Anticolonialismo e antirazzismo di un revenant, Verona, Ombre Corte, pp. 89-103
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