mercoledì 28 luglio 2021

La lotta di classe l’hanno vinta i ricchi. Però…

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Come ogni fenomeno epocale – dalle guerre alle rivoluzioni, dai terremoti agli tsunami ‒ la pandemia che ha fatto irruzione nella nostra vita non soltanto ci obbliga, come ammonisce papa Francesco (Fratelli tutti, Libreria Editrice Vaticana, 2020, p. 7) a rivedere le nostre false sicurezze, ma ci disvela l’esito di uno scontro, l’esito di una lotta di classe che ha visto uscire vincenti i potenti. Che lo scontro fosse in atto e che i vincitori sarebbero stati loro, l’aveva capito uno dei più noti miliardari del mondo, Warren Buffett, che già nel 2006, intervistato dal New York Times, aveva affermato: «Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo» (M. D’Eramo, Dominio, Feltrinelli, 2020, p. 10).

E pochi anni dopo, ricorda ancora D’Eramo, lo stesso Buffett «ribadiva il concetto non più che i ricchi questa guerra di classe la “stavano vincendo” ma che “l’avevano già vinta”». Una lotta dunque conclusa con successo e vinta non dal basso ma dall’alto, il cui inizio si può collocare, grosso modo, circa cinquant’anni fa. Eppure di questa sconfitta pochi se ne sono accorti. Come mai? Il sottotitolo del volume di D’Eramo ci fornisce una prima risposta: La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi. Fermiamoci sulle due parole: “guerra” e “invisibile”. “Guerra”, perché, come scrive l’autore, «la metafora militare è appropriata, poiché di una vera e propria guerra si è trattato, ma di una guerra condotta in larga misura senza l’impiego delle armi». “Invisibile”, in quanto «non sono state, in primo luogo, le armi a farla uscire vincente bensì l’affermarsi di una precisa rappresentazione del mondo attraverso un capillare lavoro che, poco a poco, ha indotto la maggioranza degli umani ad accettare come vere alcune menzogne spacciate come fatti, come dati empiricamente confermati» (p. 40). Così, ad esempio, ci hanno convinti che il mercato costituisce un fenomeno naturale che possiede il talento di sapersi autoregolare; convinzione di fatto smentita dalle ricorrenti crisi. Nel 2005 e nel 2007 le economie dei singoli paesi occidentali infatti non si sarebbero salvate dal tracollo senza gli interventi pubblici. Come è parimenti falsa l’idea che non esistano alternative all’attuale sistema economico e che, pertanto, il capitalismo finanziario globale costituisca l’unico futuro pensabile. Ma forse è più appropriato parlare di miti più che di idee, e cioè di rappresentazioni che, da transitorie, contingenti a una determinata situazione, diventano immutabili, eterne. Basti pensare al mito dei vantaggi che la società ricava dalla riduzione delle tasse! Uno sguardo anche frettoloso alle economie mondiali rivela senza ombra di dubbio che i Paesi più poveri sono quelli dove è più bassa la pressione fiscale.

Dunque è con questa sconfitta che tutti noi, nessuno escluso, dobbiamo fare i conti. E fare i conti significa innanzitutto aprire gli occhi, vedere il frutto dissennato di decenni di neoliberismo, vale a dire dell’ideologia che ha posto al centro il Dio mercato e la sua merce, l’umano. Che ha affermato, contro ogni logica e ogni evidenza, che del costante, crescente aumento di ricchezza dei ricchi avrebbero beneficiato anche i poveri. E che se questi sono aumentati la colpa è delle politiche di welfare! Un dato è certo: secondo l’ISTAT, nel giro di pochi anni, il loro numero è salito nel nostro Paese da cinque a quasi sei milioni. Parlo di persone in condizione di povertà assoluta, cioè di umani a cui non è garantito neppure il minimo indispensabile per vivere, dal cibo all’abitazione, alla salute. Di persone dunque che devono lottare quotidianamente per non soccombere. E pure i ricchi sono in crescita: in Italia, i miliardari, che erano poco più di una decina nel 2009, oggi sono una quarantina! 

Ma l’invisibilità della guerra che ha a lungo celato la nostra sconfitta, va a sua volta spiegata. Bisogna capire in che modo i potenti sono riusciti a prenderci per il naso, a fare in modo che noi interiorizzassimo i valori che ci hanno poi resi subalterni. E il concetto chiave è la violenza culturale, vale a dire quell’insieme di rappresentazioni e di messaggi che nascondono la violenza del sistema e ne permettono la riproduzione. Sono precisamente loro a svolgere quel capillare lavoro di costruzione della menzogna di cui parlava D’Eramo. E la parte del leone è svolta dal linguaggio che, come ben sappiamo, non è soltanto l’espressione ma la realizzazione del pensiero. Così, ad esempio, chiamare clandestini o extra-comunitari o sans-papier le persone che giungono da noi, in fuga da fame, da guerre, da persecuzioni di ogni ordine e grado, significa cambiare il prisma attraverso il quale li guardiamo. Significa ridefinire radicalmente il nostro rapporto con loro. Non siamo più noi quelli a cui incombe il dovere morale e giuridico di accoglienza. Sono invece loro che hanno l’obbligo di giustificare ciò che sono o ciò che a loro manca. Umani, per così dire devianti, incompleti, alla fine inferiori. Talvolta basta l’uso di un termine come ad esempio la parola “risparmio” a coprire la violenza che viene esercitata. Ché è all’insegna del risparmio, risparmio di personale assistenziale, risparmio di farmaci, più in generale risparmio di cure, che tanti anziani sono stati lasciati morire nelle cosiddette case di riposo (RSA). Ricordiamoci che le loro morti in Lombardia, nel periodo più acuto della mortalità per Covid-19 hanno rappresentato, nel solo marzo 2020, il 42% del totale dei decessi. Le bocche inutili le chiama Alberto Gaino nel suo libro (Sensibili alle foglie, 2021) appunto con questo titolo. Inutili sì, ma fino a un certo punto, fino a quando non sono più fonte di profitto perché, come ricorda Gaino, con il progressivo ritiro dello Stato dall’assistenza diretta alle persone non autosufficienti, la loro cura è diventata un investimento per importanti gruppi imprenditoriali come il gruppo Kos, fondato dalla famiglia De Benedetti, naturalmente con un occhio di riguardo all’analisi costi-benefici. Ciò è molto chiaro al presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, quando, il primo novembre del 2020, non esita ad affermare: «Per quanto ci addolori ogni vittima del Covid-19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i venticinque decessi della Liguria, ventidue erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate» (Gaino, p. 20, mio corsivo). E la tutela non può certamente consistere nell’imporre loro «delle giornate in strutture enormi, per garantire l’economia di scala, con ritmi di sonno e di veglia programmati […] una semplice triste sopravvivenza, dimostratasi nemmeno sicura» (Gaino, p.84, mio corsivo).

Ma come penetrare questa invisibilità? Ché, per vedere che il re è nudo non basta, semplicemente, alzare le palpebre. C’è un primo passo da compiere, ed è la presa di coscienza, non soltanto con la mente ma anche con le viscere, di ciò che un numero crescente di noi è diventato: questo essere sempre meno disposti o capaci a quel movimento interiore dell’umano che «scopre fuori di sé un altro essere umano, apparentemente simile e tuttavia differente, [e che] entra in contatto con quest’altro, gli fa domande e ascolta le risposte» (C. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, 2009, p. 36). Abbiamo cioè sempre più spesso ceduto alla fatica della compassione, come è toccato a me, ricoverato in terapia intensiva per Covid-19. Ché lì, a fronte di un altro ricoverato, un corpo immobile avvolto in uno scafandro di plastica lucente, io non seppi fare altro che distogliere lo sguardo. Quando, una notte, morì, il corpo venne rinchiuso in un sacco, ma il letto con il quale gli infermieri lo trasportavano urtò, per la fretta, il mio. Fu l’unico contatto tra noi due. Ero diventato uno dei tanti individui trasformati da umani sociali a individui isolati, incapaci appunto di entrare in contatto con l’Altro.

Tuttavia, la transizione dal mondo della menzogna al mondo della verità non può essere semplicemente il frutto di “un cuore informato”. Pertanto, l’altro passo da compiere è quello di prendere atto del fatto che noi, i sudditi, in realtà, un po’ di potere ce l’abbiamo e che dunque è venuto il momento di esercitarlo. Certo, non dobbiamo condividere il pessimismo di uno studioso come Luciano Gallino, che, una decina di anni fa (ma le sue considerazioni continuano ad essere attuali) non esitava a dichiarare che «è arduo attendersi che dal seno di una popolazione così capillarmente governata emergano forme estese e non effimere, di dissenso o di opposizione aperta» (Finanzcapitalismo, 2011, p. 322). Piuttosto, potendo scegliere, facciamo nostro l’invito di D’Eramo che, citando Machiavelli ‒ «Le buone leggi nascono dai tumulti» ‒, ci incoraggia alla protesta e al dissenso. Salvo poi precisare che, «per convincere i nostri simili bipedi umani di questa verità il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento», ed aggiungere: «Ma ricordiamoci che nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità; sembravano predicare nel deserto proprio come noi; ora loro però tanto hanno creduto nelle proprie idee, tanto hanno persistito, che, alla fine, hanno vinto» (D’Eramo, p. 206).

Il compito è indubbiamente enorme, ma lo era anche quello dei danesi che, nel 1943, in piena occupazione tedesca e senza armi, salvarono migliaia di loro concittadini ebrei dai campi di sterminio, traghettandoli in Svezia. E forse i dominanti non si sentono così sicuri del loro potere se si riflette sull’accanimento con il quale, da decenni, stanno cercando di soffocare il dissenso e alla crescita di tecnologie di controllo come i dispositivi di riconoscimento facciale. Forse noi, singoli e movimenti, un po’ di paura la facciamo. Altrimenti come spiegare la militarizzazione di un’intera vallata ‒ la Valle di Susa ‒ che si oppone alla costruzione della TAV e la criminalizzazione del dissenso dei suoi abitanti? Come rendere ragione dello spietato accanimento politico e giudiziario nei confronti di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e del suo progetto di una comunità dell’accoglienza, se non in termini di espressione del timore che quell’esperimento di vita comune fondata sul riconoscimento dell’Altro e sulla solidarietà potesse essere di esempio per altre iniziative ispirate agli stessi valori? Onde la necessità di statuire un esempio? E non si tratta di casi isolati. Anche la persecuzione alle ONG costringendone la maggioranza a restare ferme nei porti, riflette la stessa paura. Perché ‒ e qui Gallino coglieva nel segno ‒ «nulla deve turbare il mondo del finanzcapitalismo».

Le ONG lo turbano, i No-Tav pure. Può altresì turbarlo il fruttivendolo che, nella metafora di Vaclav Havel (Il potere dei senza potere, Castelvecchi, 2013), nella società post-totalitaria, decide di non più esporre tra i suoi prodotti il cartello che recita «proletari di tutto il mondo unitevi». Con quel gesto egli fa sapere che non è più disposto a vivere nella menzogna. A questo punto una cliente che sta facendo la spesa da lui, nota l’assenza del cartello e quando ritorna in ufficio, decide pure lei di togliere dalla porta ciò che vi è affisso. E forse pure il collega della stanza accanto rimuoverà il suo cartello. E forse…

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