venerdì 30 luglio 2021

L’egemonia di Gramsci e i partiti senza popolo del tardo capitalismo

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di Gyorgy Luckàcs

La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la
borghesia.
“Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tienefortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente.”
Antonio Gramsci
Il socialismo si era realizzato mediante la trasmissione di un ideale grazie ad una letteratura che aveva avuto come suo punto di riferimento la Prima Internazionale del 1865. Da questo momento in poi, nei diversi paesi europei nacquero partiti fondati su principi di organizzazione collettiva, l’unica adeguata a rappresentare l’avvento della nuova società di massa agricolo-industriale. Difatti, alla domanda conclusiva che Gramsci si pone ne Il Risorgimento, riguardo il fallimento parziale di quella esperienza politica, il filosofo risponde offrendo al lettore una definizione sintetica ma già piuttosto esaustiva di partito popolare post-unitario: La verità è che il programma di Pisacane era altrettanto indeterminato da quello di Mazzini. […] 1) perché programmi
concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o meno fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero partiti selezionati e omogenei, ma solo bande zingaresche fluttuanti e incerte […] 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari e le avesse educate a insorgere simultaneamente in tutto il paese (Gramsci 2000: 146-147) i. Dunque, attribuiamo al partito dei Gramsci, dei Togliatti, dei Nenni, e dei Basso, la funzione moderna di aver creato: 1) un progetto pragmatico che esisteva al di là dei singoli attori partecipanti (programmi concreti); 2) la scelta di persone di valore e una disciplina di vita che rendeva il partito unito nelle idee, sotto principi inoltre di umiltà e di uguaglianza (partiti selezionati e omogenei); 3)la missione di rendere quel progetto il fulcro di maggiore condivisone possibile con il popolo
(condiviso dalle grandi masse popolari), soltanto ora più omogeneo rispetto al passato, e quindi potenzialmente soggetto di trasformazioni politiche-sociali radicali (educate a insorgere). Storicamente, quest’ultima funzione, che serviva per selezionare i militanti e perseguire obiettivi di consenso all’esterno del partito, prese il nome di egemonia. A – Ricapitolando, se il soggetto politico rimaneva il centro dell’organizzazione e della prassi, quest’ultimo si trovava sempre ad operare contemporaneamente in un contesto oggettivo che lo trascendeva, attraverso: 1) un progetto super partes; 2) e dei blocchi sociali esterni; ovvero, nell’am-bito di un essere sociale che lo ricomprendeva entro di sé. Eppure, dalla fine della Prima Repubblica in poi non è stato più così. Se ad esempio il Partito Democratico ha rinnegato il suo legame con i lavoratori per intercettare solo il consenso degli istituti di credito e della grande distribuzione, entrambi distanti dai disagi delle classi subalterne, Forza Italia è stato invece il partito per eccellenza del man self made di impronta thatcheriana, incentrato unicamente sul personalismo del leader. In tutti e due i casi ci troviamo in presenza di partiti post-moderni, definiti così in quanto tale atteggiamento viene assunto da tutti quegli organismi chiusi che riproducono la loro soggettività identica a se stessa nell’intento di proiettare il proprio interesse di classe particolare sulla società presa nel suo insieme. Per questa ragione, si assiste da parte loro ad un crollo simbolico della realtà medesima che non riesce più ad essere riconosciuta e descritta come tale, per essere sostituita con un proprio surrogato fantas-ma, o allucinazione (Jameson 1989) ii. Va da sé che il ricorso frequente al governo tecnico e il pilota automatico di Bruxelles rappresentino la fase più avanzata dell’attuale metamorfosi dei partiti verso l’esclusione, sia pur ancora non scritta ma ormai codificata, delle masse popolari dalla costruzione dei progetti politici nell’ambito delle attuali post-democrazie europee e occidentali. B – Di conseguenza, esattamente all’opposto dei partiti delle origini, quelli post-moderni hanno avuto progressiva-mente sempre meno bisogno di cercare una propria legittimazione: 1) tanto che fosse dovuta a progetti al di sopra degli interessi di gruppi sociali specifici e di leader individuali; 2) quanto quella di un impegno strategico per la costruzione di un autentico consenso di massa. In conclusione, tali partiti sono composti da nomenclature che si auto-riproducono per partenogenesi al di fuori di rapporti di forza reali. Ora, però, l’analisi del presente articolo vuole indagare questo aspetto più nel profondo e quindi si applica anche alla galassia sovranista costituzionale e neo-socialista. Difatti, se il Partito Democratico, in virtù di una precedente eredità storico-egemonica ereditata dal PCI, oppure Forza Italia, grazie alla disponibilità di ingenti risorse finanziarie private, hanno scelto coscientemente di rinunciare a ricomprendere le contraddizioni esterne entro una traiettoria egemonica, perché
appunto non ne traevano più alcun vantaggio, esiste tuttavia anche un ampio spettro di partiti di estrazione popolare persuasi invece di essere sufficienti a se stessi. Tutto ciò in una paradossale prospettiva auto-referenziale (o allucinatoria) dove è venuta a mancare del tutto la mediazione fuori di sé. Dunque, obiettivo finale dell’articolo sarà di mettere in luce proprio l’assenza, da parte dei partiti costruiti dal basso, di una riflessione sulla posizione che hanno concretamente assunto nell’ambito dell’essere sociale.
2. Il problema del Risorgimento e l’egemonia secondo Gramsci
La propaganda socialista italiana di fine 800 è fittissima e si dirama con una serie di manifesti e di riviste come la La plebe,
del redattore Enrico Bignani, apparsa a Lodi nel 1862: ovvero, ben trent’anni prima che venisse fondato il Partito dei Lavoratori Italiano nel 1892 (Pisano 1985) iii. Secondo Turati, infatti, il soggetto politico non ha ragion d’essere se non si rivolge, guida, e
contribuisce a costruire un proprio interlocutore specifico, storico sociale, che sarà individuato in quell’epoca nel proletariato dei grandi agglomerati urbani del triangolo industriale di Milano, Genova, e Torino. Ma il partito non si limitava a parlare semplice-mente ai lavoratori. Li andava a cercare; li incontrava direttamente nelle officine; li persuadeva; sentiva il dovere di conquistarli. Così che tale processo di incontro tra avanguardia proletaria e piccolo borghese, con il popolo, raggiunge il suo punto più alto circa sessant’anni dopo, durante il famoso Biennio rosso, che consisterà nell’occupazione delle fabbriche di Torino tra il 1921 e il 1922. Guardando a ritroso, è proprio la mancanza di tale convergenza con le masse a diventare l’oggetto polemico di Antonio Gramsci nei confronti dei leader del Risorgimento, autori più che altro di una’conquista regia’ da parte dei Savoia e perciò di una ‘mancata rivoluzione popolare’ come l’aveva descritta il Cuoco (Gramsci 2000) iv. Gramsci, d’altronde, aveva avuto davanti a sé almeno due casi esemplari, praticamente identici, che dimostravano la validità della sua tesi. Da una parte, l’impresa storica di Robespierre, quando i giacobini nel 1789 erano riusciti a conquistare Parigi, nella misura in cui compresero di poter raggiungere tale obiettivo solo incrociando il consenso degli abitanti della capitale con quello delle masse rurali provenienti dal resto del paese (Gramsci 2000) v. Dall’altra, c’era stato il recente modello della Rivoluzione d’Ottobre, nella quale Lenin, per sconfiggere i Menscevichi, aveva intuito che il partito comunista avrebbe dovuto cucire insieme gli interessi degli operai delle grandi città occidentali, come Mosca e Pietroburgo, con quelli dei contadini che vivevano in Siberia, nella parte più orientale della Russia. Tuttavia, tale presa di distanza dall’élite liberale non discendeva solo da un’analisi storica, come soleva fare il Croce, quanto piuttosto teorica. Sostiene a ragione Costanzo Preve (2012) vi che Croce e Gentile condividevano con Gramsci la corrente neo-idealista ma, rispetto agli altri due filosofi, quest’ultimo l’aveva declinata per mezzo del materialismo storico, dando luogo infine
ad una propria impostazione originale del marxismo. Non si trattava infatti di pensare nemmeno ad un soggetto ideale come quello gentiliano nella sua accezione pura. Diversamente, per Gramsci, l’idea di soggetto hegeliano diventava immanente, e perciò si calava all’interno dei rapporti sociali fra gli uomini: quindi nella storia. Dunque, mentre per Gramsci il soggetto politico, nonostante partisse da una condizione scissa rispetto alla totalità popolare, l’avrebbe dovuta ricomprendere con il fine di
trasformare se stesso, insieme a quella, nella nazione italiana, la classe liberale, al contrario, era stata solamente capace di contemplarla dall’esterno, identificando l’essere sociale nella mera cosa in sé (cioè che ha solo senso in se stessa) kantiana: un oggetto incomprensibile all’intelletto e perciò estraneo anche alla propria influenza d’azione (Gramsci 2000) vii. Per dirla con la
Fenomenologia dello Spirito , gli eroi della Destra Storica erano stati portatori di una ‘coscienza infelice’ che rimandava ad una visione della realtà solo parzialmente corretta in quanto viziata dal proprio punto vista. Prendiamo l’esempio del Moderato Crispi, l’avvocato napoletano che sarà giacobino soltanto nella sua volontà determinata di fare unita l’Italia. Mentre rimarrà totalmente incapace di negare la soggettività piccolo borghese che lo connotava, tanto da realizzare al governo un’alleanza con i latifondisti del Mezzogiorno a scapito dei contadini, pur di non mettere a repentaglio la conquista piemontese (Gramsci 2000) viii. Allora, per quale motivo i Moderati non furono in grado di uscire dalla loro egoità? Perché la classe dirigente del Risorgi-mento si percepiva come un soggetto politico artefice del proprio destino, specchio di quelle costituzioni liberali che, dalla Rivoluzione Francese fino al ’48, erano state gradualmente imposte ai sovrani di mezza Europa mediante la loro promozione in parlamento. Fu grazie alla conquista del potere attraverso i moti di inizio secolo, e nonostante la Restaurazione del Congresso di Vienna, che la grande borghesia italiana del 1860 era stata in grado di fondare una propria etica soggettiva. Ed è solo verso quest’ultima che i liberali (anche piccolo-boerghesi) rispondevano nel realizzare i propri interessi di classe, rispetto ai quali venivano ancora esclusi il suffragio universale, i diritti del lavoro, e i partiti: istanze popolari che non riuscivano a trovare una loro collocazione in quella
Weltanschauung (Hobsbawn 2016) ix. Di conseguenza, come dicevamo, lo sbaglio dei liberali fu quello di proiettare le leggi di un
Io legislatore parcellizzato sull’interesse complessivo dell’intera nazione. Ovvero, si trattava di un’idea particolare che, in
maniera contraddittoria, avrebbe voluto raggiungere ingiustamente il piano universale. D’altronde, neanche il Partito d’azionriuscì a dare luogo ad una rivoluzione popolare. Se si faceva eccezione per una certa parte più autenticamente progressista, come Garibaldi e il Pisacane, nemmeno proletariato e piccola borghesia erano stati in grado di raggiungere da soli (in modo automatico e deterministico) la consapevolezza della propria condizione alienata, così da superarla per ricomprendere in sé le leggi che informavano i rapporti di forza fuori di loro. Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito ad imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico avrebbe dovuto contrapporre all’attività empirica dei Moderati un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. […]. (Gramsci 2000: 89) x. Quindi, per fare luce a pieno su tale fallacia, ci deve ve-nire in aiuto anche un secondo scritto di Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Il fallimento era sop-raggiunto perché l’auto-coscienza dell’ Io, estranea ai liberali, era stata possibile solo attraverso l’elaborazione collettiva prodotta dall’ingresso nella storia del partito popolare post-unitario. Non prima di allora. Gramsci infatti aveva imparato da Hegel il pro-cesso di costruzione della soggettività moderna, per cui non si poteva avere una classe dirigente cosciente della sua ideologica unilateralità mediante la mera conferma di un’identità cristallizzata, quanto piuttosto grazie alla negazione di quella solitudine egoica (Gramsci 2000: 118-119) xi. Soltanto negando se stesso, infatti, il soggetto politico poteva rendersi conto di non essere affatto dissimile dalla cosa in sé, percepita, nell’immediatezza, esterna e posta lontana nel mondo fenomenico. Mentre il processo di sviluppo del partito, che ambiva a diventare egemone, doveva includerla ora al proprio interno come parte necessaria del
suo progetto per trasformarla. In altre parole, allo stesso modo di Lenin, anche la rivoluzione dei socialisti italiani avrebbe avuto l’obiettivo di convogliare entro la propria guida gli interessi degli operai del nord Italia con quelli dei contadini meridionali, prigionieri del latifondo. Soltanto per mezzo di questo ampio consenso esterno al partito, i socialisti avrebbero potuto conquistare in seguito anche il potere legale nelle istituzioni attraverso il partito medesimo, e non il contrario: Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. […] Dalla politica dei Moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione ufficiale (Gramsci 2000: 87) xii. In altre parole, non avrebbe avuto senso entrare nelle stanze del governo in assen-za dell’appoggio dei lavoratori, pena la realizzazione di un progetto politico condotto avanti da un volgare e astratto dover essere, lontano perciò da rapporti di forza sostanziali, con un partito che sarebbe rimasto chiuso in una mera logica formale. Di conseguenza, possiamo sostenere che i partiti popolari dei Turati e dei Gramsci respingevano pienamente quella rigida sogget-tività, padrona in casa propria del cogito ergo sum, che si poneva come non contraddittoria ma identica a se stessa. Semmai, era intervenuto un principio di castrazione paterna, da parte di quella stessa classe dirigente illuminata, che fu in grado di interrom-pere il corto-circuito autoerogeno dell’Io borghese per diventare a tutti gli effetti il soggetto aperto e inclusivo nazional-popolare del moderno partito di massa. Difatti, potremmo porci la seguente domanda. Come doveva apparire all’avvocato Turati, che non era di certo un proletario, quella vasta massa di operai analfabeti che non erano in grado di accogliere i complessi messaggi del marxismo, se non alla stregua di un non-Io fichtiano, radicalmente dicotomico rispetto al soggetto politico? Eppure, all’opposto di Crispi, il primo leader del PSI, proprio per riuscire a raccogliere il consenso di quella moltitudine, nel 1896 aveva bandito un concorso a conclusione del quale si sarebbero potuti premiare i migliori opuscoli per la diffusione delle idee socialiste (Pisano 1985) xiii. Dopo quattro anni dalla sua fondazione, la propaganda fu ritenuta strategica nell’organizzazione di partito. E, pertanto, si dovevano scovare anche i conferenzieri più abili che fossero riusciti a coniugare insieme una comunicazione adatta alle classi incolte, insieme a dei contenuti altrettanto significativi. Viceversa, per la classe dirigente del Risorgimento, il popolo rappresentò sempre quell’incomprensibile non-Io (o cosa in sé kantiana), che in un primo momento era rimasto estraneo alla Costituzione dello Statuto Albertino, ma che invece avrebbe fatto il suo ingresso nella Storia, dapprima, durante il Biennio rosso, e successivamente con la Resistenza, quando la sovranità popolare fu collocata all’interno del primo articolo della Costituzione
del ’48. i.Gramsci A. Il Risorgimento, in I quaderni dal carcere, Roma: Editori Riuniti, 2000, cit. pg.146-147. ii. Jameson F.
Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo. Milano: Garzanti; 1989.iii. Pisano R. Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento. Milano: Franco Angeli; 1985.iv. Gramsci A. Il Risorgimento. v.Ibid. vi. P r e v e C . ,
Antonio Gramsci e la filosofia de lla prassi. Torino:https://www.youtube.com/results?search_query=costanzo+preve+su+gramsci, in Youtube: 07.12.2012 vii. Letteralmente, Gramsci interpreta la cosa in sé come un fenomeno concreto scientifico: “Pare difficile escludere che la ‘cosa in sé’ sia una derivazione esterna del così detto realismo greco-cristiano e ciò si vede anche dal fatto che
tutta la tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neo-kantiana e neo-critica […] ”, tanto che, continua Gramsci, la cosa in sé potrebbe essere disvelata in futuro con adeguate conoscenze scientifiche. cit. pg. 49 e vedere pg. 50. Tuttavia, come appunto sostengono Preve, insieme ad altri critici, la sua visione della storia sociale corrisponde chiaramente a quella neo-idealista, esattamente come si ritrova ad esempio in Storia e coscienza di classe di Luckàcs. Per cui Gramsci scrive spesso passi come il seguente, dove l’idea della ‘ storia dei rapporti di produzione e di classe’ sono come li intendeva, appunto, anche il filosofo ungherese:“Oggettivo significa sempre’umanamente oggettivo’. Ciò che può corrispondere esattamente a stori-camente oggettivo, cioè oggettivo significherebbe ‘universale oggettivo’. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la cono-scenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario […]. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un
divenire, ecc.”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, in I quaderni dal carcere. Roma: Editori Riuniti; 2000, cit. pg. 181-182 (grassetto mio). viii.Gramsci A., Il Risorgimento.ix Hobsbwam E., Le rivoluzioni borghesi (1789-1848). Res Gestae: Milano; 2016.x. Gramsci A., Il Risorgimento., cit. 89. xi. “ Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema […] si riesce a comprendere la realtà […], pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, (che) è una filosofia liberata […] da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente, o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elem ento a principio di conoscenza e quindi di azione. L’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato, e tutti i concetti dogmaticamente unitari
vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di uomo in generale o di natura umana immanente in
ogni uomo”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Cit. pg. 118-119 (grassetto mio). xii.Id.,Il Risorgimento., cit. 87.xiii.Pisano R., Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento.

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