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di Gyorgy Luckàcs
La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la
borghesia.
“Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tienefortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente.”Antonio Gramsci
Il socialismo si era
realizzato mediante la trasmissione di un ideale grazie ad una
letteratura che aveva avuto come suo punto di riferimento la Prima
Internazionale del 1865. Da questo momento in poi, nei diversi paesi
europei nacquero partiti fondati su principi di organizzazione
collettiva, l’unica adeguata a rappresentare l’avvento della nuova
società di massa agricolo-industriale. Difatti, alla domanda conclusiva
che Gramsci si pone ne Il Risorgimento, riguardo il fallimento parziale
di quella esperienza politica, il filosofo risponde offrendo al lettore
una definizione sintetica ma già piuttosto esaustiva di partito popolare
post-unitario: La verità è che il programma di Pisacane era altrettanto
indeterminato da quello di Mazzini. […] 1) perché programmi
concreti in realtà non
esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o
meno fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero
partiti selezionati e omogenei, ma solo bande zingaresche fluttuanti e
incerte […] 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse
popolari e le avesse educate a insorgere simultaneamente in tutto il
paese (Gramsci 2000: 146-147) i. Dunque, attribuiamo al partito dei
Gramsci, dei Togliatti, dei Nenni, e dei Basso, la funzione moderna di
aver creato: 1) un progetto pragmatico che esisteva al di là dei singoli
attori partecipanti (programmi concreti); 2) la scelta di persone di
valore e una disciplina di vita che rendeva il partito unito nelle idee,
sotto principi inoltre di umiltà e di uguaglianza (partiti selezionati e
omogenei); 3)la missione di rendere quel progetto il fulcro di maggiore
condivisone possibile con il popolo
(condiviso dalle grandi masse popolari), soltanto ora più omogeneo
rispetto al passato, e quindi potenzialmente soggetto di trasformazioni
politiche-sociali radicali (educate a insorgere). Storicamente,
quest’ultima funzione, che serviva per selezionare i militanti e
perseguire obiettivi di consenso all’esterno del partito, prese il nome
di egemonia. A – Ricapitolando, se il soggetto politico rimaneva il
centro dell’organizzazione e della prassi, quest’ultimo si trovava
sempre ad operare contemporaneamente in un contesto oggettivo che lo
trascendeva, attraverso: 1) un progetto super partes; 2) e dei blocchi
sociali esterni; ovvero, nell’am-bito di un essere sociale che lo
ricomprendeva entro di sé. Eppure, dalla fine della Prima Repubblica in
poi non è stato più così. Se ad esempio il Partito Democratico ha
rinnegato il suo legame con i lavoratori per intercettare solo il
consenso degli istituti di credito e della grande distribuzione,
entrambi distanti dai disagi delle classi subalterne, Forza Italia è
stato invece il partito per eccellenza del man self made di impronta
thatcheriana, incentrato unicamente sul personalismo del leader. In
tutti e due i casi ci troviamo in presenza di partiti post-moderni,
definiti così in quanto tale atteggiamento viene assunto da tutti quegli
organismi chiusi che riproducono la loro soggettività identica a se
stessa nell’intento di proiettare il proprio interesse di classe
particolare sulla società presa nel suo insieme. Per questa ragione, si
assiste da parte loro ad un crollo simbolico della realtà medesima che
non riesce più ad essere riconosciuta e descritta come tale, per essere
sostituita con un proprio surrogato fantas-ma, o allucinazione (Jameson
1989) ii. Va da sé che il ricorso frequente al governo tecnico e il
pilota automatico di Bruxelles rappresentino la fase più avanzata
dell’attuale metamorfosi dei partiti verso l’esclusione, sia pur ancora
non scritta ma ormai codificata, delle masse popolari dalla costruzione
dei progetti politici nell’ambito delle attuali post-democrazie europee e
occidentali. B – Di conseguenza, esattamente all’opposto dei partiti
delle origini, quelli post-moderni hanno avuto progressiva-mente sempre
meno bisogno di cercare una propria legittimazione: 1) tanto che fosse
dovuta a progetti al di sopra degli interessi di gruppi sociali
specifici e di leader individuali; 2) quanto quella di un impegno
strategico per la costruzione di un autentico consenso di massa. In
conclusione, tali partiti sono composti da nomenclature che si
auto-riproducono per partenogenesi al di fuori di rapporti di forza
reali. Ora, però, l’analisi del presente articolo vuole indagare questo
aspetto più nel profondo e quindi si applica anche alla galassia
sovranista costituzionale e neo-socialista. Difatti, se il Partito
Democratico, in virtù di una precedente eredità storico-egemonica
ereditata dal PCI, oppure Forza Italia, grazie alla disponibilità di
ingenti risorse finanziarie private, hanno scelto coscientemente di
rinunciare a ricomprendere le contraddizioni esterne entro una
traiettoria egemonica, perché
appunto non ne traevano più
alcun vantaggio, esiste tuttavia anche un ampio spettro di partiti di
estrazione popolare persuasi invece di essere sufficienti a se stessi.
Tutto ciò in una paradossale prospettiva auto-referenziale (o
allucinatoria) dove è venuta a mancare del tutto la mediazione fuori di
sé. Dunque, obiettivo finale dell’articolo sarà di mettere in luce
proprio l’assenza, da parte dei partiti costruiti dal basso, di una
riflessione sulla posizione che hanno concretamente assunto nell’ambito
dell’essere sociale.
2. Il problema del Risorgimento e l’egemonia secondo Gramsci
La propaganda socialista italiana di fine 800 è fittissima e si dirama con una serie di manifesti e di riviste come la La plebe,
del redattore Enrico
Bignani, apparsa a Lodi nel 1862: ovvero, ben trent’anni prima che
venisse fondato il Partito dei Lavoratori Italiano nel 1892 (Pisano
1985) iii. Secondo Turati, infatti, il soggetto politico non ha ragion
d’essere se non si rivolge, guida, e
contribuisce a costruire un
proprio interlocutore specifico, storico sociale, che sarà individuato
in quell’epoca nel proletariato dei grandi agglomerati urbani del
triangolo industriale di Milano, Genova, e Torino. Ma il partito non si
limitava a parlare semplice-mente ai lavoratori. Li andava a cercare; li
incontrava direttamente nelle officine; li persuadeva; sentiva il
dovere di conquistarli. Così che tale processo di incontro tra
avanguardia proletaria e piccolo borghese, con il popolo, raggiunge il
suo punto più alto circa sessant’anni dopo, durante il famoso Biennio
rosso, che consisterà nell’occupazione delle fabbriche di Torino tra il
1921 e il 1922. Guardando a ritroso, è proprio la mancanza di tale
convergenza con le masse a diventare l’oggetto polemico di Antonio
Gramsci nei confronti dei leader del Risorgimento, autori più che altro
di una’conquista regia’ da parte dei Savoia e perciò di una ‘mancata
rivoluzione popolare’ come l’aveva descritta il Cuoco (Gramsci 2000) iv.
Gramsci, d’altronde, aveva avuto davanti a sé almeno due casi
esemplari, praticamente identici, che dimostravano la validità della sua
tesi. Da una parte, l’impresa storica di Robespierre, quando i
giacobini nel 1789 erano riusciti a conquistare Parigi, nella misura in
cui compresero di poter raggiungere tale obiettivo solo incrociando il
consenso degli abitanti della capitale con quello delle masse rurali
provenienti dal resto del paese (Gramsci 2000) v. Dall’altra, c’era
stato il recente modello della Rivoluzione d’Ottobre, nella quale Lenin,
per sconfiggere i Menscevichi, aveva intuito che il partito comunista
avrebbe dovuto cucire insieme gli interessi degli operai delle grandi
città occidentali, come Mosca e Pietroburgo, con quelli dei contadini
che vivevano in Siberia, nella parte più orientale della Russia.
Tuttavia, tale presa di distanza dall’élite liberale non discendeva solo
da un’analisi storica, come soleva fare il Croce, quanto piuttosto
teorica. Sostiene a ragione Costanzo Preve (2012) vi che Croce e Gentile
condividevano con Gramsci la corrente neo-idealista ma, rispetto agli
altri due filosofi, quest’ultimo l’aveva declinata per mezzo del
materialismo storico, dando luogo infine
ad una propria impostazione
originale del marxismo. Non si trattava infatti di pensare nemmeno ad un
soggetto ideale come quello gentiliano nella sua accezione pura.
Diversamente, per Gramsci, l’idea di soggetto hegeliano diventava
immanente, e perciò si calava all’interno dei rapporti sociali fra gli
uomini: quindi nella storia. Dunque, mentre per Gramsci il soggetto
politico, nonostante partisse da una condizione scissa rispetto alla
totalità popolare, l’avrebbe dovuta ricomprendere con il fine di
trasformare se stesso, insieme a quella,
nella nazione italiana, la classe liberale, al contrario, era stata
solamente capace di contemplarla dall’esterno, identificando l’essere
sociale nella mera cosa in sé (cioè che ha solo senso in se stessa)
kantiana: un oggetto incomprensibile all’intelletto e perciò estraneo
anche alla propria influenza d’azione (Gramsci 2000) vii. Per dirla con
la
Fenomenologia dello Spirito ,
gli eroi della Destra Storica erano stati portatori di una ‘coscienza
infelice’ che rimandava ad una visione della realtà solo parzialmente
corretta in quanto viziata dal proprio punto vista. Prendiamo l’esempio
del Moderato Crispi, l’avvocato napoletano che sarà giacobino soltanto
nella sua volontà determinata di fare unita l’Italia. Mentre rimarrà
totalmente incapace di negare la soggettività piccolo borghese che lo
connotava, tanto da realizzare al governo un’alleanza con i latifondisti
del Mezzogiorno a scapito dei contadini, pur di non mettere a
repentaglio la conquista piemontese (Gramsci 2000) viii. Allora, per
quale motivo i Moderati non furono in grado di uscire dalla loro egoità?
Perché la classe dirigente del Risorgi-mento si percepiva come un
soggetto politico artefice del proprio destino, specchio di quelle
costituzioni liberali che, dalla Rivoluzione Francese fino al ’48, erano
state gradualmente imposte ai sovrani di mezza Europa mediante la loro
promozione in parlamento. Fu grazie alla conquista del potere attraverso
i moti di inizio secolo, e nonostante la Restaurazione del Congresso di
Vienna, che la grande borghesia italiana del 1860 era stata in grado di
fondare una propria etica soggettiva. Ed è solo verso quest’ultima che i
liberali (anche piccolo-boerghesi) rispondevano nel realizzare i propri
interessi di classe, rispetto ai quali venivano ancora esclusi il
suffragio universale, i diritti del lavoro, e i partiti: istanze
popolari che non riuscivano a trovare una loro collocazione in quella
Weltanschauung (Hobsbawn 2016) ix. Di conseguenza, come dicevamo, lo sbaglio dei liberali fu quello di proiettare le leggi di un
Io legislatore parcellizzato sull’interesse complessivo dell’intera nazione. Ovvero, si trattava di un’idea particolare che, in
maniera contraddittoria, avrebbe voluto
raggiungere ingiustamente il piano universale. D’altronde, neanche il
Partito d’azionriuscì a dare luogo ad una rivoluzione popolare. Se si
faceva eccezione per una certa parte più autenticamente progressista,
come Garibaldi e il Pisacane, nemmeno proletariato e piccola borghesia
erano stati in grado di raggiungere da soli (in modo automatico e
deterministico) la consapevolezza della propria condizione alienata,
così da superarla per ricomprendere in sé le leggi che informavano i
rapporti di forza fuori di loro. Perché il Partito d’Azione fosse
diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito ad
imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente
popolare e democratico avrebbe dovuto contrapporre all’attività empirica
dei Moderati un programma organico di governo che riflettesse le
rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei
contadini. […]. (Gramsci 2000: 89) x. Quindi, per fare luce a pieno su
tale fallacia, ci deve ve-nire in aiuto anche un secondo scritto di
Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Il
fallimento era sop-raggiunto perché l’auto-coscienza dell’ Io, estranea
ai liberali, era stata possibile solo attraverso l’elaborazione
collettiva prodotta dall’ingresso nella storia del partito popolare
post-unitario. Non prima di allora. Gramsci infatti aveva imparato da
Hegel il pro-cesso di costruzione della soggettività moderna, per cui
non si poteva avere una classe dirigente cosciente della sua ideologica
unilateralità mediante la mera conferma di un’identità cristallizzata,
quanto piuttosto grazie alla negazione di quella solitudine egoica
(Gramsci 2000: 118-119) xi. Soltanto negando se stesso, infatti, il
soggetto politico poteva rendersi conto di non essere affatto dissimile
dalla cosa in sé, percepita, nell’immediatezza, esterna e posta lontana
nel mondo fenomenico. Mentre il processo di sviluppo del partito, che
ambiva a diventare egemone, doveva includerla ora al proprio interno
come parte necessaria del
suo progetto per
trasformarla. In altre parole, allo stesso modo di Lenin, anche la
rivoluzione dei socialisti italiani avrebbe avuto l’obiettivo di
convogliare entro la propria guida gli interessi degli operai del nord
Italia con quelli dei contadini meridionali, prigionieri del latifondo.
Soltanto per mezzo di questo ampio consenso esterno al partito, i
socialisti avrebbero potuto conquistare in seguito anche il potere
legale nelle istituzioni attraverso il partito medesimo, e non il
contrario: Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima
di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni
principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il
potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma
deve continuare ad essere anche dirigente. […] Dalla politica dei
Moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività
egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare
solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione
ufficiale (Gramsci 2000: 87) xii. In altre parole, non avrebbe avuto
senso entrare nelle stanze del governo in assen-za dell’appoggio dei
lavoratori, pena la realizzazione di un progetto politico condotto
avanti da un volgare e astratto dover essere, lontano perciò da rapporti
di forza sostanziali, con un partito che sarebbe rimasto chiuso in una
mera logica formale. Di conseguenza, possiamo sostenere che i partiti
popolari dei Turati e dei Gramsci respingevano pienamente quella rigida
sogget-tività, padrona in casa propria del cogito ergo sum, che si
poneva come non contraddittoria ma identica a se stessa. Semmai, era
intervenuto un principio di castrazione paterna, da parte di quella
stessa classe dirigente illuminata, che fu in grado di interrom-pere il
corto-circuito autoerogeno dell’Io borghese per diventare a tutti gli
effetti il soggetto aperto e inclusivo nazional-popolare del moderno
partito di massa. Difatti, potremmo porci la seguente domanda. Come
doveva apparire all’avvocato Turati, che non era di certo un proletario,
quella vasta massa di operai analfabeti che non erano in grado di
accogliere i complessi messaggi del marxismo, se non alla stregua di un
non-Io fichtiano, radicalmente dicotomico rispetto al soggetto politico?
Eppure, all’opposto di Crispi, il primo leader del PSI, proprio per
riuscire a raccogliere il consenso di quella moltitudine, nel 1896 aveva
bandito un concorso a conclusione del quale si sarebbero potuti
premiare i migliori opuscoli per la diffusione delle idee socialiste
(Pisano 1985) xiii. Dopo quattro anni dalla sua fondazione, la
propaganda fu ritenuta strategica nell’organizzazione di partito. E,
pertanto, si dovevano scovare anche i conferenzieri più abili che
fossero riusciti a coniugare insieme una comunicazione adatta alle
classi incolte, insieme a dei contenuti altrettanto significativi.
Viceversa, per la classe dirigente del Risorgimento, il popolo
rappresentò sempre quell’incomprensibile non-Io (o cosa in sé kantiana),
che in un primo momento era rimasto estraneo alla Costituzione dello
Statuto Albertino, ma che invece avrebbe fatto il suo ingresso nella
Storia, dapprima, durante il Biennio rosso, e successivamente con la
Resistenza, quando la sovranità popolare fu collocata all’interno del
primo articolo della Costituzione
del ’48. i.Gramsci A. Il Risorgimento, in I quaderni dal carcere, Roma: Editori Riuniti, 2000, cit. pg.146-147. ii. Jameson F.
Il postmoderno o la logica
del tardo capitalismo. Milano: Garzanti; 1989.iii. Pisano R. Il paradiso
socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine
dell’Ottocento. Milano: Franco Angeli; 1985.iv. Gramsci A. Il
Risorgimento. v.Ibid. vi. P r e v e C . ,
Antonio Gramsci e la
filosofia de lla prassi.
Torino:https://www.youtube.com/results?search_query=costanzo+preve+su+gramsci,
in Youtube: 07.12.2012 vii. Letteralmente, Gramsci interpreta la cosa
in sé come un fenomeno concreto scientifico: “Pare difficile escludere
che la ‘cosa in sé’ sia una derivazione esterna del così detto realismo
greco-cristiano e ciò si vede anche dal fatto che
tutta la tendenza del
materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola
neo-kantiana e neo-critica […] ”, tanto che, continua Gramsci, la cosa
in sé potrebbe essere disvelata in futuro con adeguate conoscenze
scientifiche. cit. pg. 49 e vedere pg. 50. Tuttavia, come appunto
sostengono Preve, insieme ad altri critici, la sua visione della storia
sociale corrisponde chiaramente a quella neo-idealista, esattamente come
si ritrova ad esempio in Storia e coscienza di classe di Luckàcs. Per
cui Gramsci scrive spesso passi come il seguente, dove l’idea della ‘
storia dei rapporti di produzione e di classe’ sono come li intendeva,
appunto, anche il filosofo ungherese:“Oggettivo significa
sempre’umanamente oggettivo’. Ciò che può corrispondere esattamente a
stori-camente oggettivo, cioè oggettivo significherebbe ‘universale
oggettivo’. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la cono-scenza è
reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema
culturale unitario […]. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto
all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la
realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un
divenire, ecc.”, in Gramsci
A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, in I
quaderni dal carcere. Roma: Editori Riuniti; 2000, cit. pg. 181-182
(grassetto mio). viii.Gramsci A., Il Risorgimento.ix Hobsbwam E., Le
rivoluzioni borghesi (1789-1848). Res Gestae: Milano; 2016.x. Gramsci
A., Il Risorgimento., cit. 89. xi. “ Hegel rappresenta, nella storia del
pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema […] si
riesce a comprendere la realtà […], pertanto, la filosofia della prassi è
una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, (che) è una filosofia
liberata […] da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la
coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso
individualmente, o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende
le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione,
eleva questo elem ento a principio di conoscenza e quindi di azione.
L’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato, e tutti i
concetti dogmaticamente unitari
vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di uomo in generale o di natura umana immanente in
ogni uomo”, in Gramsci A., Il
Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Cit. pg.
118-119 (grassetto mio). xii.Id.,Il Risorgimento., cit. 87.xiii.Pisano
R., Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine
dell’Ottocento.
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