domenica 25 aprile 2021

Memoranda/ I “fragili sogni” di Adriano Balbo, partigiano combattente

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C’è un versante insospettato e avvincente della personalità di Adriano Balbo (1924-2017), appassionato fautore della Resistenza in Valle Belbo e fondatore della II Divisione Langhe con il cugino Piero Balbo Poli, il leggendario capitano Nord di Beppe Fenoglio. Una poliedrica disposizione artistica gli consente di esprimersi con disinvoltura con ogni linguaggio: fotografia, letteratura, disegno e pittura, musica e poesia accompagnano e forse sostengono il risoluto e inflessibile comandante Giorgio – dall’animo attento e gentile, generoso di vita e di ideali- nei 20 mesi vissuti per lo più alla macchia con cinque valorosi compagni di battaglia “ferocemente ricercati dai nazifascisti”.

Iscritto alla Facoltà di Medicina dell’Università di Torino, il giovane Adriano appartiene a una colta e agiata famiglia cossanese, di lunga tradizione militare: come ricorda Renato Grimaldi, «il nonno Pietro ha combattuto nell’ultima Guerra d’Indipendenza e il padre Umberto nella Prima Guerra Mondiale, mentre lo zio Giovanni, Medaglia d’oro per la Resistenza, e il cugino Piero Balbo, già ufficiale di Commissariato nella Regia Marina, saranno appunto con lui i protagonisti assoluti della guerriglia partigiana nelle Langhe».

Fragili sogni 1

Quella cupa e appassionata stagione segna profondamente la mente e l’anima dell’intrepido Giorgio, che combatte strenuamente fino alla Liberazione, anche dopo aver subito una vera e propria esecuzione presso il ponte di Campetto, in Valle Belbo. L’ottima formazione scolastica al Liceo Rosmini di Torino- che ne ha forgiato il pensiero liberale e la rigorosa coscienza morale-, l’attitudine sportiva temprata dal rugby e dall’arrampicata, insieme alla passione per la musica americana, contribuiscono a conferire un tocco internazionale alla sua preparazione culturale.

Nel contempo però, pur frequentando la buona borghesia torinese, il ventenne Balbo sviluppa un profondo attaccamento alle proprie radici: da abile cacciatore, impara a sentire il respiro della natura, a esplorare palmo a palmo le colline e i ritani, ma soprattutto a rispettare i contadini come preziosi custodi della terra e quindi della vita stessa. Proprio in virtù di tale straordinaria affezione alle proprie origini, nel drammatico momento in cui si trova a confrontarsi con la crudeltà della guerra civile, riesce a fare la scelta più coraggiosa, per quanto difficile: mentre l’amico del cuore segue le orme del padre federale, Adriano si vota alla lotta armata, nell’irrefrenabile spinta morale a recuperare la libertà civile e a restituire le terre ai legittimi proprietari.

Con le minuziose descrizioni delle sue Cronache di lotta partigiana: Langhe 1943-1945, pubblicate in una nuova edizione nel 2017, sembra incidere a caratteri cubitali ogni vicenda vissuta: tragici scontri armati, fughe rocambolesche, attese angosciose, pause strategiche, contatti determinanti, cruciali decisioni, desideri mitizzati, paure e speranze, restano scolpiti in modo indelebile nella sua e nostra memoria, sullo sfondo della continua, oppressiva minaccia di una morte assurda, iniqua e senza appello. Tra i suoi  prodotti artistici spicca sicuramente la canzone scritta da lui sui ribelli di Cossano.

Nel primo dopoguerra, il fascino dell’altrove e la libertà di poter esplorare altri mondi diventano forti incentivi per prendere distanza da quel tragico vissuto e ristrutturare quindi un temperamento versatile come il suo, a lungo sottoposto a rischi di ogni natura. L’esperienza dell’allontanamento dalla Valle Belbo, così impregnata di perdite umane e distruzione, ha forse anche la funzione di fugare fantasmi ingombranti, mitigando il divario tra l’abitudine ormai acquisita alla vita banditesca e la possibilità di procrastinare il ritorno a una “meritata” quotidianità semplice e laboriosa, nutrita dagli affetti, che ritroverà soltanto dopo qualche anno, esercitando la professione di dentista a Torino.

“Finita la guerra, volevo il mondo”, ammetterà in età avanzata, raccontando il suo viaggio lungo e avventuroso, pubblicato nel volume di Renato Grimaldi Comunità di collina: un sistema di sistemi. Nei tre anni “sabbatici” concessi dal padre prima di laurearsi, con lo pseudonimo di Dani Balbo, l’inquieto studente assume, tra l’altro, il ruolo di fotografo di scena e aiuto-regista sul set del colossal brasiliano O’ cangaçeiro, diretto da Lima Barreto.

Le vicende di quel periodo, ma anche gli orrori e le crudeltà della lotta armata riecheggiano angosciosamente nel volume postumo L’estate ha giorni e notti. Poesie 1942 -2005, che raccoglie buona parte della produzione poetica e artistica del “patriota combattente”, ovvero i versi scritti dal 1942 al 2005 – per lo più fino al 1951 – a Cossano Belbo, Torino, Parigi, Tangeri, San Paolo del Brasile e Montevideo, corredati da alcuni disegni gentilmente concessi dalla sua amata Gianna.

Inserto 2Da raffinato “poeta della vita”, il giovane Adriano ricostruisce le proprie tracce disseminate nel tempo e ordinate da lui stesso secondo una cronologia che segna anche il proprio processo evolutivo in senso critico ed emozionale: «di anno in anno / di paese in paese / di città in città / di mare in mare / di volto in volto / di parola in parola. / Sogno dopo sogno».

Si tratta di “momenti vissuti e mai passati”, che riverberano una creatività essenziale, eppure straordinariamente matura, anche quando sviene espressa in lingua francese o spagnola.

L’arte diventa pertanto una preziosa alleata per esorcizzare l’inesorabile. L’8 giugno 1944, il ventenne Giorgio, al ponte di Campetto vive infatti una “piccola morte”, che lo rende per sempre cosciente del grave passo: «sarà l’unica volta nella mia vita / che compirò qualcosa di decisivo, senza rimpianti,/ senza pesare atto e conseguenze. / I pazzi e i morti / non hanno paura dei ricordi».

Semplici descrizioni e folgoranti immagini di bellezza naturale si alternano poi a fredde istantanee sull’azione militare – come il 2 novembre 1944 –, un esclusivo reportage che costringe anche noi, spettatori postumi e perciò inconsapevoli, al contatto irreversibile con la sordida realtà della guerra civile. Il patriota Giorgio la registra nel più scarno realismo: «Ci sono tutti, i fratelli dell’altra barricata. / Ci sono tutti, con tutto il loro odio. / Giorno di gloria per loro / combattimento aperto. […] Era il giorno dei Morti. / Alba era presa».

Nella cruda denuncia dello scempio di vite spezzate, aspirazioni infrante, brutalità irredente, la potenza sensoriale della sua narrazione ci fa impantanare nei prati della periferia di Alba, riprovare l’orrore dei morti impiccati, sentire il puzzo acre della polvere da sparo e il «tambureggiare delle mitragliere», ma anche coltivare disperatamente il desiderio dei «venti caldi del Sud e delle nuvole in fuga negli spazi».

In alcune liriche prorompono elementi forti a cui, come all’«aspra rupe» sommersa dall’oceano fremente, l’autore è sopravvissuto, «tangibile, ma intatto». In altre, residui di scenari orrendi balenano all’improvviso tra idilliache immagini di pace, mentre accorate evocazioni di figure amorose, nostalgie di sentimenti vitali, ma anche «rimpianti esacerbati senza speranza», esprimono con forza l’essenza di una giovinezza ancora pulsante, eppure gravata da intollerabili ricordi «con la spensieratezza colposa di chi non sente il ritmo incorruttibile del tempo». In tutte si aprono interrogativi profondi, incisi su fondali vuoti, quasi a confermare che, di fronte al gioco feroce della storia, anche la poesia si fa discernimento e impegno.

I toni amari che intridono i versi quasi come la pioggia, ripetutamente evocata da questo Partigiano insolito quale «naturale lavacro delle umane infamie», sembrano stemperarsi nella fiera consapevolezza di aver speso le proprie giovanili energie per l’irrevocabile ideale abbracciato da studente, capace di combattere per la causa della libertà, ma anche di tradurne sul piano espressivo i dolorosi, assurdi contraccolpi.

Del travagliato cammino in cui «on a marchédes jours et desnuits / sans savoir les raisons exactes de nos pas», resta soprattutto l’insondabile dolore esistenziale, assimilato da una sensibile intelligenza e pudicamente protetto dalle intrusioni: «Sono fragili i sogni / […] li tengo per me solo».

Alla nostra etica confusa e accomodante viene invece consegnato il “testamento” di una stagione senza ritorno, conservata con cura dal tempo di una giovinezza mai tradita, insieme all’imperativo di una scelta inevitabile, benché dolorosa.

 

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