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Draghi al telefono
Draghi al telefono, un’emozione. Il 2 febbraio scorso, all’acme del suo incensamento mediatico, in uno studio de “la7” popolato da prezzolati lecchini, Bruno Tabacci fece sapere al mondo che quando Obama era in difficolta diceva ai sui collaboratori di chiamargli Draghi. “Chiamate Mario” diventò così lo spot che annunciava l’arrivo del Salvatore…
Non sono ancora passati 3 mesi, ma adesso Mario ha altri interlocutori telefonici. Sabato scorso, telefono in mano e orecchio attento agli ordini, Draghi ha dovuto rimandare il Consiglio dei ministri dalla mattina al pomeriggio, poi dal pomeriggio alla sera. Solo a quel punto ha potuto far approvare ai suoi ministri il mitico e (per gli italiani) disastroso Recovery Plan, ora chiamato PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Al telefono aveva la piccola Merkel dal sangue blu, al secolo Ursula Von der Leyen.
Secondo i soliti giornaloni, sempre proni davanti a colui che Francesco Cossiga definì come un “vile affarista”, le telefonate di sabato sarebbero state addirittura una “Prova di forza con l’Europa”. Come no? Basta crederci.
A chi scrive pare piuttosto il contrario. Una straordinaria, gigantesca e plateale prova di debolezza e subalternità. A 48 ore dalla sua presentazione in parlamento, l’approvazione governativa del PNRR era ancora soggetta agli ultimi diktat di Bruxelles. Un’umiliazione senza precedenti per chi si pensava intoccabile. Ma una cosa è presiedere la Bce, altra guidare un Paese deliberatamente mandato alla rovina… Pensate cosa avrebbero scritto i giornaloni se fosse successo a Conte. Ma Draghi non si tocca, quando telefona meno che mai! Ed il servilismo è tale che a Palazzo Chigi si risparmiamo ormai anche la fatica delle solite veline.
Oggi il Piano del governo è stato approvato in fretta e furia, da deputati che non hanno avuto neppure il tempo di leggerne l’intero contenuto. Così va l’Italia commissariata dall’Ue, tanto più in tempi di Covid. Lo stato d’emergenza, formale e sostanziale, serve anche a questo.
Avremo modo di tornare sopra al PNRR. Per adesso limitiamoci alla sua funzione di fondo. Erano passate poche ore dalla sua definizione in sede europea, quando definimmo il Recovery Fund (dal quale il PNRR è scaturito) come un pericolosissimo Super-Mes. Qualcuno pensò che il nostro giudizio fosse il frutto di un’esagerazione e di un pregiudizio. Adesso, a quasi un anno di distanza, anche i cantori della “bella Europa”, sono invece costretti ad ammettere la dura realtà.
Sul Corriere della Sera di ieri, Federico Fubini ha messo nero su bianco alcune righe che parlano da sole. A proposito della emblematica giornata di sabato, il giornalista così parla delle richieste dell’Ue:
«Quelle poste dalla Commissione Ue a Palazzo Chigi per tutto il giorno in una serie ininterrotta di chiamate fino alle 20,30 di sabato sono solo le prime di una lunga serie. Durerà anni. Forse sempre con le modalità di questi giorni: acquisizione di “precisazioni” da Roma, consultazione di un quarto d’ora fra desk tecnici a Bruxelles, e nuova chiamata con nuove richieste di chiarimenti. A oltranza».
Bene, ora che sappiamo che a Roma governeranno di fatto i “desk tecnici” di Bruxelles, e che lo faranno “ad oltranza”, ci sono ancora dei dubbi sulla trappola che dal Recovery Fund ci ha portato al PNRR? Se ci sono, qualche altra riga del Fubini può servire a fugarli del tutto:
«Perché sempre più è chiaro, almeno a Bruxelles, che quelle oltre 500 schede-progetto mandate dall’Italia non sono solo la messa in musica delle 300 pagine del Piano di ripresa e resilienza. Sono di fatto il programma, già scritto dal governo a Roma e blindato nel rapporto con Bruxelles, della prossima legislatura».
Insomma, nel 2023 al massimo si voterà, ma il programma del governo che ne scaturirà è già scritto: un ottimo esempio della democrazia reale in salsa eurista.
Il Fubini è un megafono del regime, un portavoce del trasversale partito draghiano. Ma, a differenza di tanti colleghi più sfortunati di lui, egli non è deputato ad innalzare comici inni all’inesistente Europa buona e solidale. Il suo compito è più rude, ma in un certo senso più onesto. Il suo target non è la platea degli euro-ringrulliti, bensì la classe dirigente in senso lato. Affinché anch’essa capisca a dovere quali sono i paletti di un Paese commissariato.
Commissariato a tutti gli effetti grazie a un Piano che non dà all’Italia risorse nuove, ma solo prestiti da restituire. Quei soldi il nostro Paese poteva ottenerli sui mercati finanziari ad un costo sostanzialmente equivalente, ma senza condizioni politiche a cui assoggettarsi. Tecnicamente era possibile, ma ciò sarebbe risultato inaccettabile ai signori di Bruxelles, Berlino e Francoforte. Essi non temono i debiti dell’Italia, bensì un’Italia indebitata con altri che non siano loro stessi. Dunque quell’alternativa era possibile, ma non restando nell’euro. Per la banale ragione che chi l’euro lo stampa per acquistare i titoli del debito ha il coltello dalla parte del manico. Un potere di vita e di morte che l’oligarchia eurista non abbandonerà certo di sua sponte.
Da sempre uomo della grande finanza internazionale, a Draghi quel coltello va benissimo. Come va bene ai partiti che con lui governano. Per non parlare di Confindustria, che ha nel vincolo esterno l’arma decisiva per abbattere i salari. Quel coltello va bene ovviamente anche ai tanti Fubini ben retribuiti per il loro sporco lavoro.
E’ il popolo che sta protestando in queste settimane, a chi si mobilita per il lavoro, il reddito e la libertà, che spetta il compito di liberarsi da questa intollerabile minaccia. Una minaccia che lorsignori vorrebbero eterna, proprio come il loro amatissimo stato d’emergenza.
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