La crisi del Covid-19 ci pone davanti ad un aumento della disoccupazione di massa. Secondo l’Istat nel III trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, gli occupati sono diminuiti di 622mila unità (-2,6%), fra questi i dipendenti sono diminuiti di 403mila unità e gli indipendenti di 218mila unità.
sinistrainrete.info Domenico Moro
I disoccupati[1] sono invece aumentati di 202mila unità (+8,6%) raggiungendo la cifra di 2milioni 486mila. Anche gli inattivi – cioè quelli che comprendono i cosiddetti “scoraggiati” che neanche provano a cercare lavoro – sono cresciuti di 265mila unità (+2%)[2]. Bisogna, inoltre, aggiungere che l’aumento dei disoccupati e degli inattivi avviene in un contesto di blocco dei licenziamenti. Ad essere state colpite dall’aumento della disoccupazione sono state, fino ad ora, le figure precarie dei lavoratori a tempo determinato. Secondo alcune stime[3], l’eliminazione del blocco dei licenziamenti potrebbe generare un milione di disoccupati in più, portando il loro numero totale a oltre 3,5 milioni, una cifra impressionante, che metterebbe a dura prova non solo la tenuta del welfare ma anche la tenuta sociale e politica del sistema.
Comunque, la situazione occupazionale italiana era tutt’altro che rosea anche prima del Covid-19. L’economia italiana è stata una delle più lente nella Ue a recuperare dalla crisi precedente. Nel 2019, il numero degli occupati (22milioni 687mila) era ancora leggermente inferiore al picco pre-crisi, registrato nel 2008 (22milioni 698mila)[4]. Anche nel confronto con il resto della Ue la situazione italiana è tra le peggiori: il tasso di occupazione (15-64 anni) in Italia nel 2019 era del 59%, mentre era del 68,4% nella Ue a 27 e del 68% nell’area euro, con la Germania al 76,7%, la Francia al 65,5%, e la Spagna al 63,3%[5].
Di fronte a questi dati appare chiaro quanto il tema della disoccupazione sia fondamentale nello scenario politico italiano. Per questo è importante avere una chiara visione teorica della disoccupazione e delle sue cause. A tale scopo partiamo dalla teoria borghese mainstream che individua come causa principale della disoccupazione la rigidità del mercato del lavoro, ossia la difficoltà a ridurre il costo del lavoro e i salari.
I neoclassici e la critica keynesiana
Lo scambio tra maggiore flessibilità del lavoro e maggiore occupazione, su cui si sono basate le politiche del lavoro degli ultimi decenni, affonda le radici nella teoria neoclassica, che andava per la maggiore prima degli anni ‘30 ed è stata ripresa successivamente dal neoliberismo. Secondo i neoclassici la disoccupazione è impossibile se non come fenomeno transitorio. Questo per due ragioni. La prima starebbe nel fatto che, se nel mercato del lavoro esistono lavoratori disposti a lavorare che non trovano lavoro, la pressione che questi lavoratori esercitano sul mercato del lavoro farà cadere il salario fino a quando le assunzioni saranno più convenienti per gli imprenditori e l’intera disoccupazione verrà assorbita. La seconda, la cosiddetta legge degli sbocchi, dice che qualsiasi produzione dà luogo a una domanda equivalente, per cui gli imprenditori, se aumentassero la produzione, avrebbero la possibilità di collocarla sul mercato. Quindi la disoccupazione porterebbe alla riduzione dei salari che a sua volta spingerebbe i datori di lavoro ad assumere i disoccupati e ad aumentare la produzione, creando così una domanda equivalente. In questo modo l’espansione economica dovrebbe continuare fino a raggiungere la piena occupazione. Se così non avviene, la responsabilità, per i neoclassici, è del movimento sindacale che, mettendo fuori gioco il meccanismo della concorrenza, impedisce alla disoccupazione di provocare la caduta dei salari. La realtà degli ultimi decenni dimostra che il sistema capitalistico non funziona esattamente così, in quanto un’alta disoccupazione può, anzi deve, sussistere insieme a un abbassamento del costo del lavoro e dei salari.
Come abbiamo detto, la dottrina neoclassica andò per la maggiore fino agli anni ’30, quando apparve la teoria keynesiana. Secondo Keynes non è l’azione dei sindacati a produrre la disoccupazione ma la struttura stessa del capitalismo[6]. Innanzi tutto Keynes precisa che non è la caduta dei salari monetari che spinge i capitalisti ad assumere ma è la caduta dei salari reali. Ma anche se calassero i salari reali, l’aumento di offerta non troverebbe un aumento di domanda equivalente. Questo perché l’aumento di reddito, generato dall’aumento della produzione e dell’occupazione, fa aumentare i consumi ma non in modo equivalente, perché solo una parte del nuovo reddito viene spesa in consumo, il resto viene destinato al risparmio. La domanda globale aumenta quindi meno dell’offerta globale. Inoltre, se l’offerta cresce più della domanda, i prezzi tendono a calare fino a quando l’eccesso di offerta viene eliminato, ristabilendo la situazione di partenza.
La disoccupazione segnala una situazione di squilibrio, che, secondo la teoria neoclassica, può essere corretto dagli stessi meccanismi di mercato. Al contrario, secondo Keynes, il mercato non è in grado di determinare da sé la piena occupazione.
Visto che il mercato non è in grado di riassorbire la disoccupazione, Keynes esamina tre strumenti di politica economica. I primi due, di competenza dell’autorità monetaria, sono l’aumento di quantità di moneta e le operazioni di mercato aperto, cioè l’acquisto di titoli nei mercati di borsa, che dovrebbero condurre all’abbassamento del tasso d’interesse e quindi facilitare gli investimenti e l’occupazione. Il terzo strumento è l’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica. Keynes si dichiara scettico sui primi due strumenti, perché nei periodi di depressione il saggio di profitto è basso e, anche se vengono offerti finanziamenti a tassi ridotti, questo può non essere sufficiente a invogliare i capitalisti a fare nuovi investimenti.
Dunque, l’unico intervento efficace è quello pubblico, mediante l’acquisto di beni e servizi, il cosiddetto moltiplicatore. Secondo Keynes, si può aumentare la domanda statale anche senza fare ulteriore debito pubblico, mediante l’aumento dell’imposizione fiscale, che, con maggiori entrate, vada a compensare l’aumento delle uscite. In questo modo, si trasferirebbero risorse dal settore privato, che ha una bassa propensione di consumo, al settore pubblico, che ha invece ha un’alta propensione di consumo. Keynes, però, non prevedeva che l’intervento pubblico si mantenesse durevolmente, ma che venisse eliminato non appena il meccanismo di accumulazione si fosse rimesso in moto.
L’aspetto decisivo è che, per Keynes, l’intervento dello Stato è funzionale alla sopravvivenza del capitalismo – in un momento molto particolare, quello degli anni ’30 in cui si temeva un collasso del sistema – e non alla sua trasformazione in senso socialista.
Critica al Keynesismo
Il problema principale della teoria keynesiana è che l’aumento della domanda da parte dello Stato può dare momentaneo respiro al capitale ma non ne risolve i limiti strutturali. Come riconosce lo stesso Keynes, alla base della crisi e dell’aumento della disoccupazione c’è la scarsa redditività degli investimenti. Da un punto di vista marxista, ciò vuol dire che al di sotto della crisi della domanda c’è la caduta tendenziale del saggio di profitto. Questo comporta che la crisi non è mai semplicemente una crisi da sottoconsumo ma è essenzialmente una crisi di sovraccumulazione di capitale. Ciò significa che è stato accumulato troppo capitale affinché questo dia il profitto aspettato dai capitalisti e ogni nuovo investimento è sempre meno redditizio.
Quindi, se non si interviene sulla struttura produttiva non vengono meno le cause della crisi e l’intervento statale ha un effetto momentaneo e, in caso di grave e perdurante sovraccumulazione di capitale, deve essere ripetuto all’infinito, sostenendo così artificialmente l’accumulazione di capitale. La conseguenza è un debito pubblico crescente, come abbiamo visto in diversi momenti della storia recente del capitalismo, ad esempio in Paesi come l’Italia e il Giappone. Questo anche perché praticare una imposizione fiscale che compensi con maggiori entrate l’aumento delle uscite è politicamente difficile da perseguire, anche per l’opposizione dei capitalisti. Del resto, se il problema è rappresentato dalla bassa redditività del capitale, una imposizione fiscale maggiore può annullare l’effetto positivo dell’aumento della domanda complessiva sul profitto. Dunque, nei fatti è difficile aumentare le spese dello Stato senza crescita dell’indebitamento pubblico. I capitalisti, inoltre, sono contrari all’intervento dello Stato, sia come imprenditore sia come erogatore di welfare, perché ciò porta alla diminuzione della disoccupazione e all’aumento dei salari, che deprimono ulteriormente il saggio di profitto.
L’unica soluzione che, nell’ambito dei rapporti di produzione vigenti, permette di riprendere il ciclo d’accumulazione con un saggio di profitto ristabilito a livelli adeguati è la distruzione dell’eccesso di capitale, che ne riduce la sovraccumulazione. Infatti, le politiche keynesiane si sono dimostrate realmente efficaci solo in concomitanza di eventi come le guerre.
Queste, in primo luogo, giustificano spese enormi e a debito da parte dello Stato; in secondo luogo, la spesa militare va direttamente alle aziende e non costituisce una spinta all’aumento dei salari, come il welfare. Soprattutto, le guerre determinano una distruzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione e infrastrutture, giustificando un aumento delle spese per la ricostruzione e ristabilendo le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione di capitale. Le politiche keynesiane messe in atto dal presidente USA Roosevelt durante gli anni ’30 non risolsero la crisi, tanto che, dopo pochi anni, ci fu una ricaduta nella depressione. Fu solo lo scoppio della guerra mondiale a far uscire gli USA dalla grande depressione e a permettere il lungo periodo di sviluppo detto dei “Trenta anni gloriosi”. Anche nel periodo successivo la crescita statunitense è stata mantenuta mediante le ingenti spese militari, tanto da far parlare di keynesismo militare.
La soluzione alla crisi, dal punto di vista del capitale, sta, quindi, nella “distruzione creatrice” di cui parla Schumpeter, che riprende il concetto da Marx. In pratica, è quanto sta accadendo ora.
La pandemia permette la distruzione di capitale, un po’ come farebbe una guerra, eliminando capitali troppo piccoli e non competitivi e favorendo, attraverso centralizzazioni e concentrazioni, i grandi capitali che, oltre ad avere, grazie alle maggiori dimensioni, la possibilità di sopravvivere alla crisi, vengono anche favoriti dallo Stato, che si assume il ruolo di facilitatore alla concentrazione di capitale attraverso sussidi e aumenti di capitale alle imprese più forti.
Ritornando alla disoccupazione, l’intervento dello Stato, in ambito capitalistico, può in certe condizioni ridurre la disoccupazione. Queste condizioni però non sono puramente economiche, ma sono soprattutto politiche. Ad esempio l’intervento statale subito dopo la seconda guerra mondiale fu sollecitato oltre che dalle lotte operaie, anche dal confronto competitivo con l’Urss. Inoltre, in Italia ad esempio, l’intervento statale era non solo rivolto all’acquisto di beni e servizi ma consisteva anche nella produzione di beni e servizi, attraverso le partecipazioni statali, il che contribuiva a innalzare il tasso di occupazione specie al Mezzogiorno. Quindi, l’intervento statale avveniva sia dal punto di vista della domanda sia da quello dell’offerta. Tutte condizioni che oggi mancano.
Ad ogni modo, quel che va sottolineato è che all’interno del capitalismo non si può arrivare alla piena occupazione neanche nelle fasi di espansione economica.
La legge generale dell’accumulazione: la disoccupazione come aspetto necessario al capitalismo
Marx nel Capitale ha come scopo l’individuazione delle leggi che caratterizzano il movimento del capitale. Una delle leggi più importanti è la legge dell’accumulazione capitalistica, che ha importanti effetti anche sulla popolazione della classe lavoratrice[7]. L’aspetto su cui la legge incide maggiormente è la composizione del capitale, ossia la proporzione in cui il capitale si divide tra capitale variabile (forza lavoro) e capitale costante (mezzi di produzione, cioè macchinari, materie prime, edifici, ecc.). La composizione di capitale si distingue in composizione di valore e composizione tecnica. La prima indica il rapporto tra il valore del capitale costante e il valore del capitale variabile, la seconda il rapporto tra la quantità di mezzi di lavoro impiegati e il numero di lavoratori addetti. La prima viene determinata dalla seconda. Se il capitalista introduce una macchina più efficiente ed espelle operai, avremo un aumento della composizione tecnica cui corrisponde un aumento della composizione di valore. Composizione tecnica e composizione di valore sono strettamente correlate. Marx le definisce insieme con un unico termine: composizione organica di capitale.
La tendenza del capitalismo è la continua accumulazione di capitale, cioè l’allargamento ininterrotto del processo produttivo e quindi l’aumento della forza lavoro e dei mezzi di produzione impiegati. Ad ogni fase di accumulazione il capitale totale aumenta, ma con una importante differenza: non tutte le parti del capitale aumentano allo stesso modo. La parte che va in capitale variabile aumenta in modo inferiore rispetto alla parte che va in capitale costante. In questo modo si determina un aumento della composizione organica di capitale, che, come abbiamo visto altrove[8], sta alla base della legge della caduta del saggio di profitto. Ma l’aumento della composizione organica sta anche alla base di un’altra legge, quella della popolazione specifica del modo di produzione capitalistico.
Infatti, visto che la parte variabile aumenta ma sempre in misura inferiore a quella dei mezzi di produzione assistiamo a due tendenze. Da una parte, cresce la domanda di lavoro, anche perché nuovi settori di produzione vengono creati dallo sviluppo capitalistico. Dall’altra parte, diminuiscono i lavoratori impiegati dal singolo capitale. Dunque, il movimento del capitale produce in continuazione una popolazione operaia eccedente, che viene definita da Marx esercito industriale di riserva. La produzione di una sovrappopolazione, ossia di una popolazione di disoccupati, rappresenta la condizione d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Un certo grado di sovrappopolazione è necessario al capitale per varie ragioni. La prima risiede nel fatto che, senza la pressione che i disoccupati esercitano sugli occupati, i salari di questi ultimi crescerebbero, riducendo il plusvalore e quindi il profitto. Di fatto, per quanto riguarda il prezzo della forza lavoro, la legge della domanda e dell’offerta è profondamente condizionata dalla sovrappopolazione relativa. Questa situazione è permanente perché i capitali supplementari che fanno ingresso nella produzione non riescono ad assorbire per intero la quota di lavoratori espulsi dal processo produttivo a seguito delle innovazioni tecnologiche. La seconda risiede nelle modalità di movimento dell’accumulazione del capitale che è estremamente elastica. Infatti, la produzione può variare e nuovi capitali possono essere investiti nelle fasi espansive del ciclo o con lo sviluppo di nuovi settori, da cui la necessità di forza lavoro immediatamente disponibile a basso prezzo.
Quindi, il movimento del capitale ha un carattere duplice, in quanto l’accumulazione, da una parte accresce la domanda di lavoro e, dall’altra parte, espellendo lavoratori dalla produzione, accresce l’offerta di lavoro.
L’aumento della domanda di lavoro non si traduce necessariamente in un numero maggiore di lavoratori impiegati dal capitale, perché la pressione dei disoccupati sugli occupati obbliga questi ultimi a fluidificare, come dice Marx, una maggiore massa di lavoro, cioè li obbliga al lavoro straordinario.
Ciò avviene perché ogni capitalista ha interesse a spremere una quantità uguale o superiore di lavoro da un numero inferiore di lavoratori con salari orari inferiori o uguali. Il che è come dire che il capitale ha interesse a sfruttare più che può il lavoratore già impiegato piuttosto che assumere nuovi lavoratori. In questo modo, la crescita della sovrappopolazione relativa diventa più veloce della rivoluzione tecnica del processo produttivo, sospinta dal progresso dell’accumulazione e dalla diminuzione della parte variabile in proporzione a quella costante.
Da quanto abbiamo detto, si ricava la legge generale dell’accumulazione capitalistica: quanto più è grande la ricchezza sociale – cioè la grandezza e la capacità d’accrescimento del capitale – tanto più grande è l’esercito industriale di riserva. La ricchezza sociale, accumulata in modo capitalistico, determina nello stesso tempo l’aumento della produttività e la crescita della classe lavoratrice da un lato e, dall’altro, la crescita dell’esercito industriale di riserva. Gli stessi fattori che accrescono la ricchezza sociale accrescono anche la sovrappopolazione e la miseria. Questa è la tendenza intrinseca al modo di produzione capitalistico. Tuttavia, come ricorda Marx, questa legge, come ogni altra legge, va intesa in senso dialettico, cioè può essere alterata da circostanze storiche intervenienti, tra cui l’azione della classe lavoratrice e dello Stato, ma anche da fattori come le tendenze demografiche della popolazione.
Conclusioni, un intervento statale di tipo particolare
La piena occupazione è impossibile in ambito capitalistico. È possibile che la disoccupazione si riduca a un livello basso o molto basso, ma perché questo accada devono concorrere più circostanze: da una fase espansiva del ciclo economico a rapporti di forza favorevoli al lavoro salariato. Sicuramente condizioni non presenti in questa fase.
La piena occupazione è possibile solo modificando i rapporti di produzione e passando da una produzione privata e per il profitto ad una produzione sociale e per la soddisfazione dei bisogni.
Il problema, quindi, non è solo economico ma è soprattutto politico. Questo vuol dire che la disoccupazione è risolvibile solamente in un contesto socialista. Questo deve essere ben chiaro.
Il problema che si pone oggi è quali sono le parole d’ordine che debbano essere agitate tra i lavoratori in una fase politica non rivoluzionaria e di crisi profonda e strutturale. Abbiamo visto tra gli anni ’80 e gli anni ’90, che il capitalismo, arrivato a un certo livello di sovraccumulazione, ha fatto in modo di smantellare la produzione statale, trasformandola in privata, per avere nuove occasioni di profitto. Oggi, per la prima volta dopo trenta anni si parla di nuovo di intervento statale, ma si tratta di un intervento organizzato in modo tale da evitare il controllo dello Stato su pezzi di economia e persino la sua partecipazione alla governance delle imprese. L’ingresso del capitale statale è funzionale a quello privato, attraverso le ricapitalizzazioni pubbliche delle imprese private. La massa di denaro pubblico che verrà resa disponibile a seguito della pandemia andrà a favorire l’accumulazione di capitale. Una parte delle imprese verrà distrutta mentre un’altra parte verrà rafforzata. In questo quadro non possiamo che aspettarci un aumento della disoccupazione. Quale potrebbe essere, dunque, la proposta alternativa per combattere la disoccupazione? L’unica proposta, atta a riassorbire parte consistente della disoccupazione, sarebbe che lo Stato intervenga direttamente nella produzione di beni e servizi sia al di fuori che all’interno del mercato. Ma questo intervento deve avvenire mediante imprese che siano enti economici e non società per azioni quotate in borsa, come sono ora le cosiddette imprese di Stato. Enel, Eni, Leonardo e Fincantieri sono di fatto delle public company sul modello anglosassone e rispondono al criterio dell’ottimizzazione dei profitti come tutte le imprese private. Inoltre, l’intervento dello Stato dovrebbe anche prevedere almeno un certo grado di programmazione.
Si tratta di una proposta che, ne siamo consci, richiede rapporti di forza che oggi non ci sono e la cui attuazione dovrebbe fare i conti con la natura non neutrale dello Stato, che è sempre della e per la classe economicamente dominante. Inoltre, non possiamo dimenticare che una tale proposta cozzerebbe contro le regole europee, a partire da quella del divieto agli aiuti di Stato, rendendo necessaria l’uscita contestuale dalla Ue e dall’euro.
Del resto, la questione della modificazione del modo di produrre è strettamente connessa con il tema della conquista del potere politico e della macchina dello Stato da parte della classe lavoratrice.
Malgrado tutto ciò, ha senso, già da ora, porre la questione della modalità di organizzazione della produzione, il che implica dare risposta a tre domande fondamentali: cosa, come e per chi produrre. Solo in questo modo possiamo collegare la tattica politica dell’oggi alla prospettiva strategica della realizzazione del socialismo.
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